«Mio marito accantonava di nascosto denaro per l’amante e il figlio che ha con lei, senza immaginare che sua madre fosse dalla mia parte.»

«— Ninùl, prendi un altro croissant?»
Kirill le fece scivolare davanti un piatto di dolci ancora tiepidi. Il profumo di burro e zucchero glassava la cucina di un calore domestico. Parlava piano, con quella premura che somiglia a una carezza più che a un invito.

«No, amore, grazie», rispose Nina, stringendo la tazza di caffè come fosse un’ancora. «Ricordi che stiamo tirando la cinghia.»

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«Hai ragione», annuì lui, rigirando lo zucchero nella tazzina con una lentezza studiata. «Dobbiamo resistere ancora un po’. Il progetto sta per decollare, chiuderemo il mutuo e poi prenderemo quella casa con la terrazza grande. La vedi, vero?»

Nina la vedeva davvero: una veranda ampia, gerani rossi alle ringhiere, vasi sospesi, sedie di legno che scricchiolano al mattino, luce che passa tra tende leggere. Un posto dove poter essere sé stessa senza contare le monete, senza sacrificarsi per sogni altrui. Ci credeva come si crede in un amore: senza prove, con tutta l’anima.

Era una moglie ubbidiente. Non per natura, ma per scelta antica: aveva deciso che la loro famiglia funzionasse così. Aveva abbandonato un lavoro impegnativo che amava — e nel quale guadagnava bene, con progetti stimolanti e prospettive chiare. Kirill, con la sua dolce insistenza, l’aveva convinta.
«Ninùl, ma che vita è? Trasferte, straordinari, clienti isterici… Sei una donna, riposati, sii felice», sussurrava abbracciandola.
«Però è un posto stabile», provava a ribattere lei, schiacciata da quella sicurezza che le pesava addosso come una coperta troppo pesante.
«Ho la soluzione perfetta», aveva annunciato mostrandole una stampa di un annuncio. «Segretaria in un liceo: l’anzianità conta, alle tre sei a casa, niente stress, weekend liberi, lunghe ferie estive. Ti dedichi al nostro nido. Ai soldi penso io, non ti preoccupare.»

Parole avvolte di premura, con dentro la presunzione di sapere sempre meglio. E Nina disse sì. Le parve un gesto d’amore. Finì a lavorare come segretaria per una paga che spariva in bollette e spese fisse. Contava ogni centesimo, rinunciava a un rossetto, al parrucchiere, al piccolo superfluo, in nome della loro «meta comune».

Accettò perfino di rimandare i figli, benché li desiderasse da tempo. Non sapeva che al posto delle risate di un bambino sarebbero arrivate notti lunghe di ansia e interrogativi; al posto della felicità familiare, l’ombra ben pettinata di una pace finta.

I soldi, tutti, passavano per le mani di Kirill.
«Non stancare la tua testolina con i numeri, ci sono io», diceva con quel sorriso protettivo da meteo sereno.

E Nina tirava un sospiro: se si prendeva tanto carico, voleva dire che teneva a loro — no?

L’unica a non farsi incantare dalla sua immagine era Ella Borisovna, la madre di lui: donna concreta, sguardo affilato, voce che taglia il silenzio.

Una sera, rimaste sole in cucina, la suocera entrò dritta nel punto:
«Nina, sei brava… ma troppo fiduciosa.»
«In che senso?»
«Parlo di vita. Con gli uomini e coi soldi si guarda sempre bene. Mio marito — che Dio l’abbia in gloria — sognava in grande e ci lasciò debiti.»

Nina tacque educatamente. Kirill non era così, si ripeteva. Lui era diverso: attento, responsabile, innamorato… almeno così le sembrava.

Non sapeva che quel «fiume tranquillo» si era già fatto palude, e sul fondo giaceva il suo tradimento.

Il mondo le crollò addosso un martedì qualunque. Kirill partì per l’ennesima «trasferta urgente» e il lavandino della cucina si intasò. L’acqua sporca ristagnava, emanando un odore acido, come se la casa protestasse. Lei sospirò: gliel’aveva detto la settimana prima.
«Che idraulico, Ninùl? Ci penso io nel weekend, non buttiamo soldi!»
Quel weekend non arrivò.

Cercando un attrezzo sul balcone — polvere, freddo, vecchi sci, barattoli di vernice secca, un pallone sgonfio: un cimitero di oggetti — spostò irritata un cassetto con l’attrezzatura da pesca di lui e scovò una cartellina rigida blu.

La curiosità, quando azzanna, non molla. Aprì.

Il primo foglio era un estratto conto di un deposito di cui non sapeva nulla. Quattro milioni e mezzo.

Le mancò l’aria. Pensò agli stivali invernali rimandati, alla crema viso sostituita con una da farmacia, ai capelli tinti da sola davanti allo specchio.

Ma il colpo vero arrivò con il foglio successivo: contratto d’affitto di un appartamento in un quartiere di pregio. Sotto, la ricevuta di una retta per un asilo privato, intestata a un certo Artëm Kirillovič, tre anni. Kirillovič.

