«Al lavoro hanno iniziato a puntare il dito contro di me per un ammanco consistente, ma poi ho notato che la direttrice finanziaria — che guarda caso è anche la mia migliore amica — si era appena regalata una macchina straniera nuova di zecca.»

«Sette milioni e quattrocentomila» — disse Orlov, l’amministratore delegato, con un tono piatto, neutro, privo di emozioni. Non sembrava pronunciare una cifra, ma piuttosto una condanna. Non c’era rabbia, non c’era compassione: solo gelo. Ed era proprio quell’assenza di colore a renderle parole terrificanti.

Non mi guardava nemmeno. Il suo sguardo non si posava su di me, ma oltrepassava la mia figura e si conficcava nel muro alle sue spalle, tappezzato di attestati, targhe e premi aziendali, che improvvisamente apparivano come gusci vuoti, reliquie di un passato ormai senza valore.

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Accanto a lui, rigida e perfetta come scolpita nel marmo, c’era Marina: la mia migliore amica, la persona di cui mi fidavo di più e, al tempo stesso, la direttrice finanziaria. Seduta con le mani giunte sul grembo, una cartellina allineata con cura millimetrica davanti a sé, emanava la stessa precisione di un orologio svizzero. Quella non era una riunione, era una rappresentazione teatrale. E lei ne era protagonista.

— Non capisco… — mormorai, la voce rotta, sottile, quasi infantile.

Orlov sospirò con lentezza, come chi compie un gesto inevitabile ma indesiderato. Poi inclinò la testa verso Marina, cedendole la parola.

Lei annuì con un’eleganza che mi trafisse più di qualsiasi insulto. Mi parlò con il solito “tu”, ma senza più traccia di intimità:
— Anna, dai tuoi accessi sono partiti trasferimenti verso società inesistenti. In termini chiari, il denaro è stato dirottato su conti fittizi. È frode.

Quelle sillabe erano fredde come metallo. La osservai, disperata, cercando in quegli occhi almeno un frammento della donna con cui avevo condiviso risate, notti di confidenze, bicchieri di vino. Ma davanti a me non c’era più un’amica: solo un accusatore.

— Deve esserci un errore… — balbettai — le password… nessuno poteva usarle…

— I log parlano chiaro, — mi interruppe con voce tagliente — l’accesso è avvenuto dal tuo computer, durante il tuo turno.

Ogni parola era un chiodo piantato nella bara. “Sette milioni e quattrocentomila”. Non più numeri: un verdetto. La fine di tutto.

— Ma la settimana scorsa mi avevi detto che era tutto a posto! — gridai, con rabbia e disperazione.

Marina abbassò lo sguardo per un istante, tradendo un impercettibile tremito. Poi, gelida:
— A quel momento non risultava nulla. È comparso venerdì sera.

Venerdì. Lo stesso giorno in cui mi aveva chiesto un favore: andare a prendere suo figlio all’asilo perché lei, a suo dire, sarebbe rimasta in ufficio fino a tardi. Mi fidai. Ero stata io stessa ad aprirle la porta della mia rovina.

Il resto precipitò. Orlov mi sospese, io consegnai badge e computer come si depone un pezzo di sé, e uscii da quell’ufficio sotto lo sguardo vuoto di Marina.

Più tardi, nel parcheggio, la vidi salire su un SUV nero lucente, lo stesso modello che un mese prima definiva “un sogno impossibile”. Il prezzo corrispondeva in modo inquietante alla somma che mi attribuivano. In quell’istante ogni tessera si incastrò: il venerdì, l’asilo, il suo silenzio. Tutto aveva un senso atroce.

Non mi restava che reagire. Con l’avvocato Vol’skij, secco e pignolo, raccolsi prove, tracce digitali, legami con società fittizie intestate a parenti di Marina. La misi alle strette. Le diedi un ultimatum: confessare o finire sotto inchiesta penale.

Crollò. Piangendo, ammise tutto.

Il giorno dopo Orlov mi chiese scusa, offrì reintegro e promozione. Rifiutai: in quel mondo non c’era più posto per me. Uscii dall’azienda come da una prigione. Per la prima volta dopo anni, respiravo davvero.

Negli anni successivi aprii la mia società, la feci crescere, ricostruendo da zero una vita libera e solida. Marina, invece, la rividi per caso dietro la cassa di un supermercato: spenta, invecchiata, ridotta all’ombra di sé stessa.

Ci scambiammo un cenno. Nessuna rabbia, nessuna vendetta. Solo il silenzio di un capitolo chiuso.

Fuori pioveva. Inspirai l’odore dell’asfalto bagnato e capii che il passato mi aveva finalmente lasciata andare. Davanti a me non c’era più il ricordo di un tradimento, ma la certezza di un futuro che mi apparteneva.

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