«Lenochka, tesoro, metti ancora un po’ di insalata per questa splendida signora», cinguettò mia suocera Tamara Pavlovna. La sua voce era zuccherosa come marmellata, ma pungente come tabasco: una gentilezza finta che bruciava.
Annuii senza fiatare, afferrando la scodella quasi vuota. La cugina di terzo grado di mio marito Slava mi lanciò uno sguardo infastidito, lo stesso che si riserva a una mosca insistente che ronza da troppo tempo.
Mi muovevo in cucina in punta di piedi, cercando di sparire. Quella era la festa di compleanno di Slava. O meglio: della sua famiglia, che aveva invaso il mio appartamento. Quello che pago io.
Dal salotto arrivavano risate spezzate: la voce bassa e teatrale dello zio Zhenya, lo strillo acuto della moglie e, sopra tutti, il tono autoritario e trionfante di Tamara Pavlovna. Immaginavo Slava nell’angolo, il suo solito sorriso tirato, pronto ad annuire a chiunque.
Riempii di nuovo la scodella, aggiungendo un rametto di aneto per decoro. Le mani lavoravano da sole, mentre nella mia mente rimbombava un unico pensiero: venti. Venti milioni.
La sera prima avevo ricevuto l’email con la conferma definitiva. Mi ero seduta sul pavimento del bagno, per nascondermi, fissando lo schermo del telefono. Tre anni di lavoro, centinaia di notti insonni, trattative infinite e lacrime: tutto racchiuso in un numero. Sette zeri. La mia libertà.
«Allora, ti sei addormentata lì?» gracchiò Tamara Pavlovna. «Gli ospiti aspettano!»
Con la scodella in mano rientrai in sala, dove la festa era in pieno.
«Sei lenta come una tartaruga, Lenochka», mormorò la cugina scostando il piatto.
Slava fece un impercettibile sobbalzo ma, come sempre, tacque. Finché non c’era scandalo, andava bene così.
Posai la scodella sul tavolo. Tamara Pavlovna, lisciandosi la pettinatura impeccabile, disse forte, affinché tutti sentissero:
«Eh, non tutte sono nate per fare la padrona di casa. In ufficio siedi al computer, ma qui ci vuole ingegno, velocità, testa. Devi darti da fare.»
Occhi complici, cenni di approvazione. Le guance mi bruciavano.
Nel muovere un bicchiere, urtai una forchetta che cadde a terra con un tintinnio metallico.
Silenzio. Decine di occhi su di me.
Tamara Pavlovna scoppiò a ridere. Una risata cattiva, piena di veleno.
«Avete visto? Mani da arpione!»
Poi, rivolta alla vicina di posto:
«L’ho sempre detto a Slavik: non è fatta per lui. Qui il padrone di casa è lui. Lei… è solo un accessorio. Porta e serve. Non una padrona: una serva.»
Un coro di risate cattive riempì la stanza. Guardai Slava. Distolse lo sguardo, fingendo di sistemarsi il tovagliolo.
Io raccolsi la forchetta, lentamente. E per la prima volta quella sera sorrisi davvero. Un sorriso vero, non di circostanza.
Non sapevano che il castello costruito sulla mia pazienza stava per crollare. Il mio mondo, invece, era appena all’inizio.
Il mio sorriso spense le risate. Tamara Pavlovna si bloccò, la mascella sospesa a metà morso.
Non posai la forchetta: tornai in cucina, la lasciai nel lavandino, presi un bicchiere pulito e mi versai il succo di ciliegia costoso che mia suocera definiva «uno spreco assurdo».
Poi rientrai in sala e mi sedetti sull’unica poltrona libera, accanto a Slava. Lui mi guardò come se non mi avesse mai vista prima.
«Lena, i secondi si raffreddano!» sbottò Tamara Pavlovna, acida. «Devi servire gli ospiti.»
«Sono certa che Slava saprà cavarsela benissimo», dissi, fissandola e sorseggiando il succo. «È lui il padrone di casa, no? Lasciamogli fare il suo dovere.»
Tutti gli sguardi su Slava. Pallido, poi rosso, si alzò borbottando: «S-sì, certo», e andò verso la cucina.
Una piccola, dolce vittoria. L’aria si fece pesante.
