«Lo so che sono i miei figli» mormorò, senza alzare lo sguardo. «Eppure… non so spiegare perché, ma tra noi non sento alcun legame.»

«Guardala… quanto è bella!» esclamai stringendo al petto il minuscolo corpo caldo della nostra neonata. Lizotchka dormiva avvolta in una coperta soffice, rannicchiata come un fragile batuffolo di vita, il respiro leggero appena percettibile. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. In quell’istante il mio universo si ridusse a un unico volto, a un unico respiro, a un pensiero che mi esplodeva nel cuore: «È nostra. È qui, finalmente.»

Accanto a me c’era Sasha. Fissava anche lui la piccola, ma nei suoi occhi vedevo un miscuglio di tenerezza e… qualcosa di diverso, quasi un’ombra di smarrimento. Allungò la mano e le sfiorò la guancia con un dito, con infinita delicatezza.
«Somiglia a te,» sussurrò piano. Nella sua voce, però, mancava quella gioia traboccante che avevo immaginato. Non ci feci caso allora: sì, era uguale a me, e allora? L’unica cosa che contava era che la nostra famiglia si fosse allargata, che lei stesse bene e che fossimo diventati davvero genitori.

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Gli anni passarono e, quando nacque la nostra seconda bimba, Masha, iniziai a notare ciò che prima mi ero rifiutata di vedere. Le due sorelline sembravano gemelle: stessi grandi occhi scuri, stesso nasino fine, stessa fronte alta, stessi capelli folti color della notte. Era come se fossero uscite da un vecchio ritratto di mio padre da bambino. Nessun tratto di Sasha in loro: né i suoi occhi azzurri, né le sue fossette, né quell’espressione tipica del suo volto.
Cominciava a diventare un problema. Un problema doloroso.

Una sera ero seduta in cucina, mescolando senza pensarci il tè ormai freddo. Alle mie spalle sentivo il respiro regolare delle bambine addormentate. Di fronte a me, con uno sguardo indecifrabile, sedeva mia suocera, Valentina Ivanovna. Diceva sempre di «passare solo a salutare», ma sapevo bene che quelle visite non erano mai casuali. Negli ultimi mesi fra noi c’era stato solo silenzio, freddezza e malintesi.

«Vika,» cominciò con voce cauta, come temendo di ferirmi, «le bambine sono adorabili. Però… sei sicura che siano di Sasha? Somigliano troppo a tuo padre. Due gocce d’acqua. È curioso, no?»

Il cucchiaino tintinnò contro la tazza mentre restavo immobile. Quelle parole le avevo già sentite altrove, come sussurri o battutine. Ma dette da lei, che mi chiamava «cara», mi colpirono come uno schiaffo.
«Valentina Ivanovna, che cosa sta insinuando?» la mia voce tremava. «Certo che sono di Sasha! Lo sa bene: le abbiamo tanto desiderate, le ho partorite io, lui le ha portate a casa dall’ospedale. Come può dubitare?»
Lei si limitò a fare spallucce, come a dire «chi può dirlo?». E in quel gesto lessi la certezza del suo sospetto. Mi montò dentro un’amarezza tagliente, e insieme una paura sempre più forte. Perché il vero dolore non erano le sue parole: era che anche Sasha sembrava allontanarsi dalle nostre figlie.

«Sasha, perché non sei andato tu a prendere Lizotchka all’asilo, di nuovo?» gli chiesi una notte, quando rientrò a casa quasi all’alba. Lizotchka dormiva già, Masha sonnecchiava sul divano. Io, stremata dal doppio turno e dai lavori di casa, a malapena reggevo in piedi.
«Mi sono dimenticato, scusa,» rispose distratto, togliendosi la giacca e buttandola su una sedia senza guardarmi. «Avevo troppe cose da fare.»
«Sei sempre impegnato!» non riuscii più a trattenermi. «Quando stai con loro? Quando hai giocato l’ultima volta con Masha? O letto una favola a Lizotchka?»

Lui tacque. Un silenzio lungo, pesante, fino a quando lo ruppe con una frase che mi trafisse:
«Non riesco a sentirmi legato a loro, Vika. Non so perché. Mi sembrano estranee. Ci provo, ma… non sento che siano mie.»

Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Come poteva dire una cosa simile delle sue figlie, quelle che aveva tanto desiderato? Eppure capivo che non mentiva. Sasha aveva sognato una bimba che gli somigliasse, che fosse il suo riflesso. Voleva vedersi in lei. Ma quelle due portavano il volto di mio padre. Come se solo io le avessi generate.

