“Alla figlia che si stava spegnendo regalò un cane preso al rifugio… e poi dovette partire. Quando rientrò in anticipo, assistette all’impensabile. Chiunque venga a sapere come è andata davvero non riesce a trattenere le lacrime.”
— Pa’… — sussurrò Liza, voltando la testa con uno sforzo enorme, come se quel semplice gesto le pesasse addosso.
Da quattro mesi viveva in una stanza d’ospedale. La malattia avanzava senza tregua, ombra dopo ombra, e di quella bambina che correva per casa, rideva, costruiva castelli di cuscini e credeva nei miracoli, sembrava rimanere solo un profilo fragile.
Deglutii, con un dolore muto che stringeva dentro. Quando Liza chiese un cane, per un attimo le si illuminò il volto, come se una scintilla avesse bucato il buio.
— Certo, amore — dissi piano, cercando una sicurezza che non avevo. — Quello che desideri.
Il giorno dopo andai al rifugio. In quella sala, tra decine di gabbie, il mio sguardo si fermò su di lei: magrolina, bianca e nera, occhi profondi in cui si rifletteva un mondo intero — intelligenti, inquieti e dolci insieme.
— Si chiama Luna — spiegò la volontaria. — È buonissima. Soprattutto con i bambini.
— Perfetta — annuii. — Mia figlia la sta aspettando.
Quando portai Luna in casa e la feci entrare piano nella stanza di Liza, successe qualcosa che non vedevo da settimane: mia figlia sorrise. Un sorriso vero, caldo, vivo. Abbracciò il cane, affondò le dita nel suo pelo come in una coperta che scalda l’anima e mormorò:
— Lei capisce che sto male… Papà, grazie…
La vita però non ci permise di restare a lungo in quel momento sospeso. Dopo un paio di giorni dovetti partire d’urgenza per lavoro: non rinviabile, legato al nostro futuro. Liza restò con la sua matrigna, la mia seconda moglie, che mi promise di occuparsene.
— Non preoccuparti, andrà tutto bene — disse, tranquilla.
Partii col cuore pesante, aggrappandomi alla speranza che Luna sarebbe rimasta accanto a Liza, che non si sarebbe sentita sola.
La trasferta finì due giorni prima del previsto. Rientrai la sera e mi investì il silenzio. Niente risatine soffocate, nessun passo leggero sul parquet, nessun ticchettio di zampe per il corridoio.
Un presagio mi trapassò il petto. Corsi in camera di Liza: vuota. Sul pavimento una ciotola asciutta, e piccole impronte di zampe verso la porta.
In cucina c’era mia moglie. Seduta. Un tè in mano, lo sguardo di ghiaccio.
— Dov’è Liza?… E il cane?! — mi uscì a bruciapelo.
— Quella pulciosa l’ho data via! — sbottò. — E Liza è in ospedale. Ha avuto la febbre. Con quel sacco di pulci in casa…
Non ascoltai altro.
Un’ora dopo ero in corsia. Liza giaceva pallida, con le lacrime agli occhi.
— Papà, se n’è andata… l’ho chiamata… e non c’era… Perché?
— La ritroverò, amore — le promisi stringendole la mano. — Te lo giuro.
Per tre giorni e due notti non dormii. Girai la città, chiamai tutti i rifugi, le cliniche veterinarie, affissi annunci, chiesi aiuto a sconosciuti. Ero disposto a tutto.
Al quarto giorno trovai Luna. Rannicchiata in un angolo del box, guaiva piano, come se avesse capito che la salvezza era vicina. Appena aprii la gabbia, mi saltò addosso con una forza fatta di paura, amore e sollievo, come a dirmi: “Siamo di nuovo insieme”.
Tornai in ospedale e portai Luna direttamente da Liza. Per la prima volta dopo mesi nei suoi occhi si accese una luce vera.
— L’hai riportata… allora anch’io potrò tornare, vero?… A casa?
Sono passati due mesi. E un poco alla volta è successo l’incredibile: Liza ha cominciato a riprendersi. L’incarnato è tornato rosato, i movimenti più sicuri, la voce più piena. E la matrigna?…