Tamara Pavlovna cambiò tattica. «A luglio andiamo tutti in dacia, come sempre. Un mese. Lenochka, comincia a organizzare tutto la prossima settimana: provviste, pulizie, sistemare la casa.»
Parlava come se la mia opinione fosse irrilevante.
Posai il bicchiere. «Bell’idea, Tamara Pavlovna. Peccato che io abbia altri piani per l’estate.»
Le parole caddero come ghiaccio nel deserto.
«Che piani?» Slava rientrò col vassoio traballante. «Cosa ti inventi?»
Era così abituato al mio “sì” che il primo “no” gli suonò come un affronto.
«Non invento niente», risposi calma, guardando prima lui e poi gli occhi furiosi di sua madre. «Ho dei progetti di lavoro. Sto comprando un nuovo appartamento.»
Sorrisi. «Questo, vede, è diventato troppo stretto.»
Silenzio. Poi la solita risata stridula di Tamara Pavlovna:
«Lei compra? Con che soldi? Un mutuo trentennale? Lavorerai tutta la vita per quattro mura!»
«Tua madre ha ragione, Lena», si accodò Slava, rincuorato. «Smettila di fare scenate. Che appartamento? Sei fuori di testa?»
Gli ospiti mi guardavano con sufficienza, come se fossi una comparsa improvvisamente convinta di essere la protagonista.
«Perché un mutuo?» sorrisi. «Non amo i debiti. Pago in contanti.»
Zio Zhenya sbuffò. «Hai ereditato? Morta qualche vecchia milionaria in America?»
Risatine complici. Credevano di avere di nuovo il controllo.
«Qualcosa del genere», dissi. «Solo che la vecchia milionaria sono io. E sono viva.»
Bevvi un sorso, lasciando che le mie parole li raggiungessero.
«Ieri ho venduto la mia azienda. La startup su cui ho sudato tre anni. Importo dell’accordo: venti milioni. Già sul mio conto. Quindi sì, comprerò un appartamento. Magari anche una casetta al mare.»
Silenzio tombale. Facce allungate. Sorrisi dissolti.
Slava boccheggiava. Tamara Pavlovna impallidì.
Mi alzai, presi la borsa. «Buon compleanno, Slava. Questo è il mio regalo: domani trasloco. Avete una settimana per cercare un’altra casa. Anche questo appartamento lo metto in vendita.»
Andai verso la porta. Nessuno fiato dietro di me. Erano pietrificati.
Alla soglia, mi voltai: «Ah, Tamara Pavlovna… oggi la serva è stanca. Va a riposare.»
Sono passati sei mesi. Sei mesi di vita nuova.Sedevo sul davanzale ampio del mio appartamento nuovo. La città notturna brillava oltre le vetrate a tutta altezza: viva, pulsante. Non più ostile.
Era mia. Con una mano tenevo un bicchiere di succo di ciliegia, sull’altra il laptop aperto sui progetti della mia nuova app di architettura, già corteggiata dai primi investitori.
Lavoravo tanto, ma con gioia. Per la prima volta respiravo. Niente più tensione, niente più paura di disturbare, niente più camminare in punta di piedi a casa mia.
Da quel compleanno il mio telefono non ha mai smesso di squillare. Slava è passato dalle minacce («Senza di me sei nessuno!») ai messaggi notturni pieni di piagnistei sul «quanto eravamo felici».
Ascoltavo e non sentivo nulla. Il suo “bel passato” si reggeva sul mio silenzio. Il divorzio? Rapido. Non ha nemmeno provato a reclamare nulla.
Tamara Pavlovna è stata prevedibile: urla, accuse di «furto di figlio». Una volta mi ha perfino aspettata sotto l’ufficio. Ho scansato la sua mano senza dire una parola. Il suo potere è finito dove è finita la mia pazienza.
Ogni tanto, presa da una strana nostalgia, guardo il profilo di Slava.
Stessa stanza, stesso tappeto appeso. Faccia da eterno offeso. Nessuna festa, nessun ospite.
Qualche settimana fa, rientrando da una riunione, ho ricevuto un messaggio da un numero sconosciuto:
«Len, ciao. Sono Slava. La mamma vuole la ricetta dell’insalata. Dice che non le riesce mai così buona.»
Mi fermai in mezzo alla strada. Lessi il messaggio tre volte. Poi scoppiai a ridere.