Cominciai a informarmi sulla genetica, sull’ereditarietà, sui geni dominanti e recessivi. Scoprii che era normale: a volte i bambini assomigliano ai nonni più che ai genitori. Mio padre aveva tratti molto marcati: occhi scuri, fronte alta, capelli nerissimi. Le bambine avevano preso da lui. Ma come spiegarlo a Sasha e alla sua famiglia, ormai convinti di altro?

Proposi un test del DNA. Non perché avessi dubbi, ma per chiudere per sempre quella ferita. Lui rifiutò.
«So che sono mie,» disse abbassando lo sguardo. «Ma non riesco a spiegarmi… non sento alcun legame.»
«Ma ci hai provato?» urlai quasi. «Hai provato a stare con loro, a giocare, a fare il padre? O aspetti che siano loro ad avvicinarsi?»

Di nuovo, silenzio. E in quel silenzio sentivo il baratro tra noi allargarsi.

Con i suoi parenti era peggio: mia suocera e mia cognata venivano di rado, e quando capitava ripetevano che le bambine «non somigliavano a Sasha». Un giorno Katja, ridendo, se ne uscì con:
«Vika, sei sicura di non averle fatte con tuo nonno?» e scoppiò a ridere come se fosse spiritosa.
Non ce la feci più:
«Katja, basta. Queste sono le mie figlie e sono di tuo fratello. Se non vi interessano, potete anche non venire.»
Lei, ovviamente, si offese. Ma cosa avrei dovuto fare? Stavo crescendo due bambine praticamente da sola, con un marito distante e parenti che aggiungevano veleno. I miei genitori vivevano lontano e non erano più giovani. Mi sentivo sola come mai.

Una sera, mentre le bambine dormivano, capii che non potevamo continuare così. O trovavamo una soluzione, o la nostra famiglia si sarebbe spezzata.
«Sasha,» dissi cercando di mantenere la calma, «so che stai male. Anch’io speravo che una delle nostre figlie ti somigliasse. Ma loro non hanno colpa se hanno preso i miei tratti. E nemmeno io. Mi fa male vederti così lontano da loro.»
Lui sospirò, a lungo:
«Mi odio per questo. Ma ogni volta che le guardo vedo tuo padre. E mi sento fuori posto.»
Gli presi la mano:
«Non sei fuori posto. Sei il loro papà. Ti amano, anche se non lo noti. Ieri Lizotchka mi ha chiesto perché papà non gioca con lei. Masha allunga le braccia verso di te e tu ti giri dall’altra parte. Loro sentono tutto, Sasha. Capiscono, anche se sono piccole.»

Abbassò lo sguardo. Gli pesava addosso come un macigno. Allora provai a proporre un passo alla volta:
«Comincia da gesti semplici. Dedica loro un po’ di tempo. Non pensare a chi somigliano. Sii presente. Sono le tue figlie.»

Sono passati mesi da quella sera. Sasha ha iniziato a cambiare. Non subito, non in modo perfetto, ma qualcosa si è mosso. Nei weekend va a prendere Lizotchka all’asilo, le insegna ad allacciarsi le scarpe, legge favole a Masha prima della nanna. Ha comprato costruzioni, disegna con loro, inventa storie buffe. E io vedo come le bambine lo cercano sempre di più: Lizotchka racconta orgogliosa alle maestre che «papà mi ha aiutato a costruire la macchina con i cubi», e Masha, che prima piangeva se la lasciavo con lui, ora corre tra le sue braccia ridendo.

Con i parenti è più difficile: mia suocera ancora ogni tanto lancia qualche frecciata, ma ho smesso di ascoltarla. Ho capito che non posso obbligarli ad amare le mie figlie, ma posso proteggere la mia famiglia dal loro veleno.

Il test del DNA non l’abbiamo mai fatto. Sasha ha detto che ormai non serve. Col tempo ha iniziato a vedere nelle bambine non solo i tratti del volto, ma anche il carattere, i gesti, le abitudini. Ha notato che Lizotchka, come lui, aggrotta il naso quando ride. E che Masha ama quando le mette la musica, proprio come faceva lui da bambino.

La nostra famiglia non è perfetta, e a volte la rabbia per il passato riaffiora. Ma vedo l’impegno di Sasha. Lo vedo imparare, giorno dopo giorno, a essere un padre. E ho capito che l’amore per i figli non dipende da chi ti somiglia di più. L’amore nasce dal tempo passato insieme, da ogni carezza, da ogni «buonanotte», da ogni lacrima asciugata. È un legame che si costruisce con il cuore, con pazienza, con presenza.**

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