— Vadimka, ho una notizia clamorosa! — annunciò Sveta, in piedi davanti allo specchio mentre passava con cura il mascara. Gli occhi le scintillavano d’aspettativa, le labbra si arcuavano in un sorriso soddisfatto. Si contemplò un istante, come una sovrana pronta a proclamare un editto. — Domani sera arriva mia madre. Il tuo compito: l’appartamento deve brillare. Niente ragnatele, niente polvere, neppure un granello! Fingi che debba venire la regina Elisabetta in persona: ecco il livello di pulizia che voglio.
Fece una pausa, assaporando l’effetto, poi riprese con il tono di un generale prima dell’attacco:
— Adesso vado dall’estetista per il manicure e poi, forse, con Lius’ka passiamo alla SPA… o magari resto da lei a chiacchierare: è una vita che non ci vediamo e abbiamo mille argomenti, soprattutto femminili. Insomma: la casa è affar tuo. Torno tra circa sei ore. Fai tutto alla perfezione: mamma nota ogni cosa! Una volta ha scovato un granellino di polvere sopra il frigo, e io l’avevo passato col panno una settimana prima! Quindi, caro, non farmi fare brutta figura. Meglio esagerare che beccarsi le sue ramanzine.
Vadim aggrottò la fronte. Le sopracciglia gli si alzarono, la voce gli uscì bassa e brontolona:
— Sveta, ti rendi conto? È tua madre che viene, non la mia. Perché non pulisci tu? Sono diventato la domestica di famiglia?
Tacque, misurando la situazione. Da una parte la suocera, dall’altra il lavoro di casa; in mezzo, i suoi piani per la serata, che in realtà non aveva, ma in quel momento avrebbe voluto inventarsi una fuga. Quando s’era sposato non aveva firmato alcun contratto di pulizie; per lui non rientrava certo nelle “mansioni maschili”.
Sapeva però bene che la suocera aveva occhi da aquila e cuore da inquisitore: se avesse scorto anche solo un tappo non avvitato o una riga di polvere, la sua voce si sarebbe sentita dal pianerottolo. Paradossalmente, al negozio non leggeva le scritte minuscole dei blister, ma in casa scovava la polvere nei recessi dove neppure l’aspirapolvere arrivava.
Vadim pensò alla via di fuga: taxi e sparire, come altre volte quando la suocera capitava all’improvviso. Ma erano “tempi nuovi”: senza permesso non si andava da nessuna parte. La pulizia era inevitabile.
Sospirò e guardò la moglie. Sveta lo fissava con l’aria di chi sta per interrogarlo sull’etica coniugale. Se lo sguardo uccidesse, lui sarebbe già disteso sotto un lenzuolo.
— Se adesso ti rifiuti — disse lei, stringendo i pennelli come armi —, posso anche rinunciare a Lius’ka. Però tornerò di pessimo umore e pulirai sotto la mia supervisione. Ogni granello, ogni mensola. E non provare a protestare.
Sveta sapeva schiacciare fino a piegare anche il più cocciuto. Un brivido freddo corse sulla schiena di Vadim: sapeva che una discussione gli sarebbe costata giorni. La moglie nelle offensive logiche era imbattibile: se le fosse servito, avrebbe “dimostrato” che il Sole gira intorno alla Terra.
— Ma figurati, tesoro! Non privarti del piacere — bofonchiò lui, stirando un sorriso che pareva una smorfia. — Non ti preoccupare della casa: faccio tutto io. Promesso: quando rientri, qui brillerà. Perfino tua madre resterà senza parole.
Sveta si illuminò come dopo una vittoria e tornò a truccarsi. Sapeva che gli uomini non si lodano in anticipo: si montano la testa. E poi, perché ringraziare per ciò che è già dovere?
Nel frattempo, Vadim elaborò un piano più furbo. Aveva qualche risparmio di cui Sveta ignorava l’esistenza; pareva il momento giusto per spenderlo. Non aveva alcuna intenzione di pulire da solo. Avrebbe pagato volentieri qualcuno per farlo al posto suo.
Gli venne in mente una ditta di pulizie. Digitò il numero della prima agenzia che trovò:
— Mi serve un intervento urgente! Se possibile, una ragazza subito! — quasi implorò.
Dopo pochi scambi, l’operatrice:
— L’orario più vicino è alle sette di sera. Va bene?
— Alle sette?! Mi serve adesso! È questione di vita o di morte! Avete magari un uomo?
— Gli uomini stanno sui cantieri. In squadra pulizie non ne abbiamo, e comunque sono tutti occupati.
Deluso, chiamò altre aziende: le tariffe per l’urgenza gli fecero rizzare i capelli. Tutto ciò che pensava di risparmiare sarebbe evaporato. Il piano crollò come un castello di carte.
Stava già rassegnandosi all’immagine di sé con lo straccio in mano quando squillò il telefono: era la prima agenzia.
— Giovane, si è liberata una specialista. Possiamo mandarla subito.
— Certo! Subito! — esultò Vadim come un bimbo davanti a un gelato.
Si versò un caffè, si lasciò cadere sul divano, deciso a godersi qualche minuto di pace. Niente social — Sveta poi controllava — ma un film sì, perché no?
Dopo mezz’ora, il campanello. Vadim volò alla porta… e rimase di sasso. Sulla soglia c’era Marinka — Marina — la stessa ragazza che lui all’università aveva liquidato con crudeltà. Quella che gli regalava cartoline, che gli aveva persino lavorato a maglia una sciarpa; e lui, per tutta risposta, l’aveva derisa davanti all’intero corso. Ora era lì, con una borsa di prodotti e un aspirapolvere lavasciuga lucido come un carro armato nuovo, e un sorriso che prometteva una serata… interessante.