Non fu solo uno schianto: furono schegge ovunque.

Le gambe le cedettero, si accasciò sul pavimento gelido del balcone. I fogli le volarono attorno come uccelli spaventati. «Ecco dove finivano i nostri risparmi», pensò. Mentre lei comprava carne in offerta, lui pagava la culla di un’altra vita. Mentre lei risparmiava sul parrucchiere, lui costruiva un’altra casa.

Era stato il suo sacrificio a finanziare la felicità vera di lui. E lei? Un accessorio utile.

Il primo istinto fu buttare tutto in un sacco e sparire. Ma dove? Senza risparmi, senza appigli, con un mutuo che portava anche il suo nome. Si sentì gabbia, vergogna, rabbia.

Chiamò Ella Borisovna.
«Pronto?» La voce era fredda.
«Ella Borisovna… ho trovato una cartellina… c’è un bambino.»
Dall’altra parte, un silenzio breve e poi un ordine asciutto: «Non toccare nulla. Siediti. Arrivo.»

La suocera entrò con l’aria di chi ha le chiavi di casa. Si tolse le scarpe, andò dritta al balcone. Vide Nina rannicchiata; nello sguardo duro le passò un velo umano. Raccolse i fogli dal pavimento.
«Alzati. Così ti ammali. In cucina: metto il tè.»

Nina obbedì, barcollando. Si sedette fissando i piatti nel lavello.

Ella distese la documentazione sul tavolo come in un solitario, si mise gli occhiali, lesse. Il viso si irrigidì.
«Ecco, i geni del padre hanno fatto centro», mormorò, toccando il contratto.

«Vi avevo creduto», sussurrò Nina, gli occhi gonfi. «Mi avete regalato i soldi per gli stivali e io ho continuato a risparmiare per… per “noi”. E lui intanto comprava una culla per un’altra stanza.»

«Me lo ricordo», annuì la suocera. «Ma adesso basta lacrime. Prima si agisce, poi — se proprio — si piange. Muoviamoci.»

Si tolse gli occhiali e la guardò dritta.
«Tuo marito ti prende per una brava cuoca e basta. Non ha messo in conto una cosa: sua madre è una contabile con quarant’anni di mestiere. Ti insegno io i conti. Va bene?»

Nina fece sì con la testa. Quella sera, la ragazza innamorata si spense. Al suo posto restò una donna con la calcolatrice in mente e un filo di ghiaccio nel petto.

Qualche mese dopo, in tribunale, gli occhi erano su di lei. L’ex marito sedeva curvo accanto all’avvocato, lanciandole sguardi lividi, come se tutto fosse colpa sua. L’avvocato di Nina smontava pezzo a pezzo le difese della controparte. Sul banco del giudice sfilavano scontrini di gioiellerie, bonifici verso la carta di Oksana, conti di ristoranti dove con Nina non era mai stato.

Il colpo di grazia fu una tabella che Nina aveva compilato di notte: accanto a ogni spesa superflua di Kirill, una riga di vita sottratta — «– 1 paio stivali invernali», «– 3 sedute parrucchiere», «– 1 ciclo massaggi schiena». Un bilancio morale e domestico insieme.

La giudice, una donna anziana dagli occhi stanchi, guardò Kirill, poi Nina. In quello sguardo Nina lesse qualcosa oltre la pietà: riconoscimento.

La sentenza fu una scure sulla vecchia vita di lui e un varco aperto per quella di lei: metà del deposito segreto, l’assegnazione dell’appartamento, obbligo per Kirill di farsi carico del 70% del mutuo residuo — il suo «capolavoro» nascosto.

Kirill impallidì. Niente pentimento: solo rabbia impotente. Non gli doleva la famiglia; gli doleva il denaro. D’ora in poi la nuova «vera» famiglia avrebbe imparato la parola risparmio. A Oksana sarebbe toccato quello che era toccato a Nina.

Oggi Nina abita nello stesso appartamento, ma non è più un «nido». È una fortezza. È tornata nella vecchia azienda e sale i gradini della carriera con passo sicuro. Al mattino si prepara un caffè buono e lo beve nel silenzio — un silenzio che adesso profuma di libertà.

Nei weekend arriva Ella Borisovna. Cucina con lei, parlano di lavoro, del vicinato.
«Ti ho portato il tuo tortino di cavolo», dice la suocera, estraendo dalla borsa la teglia ancora calda.
«Mamma, sul serio?» sorride Nina — mamma: ormai la chiama così — «Oggi ordiniamo una pizza, tu ti riposi.»
«Pizza io?» brontola Ella, ma negli occhi le brillano scintille tenere.
«Com’è la pressione?» chiede Nina. «Hai preso le medicine?»
«Certo, tesoro, tutto sotto controllo.»

Nina guarda la città oltre i vetri. Non fa più paura. Capisce che il tradimento non l’ha spezzata: l’ha costretta a ricordarsi chi è.

E quella vittoria — concreta, pulita, sua — è più dolce di qualsiasi croissant appena sfornato.

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