A scuola la indicavano con disprezzo come “la sporca”, e persino i compagni si rifiutavano di dividere il banco con lei. Oggi, invece, il suo volto campeggia sui manifesti sparsi per tutta la città e il suo nome viene pronunciato con ammirazione e rispetto.

Ieri sono stata alla rimpatriata di classe. Ancora oggi non riesco a riprendermi: sono seduta in cucina, il tè si raffredda tra le mani che tremano, eppure è passato quasi un giorno intero. Sento che se non mi sfogo, questi pensieri finiranno per divorarmi dall’interno. Devo raccontare. Con vergogna, con la voce che trema e il cuore che duole, ma devo farlo.

Cominciamo dall’inizio. Dieci anni fa insegnavo all’ultima classe di un liceo qualunque. Studenti di ogni tipo: figli di famiglie benestanti e ragazzi “difficili”, come li chiamavamo allora. In quell’aula c’era anche Alëna Grigor’eva. Una ragazzina silenziosa, invisibile quasi. Vestiti logori, capelli spesso sporchi, un odore sgradevole che la circondava. Tra colleghi, con una crudeltà che oggi mi pesa addosso come una pietra, la chiamavamo “la sporca Grigor’eva”. Scrivo queste parole e vorrei sprofondare.

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La sua famiglia era allo stremo. Il padre, uomo dritto e onesto, aveva perso il lavoro per non aver ceduto a falsificazioni. La madre aveva resistito finché la fabbrica non chiuse. Poi arrivò l’alcol, prima nelle feste, poi nei weekend, infine ogni giorno. E la miseria si fece casa.

Alëna sedeva spesso da sola, sul davanzale del corridoio. Nessuno la voleva vicino: “povera” era l’etichetta che le avevano appiccicato. Solo un ragazzo non la ignorava: Igor’ Severtcev, il migliore della classe, figlio di un imprenditore. Ogni tanto le comprava una brioche alla mensa, le prestava un quaderno. Gesti semplici, ma veri.

Ricordo ancora il giorno del diploma. L’aula era piena di entusiasmo, tutti presi dai preparativi. Lei, nell’angolo, mi guardava con quegli occhi assetati di appartenenza.

— Vera Ivanovna, cosa posso fare? — mi chiese piano.

E lì, non so perché, persi la misura. Forse ero stanca, forse irritata, forse semplicemente crudele.

— Non ti azzardare a presentarti alla festa. È un evento solenne, e tu… sai bene. Ritira il diploma prima.

Silenzio. Risate soffocate. Alëna rossa in volto che corre via. E Igor’ dietro di lei.

— Dove vai, Severtcev? — gridai. — Hai una medaglia, sei il protagonista!

Si fermò, mi guardò fisso negli occhi e disse:
— Andate al diavolo con la vostra cerimonia.

Se ne andò. E io capii subito di aver sbagliato, ma pensavo solo a salvare la festa, non il destino dei miei ragazzi.

Il giorno dopo Alëna ritirò il diploma con una scusa e sparì. Igor’ non si presentò, suo padre neppure. Io mi convinsi che fosse meglio così: meno problemi.

Gli anni passarono. La madre di Alëna si distrusse con l’alcol, il padre morì di cirrosi. Di lei si sapeva solo che inviava qualche soldo ai vicini.

Poi ieri, la rimpatriata. Quasi tutti presenti. I “favoriti” erano cambiati, e non in meglio: Svetlana, un tempo la più bella, arrivò ubriaca; Pashka, il leader della classe, era finito in prigione; Natasha piangeva per un marito che l’aveva abbandonata con troppi figli.

E mentre riflettevo su quanto i miei giudizi di allora fossero stati ciechi, arrivò una macchina elegante. Ne scesero Igor’, distinto, e accanto a lui una donna splendida, sicura, in abito di classe. All’inizio non la riconobbi. Poi un ex compagno sussurrò:
— Ma è Margot! L’imprenditrice cosmetica!

Fu Igor’ a rivelare la verità:
— Non riconoscete? Questa è Alëna Grigor’eva.

Mi mancò il fiato. Lei mi guardò negli occhi:
— Ricordo ogni parola, Vera Ivanovna.

Io balbettavo scuse goffe, ma Igor’ fu netto:
— Non sederemo con voi.

E passarono oltre. Solo più tardi Igor’ tornò indietro e mi disse:
— Se chiederà scusa con sincerità, Alëna la perdonerà. Perché lei è migliore di noi tutti.

Così andai da lei, tremando, con le lacrime agli occhi:
— Perdonami… Signore, quanto mi sbagliavo.

Lei mi abbracciò. Solo questo. E mi disse:
— Sa, allora mi ha fatto un favore. Mi ha insegnato a non voler mai essere debole, né dipendere dal giudizio altrui.

Mi raccontò la sua vita: partita con tre mila rubli, aveva fatto mille lavori, studiato a distanza, poi aperto il primo negozio. Ora possiede una catena. E Igor’, un anno dopo, l’ha raggiunta e sposata.

Sono tornata a casa distrutta. La ragazza che disprezzavo è diventata un esempio di forza. I miei alunni “modello” sono caduti a pezzi, e lei invece ha trasformato la miseria in luce.

Ora so che il compito di un insegnante non è giudicare dalle scarpe o dai voti, ma credere nel cuore di chi ha meno.

Nella mia nuova classe c’è un ragazzo, Danilka. Orfano, vestiti sporchi, nessun amico. Gli altri lo evitano. Ma io adesso lo guardo con occhi diversi. So che forse proprio lui sarà il più forte di tutti.

Lo aiuto in silenzio, senza metterlo in imbarazzo. Perché ho imparato la lezione più dolorosa ma più vera: non è l’ambiente a fare la persona, ma la persona a nobilitare l’ambiente.

E non ripeterò più quell’errore.

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