Nei movimenti c’era sicurezza, precisione, una grazia quasi atletica: non sembrava una semplice addetta, ma la regina del comfort. Era più bella di allora. Eppure, ironia della sorte, i water restavano i suoi alleati più fedeli.
— Ma guarda chi si vede! — provò a scherzare Vadim, mascherando l’imbarazzo. — Dai, entra, ospite d’onore.
— Ciao, Vadim — rispose lei, varcando la soglia con naturalezza. — Da dove comincio?
— Quasi mi vergogno a dirti cosa fare — balbettò lui, con un’ansia nuova in petto. — Non mi aspettavo… insomma, volto noto. Ti va un caffè? O un tè?
— Scusa, sono in servizio. Più finisco presto, prima sono libera — tagliò corto Marina.
— Che donna impegnata sei diventata — mormorò lui, un filo d’invidia. — Va bene, organizza tu. Nell’ordine ho scritto tutto.
Marina si mise al lavoro senza una parola di più. Nessun ricordo condiviso, nessuna domanda: il passato, per lei, era un libro chiuso. Si muoveva in casa con la fluidità di una coreografia; Vadim la seguiva con lo sguardo, incapace di staccarsi da quella sicurezza. Persino Sveta, con tutti i suoi meriti, al confronto impallidiva. Perché non l’aveva saputa vedere, allora?
— Marina, perché questa distanza? — tentò lui. — Com’è andata la vita? Sei felice?
E fu travolto dalla vergogna: gli tornarono in mente le parole scagliate anni prima, quando lei gli aveva donato la sciarpa. “Con quelle mani strofini i cessi e poi mi fai una sciarpa? Noi due non siamo una coppia. Il tuo destino è strofinare i gabinetti, il mio sedermi sulla poltrona del direttore.” Un boomerang, ora, che gli fischiava vicino alle orecchie.
— Va tutto bene. Vivo bene, non mi lamento — disse Marina, continuando.
— Ti sei sposata?
Neppure lui capiva perché quella domanda lo divorasse: forse sperava che fosse libera, che da qualche parte lo serbasse ancora in un angolino.
— Non ancora, ma presto. E tu?
Il tono non lasciava intravedere interesse; pura cortesia. Questo lo punse. Avrebbe voluto sentirsi importante almeno per un istante. Ma non fece in tempo a rispondere.
— Qui vicino al letto ci sono dei… mutandoni. Li metto a lavare o nell’armadio? — chiese lei, sollevando con due dita la biancheria di Sveta.
— Lascio fare a me! — sbottò lui, rosso, e scappò verso il cesto della biancheria.
Da lì, silenzio. Marina si concentrò e basta; lui diventò semplice sfondo. Gli bruciava, ma non poteva darlo a vedere. Così, per strapparle una reazione, azzardò:
— Ti ricordi cosa ti dissi? Che il tuo destino erano i cessi. Alla fine, fai ancora questo lavoro.
— Avevi visto lungo. Dal destino non si scappa — rispose pacata, senza sollevare lo sguardo.
Qualcosa dentro Vadim si incrinò. Possibile che non l’avessero ferita? Che non contasse più niente? Gli vennero gli occhi lucidi; ingoiò il nodo.
Quando finì, Marina si tolse i guanti, si asciugò le mani e sorrise:
— Controlla pure. Sono 5.350 rubli.
Vadim ne contò 5.500, allungandoglieli con un sorrisetto:
— Tieni il resto per il tè. Con questo ritmo, mangi poco: sei tutta pelle e ossa.
Marina infilò i soldi nella tasca della tuta, alzò le spalle:
— Vedo che sei diventato generoso.
A lui suonò come un complimento. Non voleva che se ne andasse.
— Aspetta, prendo l’immondizia e ti accompagno almeno fino alla fermata.
— Non serve, sono in macchina — declinò lei.
— Ancora la vecchia Zhigulì del nonno? — sogghignò.
— Diciamo di sì — fece lei, neutra.
Uscirono comunque insieme. Appena Marina premette il telecomando e i fari di un SUV imponente si accesero, Vadim rimase a bocca aperta.
— È la tua?
— Mia — annuì, riponendo con gesto sicuro gli attrezzi nel bagagliaio. Si tolse la tuta, restando in shorts e canottiera: più che una donna delle pulizie, sembrava la modella di uno spot. Vadim trattenne a stento un sospiro. Avrebbe voluto mollare tutto, divorziare, portarla via. Ma lei lo guardava come si guarda un ricordo archiviato.
— E hai comprato un’auto così… lavando i water?
— Prova tu, poi ne riparliamo — sorrise. — Scusa, il mio fidanzato mi aspetta. È stato un piacere rivedere un vecchio amico. In bocca al lupo.
Rimase in strada a guardare il SUV allontanarsi. Tornò su, con il sacco dell’immondizia in mano, e chiamò l’agenzia:
— Pronto, chi è venuta per l’urgenza di oggi?
— Marina Arkad’evna, la proprietaria. Ha fatto un’eccezione e ha preso lei l’ordine. Vuole lasciarle un messaggio?
— No… grazie.
Riattaccò. Guardò il sacco nero. E capì la beffa: Marinka, quella che lui aveva respinto ridendole in faccia, “lavava i water” e guidava un SUV; lui, che sognava la poltrona del direttore, portava la spazzatura per conto della moglie. Sbuffò amaramente e scese verso i cassonetti, con un unico desiderio in testa: tornare indietro e cambiare tutto. Ma quella porta, ormai, era chiusa.