«Ira, dove sei? Gli ospiti sono già arrivati e non c’è niente da mangiare.»
Quel messaggio lampeggiò sullo schermo del suo telefono. Lo fissò un istante, poi lo spense senza rispondere.
Quando Andrei l’aveva avvicinata per la prima volta al tecnico industriale, Ira abbassava ancora timidamente lo sguardo. Per lei, proveniente da una famiglia difficile, l’idea che un giovane insegnante ambizioso, elegante nella sua camicia dal collo rigido, si interessasse proprio a lei sembrava un sogno lontano, quasi irreale.
Era qualcosa di impossibile.
Andrei la portava al cinema, le leggeva poesie di Pasternak tenendole la mano nei parchi. La veniva a prendere con la sua vecchia Lada, e Ira si sentiva come protagonista di un film. Aveva voglia di urlare: «Guardate, anch’io conto per qualcuno!»
Credeva in lui. Sognava una famiglia. Voleva diventare una persona “normale”, diversa da sua madre, spesso ubriaca e smarrita, e da suo padre, rumoroso e cattivo, ormai solo un nome che evitava di pronunciare.
Si sposarono e iniziarono la loro vita insieme. Andrei ottenne un appartamento di servizio con possibilità di riscatto.
Le loro figlie nacquero a Capodanno, in mezzo a una tormenta: due piccoli fiocchi di neve, Alina e Marina. Ira piangeva di gioia. Le cullava, cantava loro ninne nanne, preparava puree di broccoli e le portava a fare lunghe passeggiate nel parco — voleva essere perfetta.
Andrei sorrideva, a volte. Ma sempre più spesso rientrava a tarda notte.
Diceva che si era trattenuto fuori, ma in casa si sentiva un odore di profumi sconosciuti. All’inizio Ira non ci fece caso.
Poi però sopportò tutto, per amore delle bambine, con tutte le sue forze. Crescevano, e lei pensava che per loro avrebbe tollerato qualunque cosa.
«Mamma, sei fantastica», le dicevano abbracciandola.
Ma a trentanove anni, Andrei si era fatto sempre più distante. Parlare era diventato come scambiare parole con uno sconosciuto. Non la guardava negli occhi, non notava il taglio nuovo dei capelli, le scarpe nuove, o il fatto che lei stava dimagrendo perché quasi non mangiava più.
Non la chiamava più con i vezzeggiativi di un tempo: “piccolina”, “coniglietta”, “amore”. Ormai era solo “Ira”, come una semplice impiegata.
Quando lei chiese: «Mi ami ancora?» lui alzò le spalle, come a dire “Che sciocchezza!” e rispose:
— Devi capire, è solo la vita. Le persone cambiano.
Ira era seduta in cucina da Lena, la sua amica di sempre. Fuori infuriava una bufera: marzo, capriccioso come un uomo di quarant’anni, alternava sole, neve e nuvole senza senso.
— Lena, dimmi la verità… È normale? Io gli lavo le camicie, le stiro, preparo le zuppe e lui non mi ringrazia mai.
— L’hai viziato, amica mia — sospirò Lena, spostandosi sulla sedia — Ti guarda come se fossi invisibile.
— Sospetti qualcosa?
— Sospetto? No, lo so. Torna tardi, ha profumo di un’altra addosso… — chiuse gli occhi — Non il mio, sicuramente. Dolce e stucchevole, come quello di un salone di bellezza scadente.
— Ne hai parlato con lui?
— Ho accennato qualcosa, ma lui ha detto: “Stai immaginando cose”, come se fossi isterica, e poi: “Ira, sei solo stanca”.
Lena scrollò le spalle.
— Forse dovresti parlargli seriamente. Dargli un ultimatum?
Ira la guardò con aria di sfida.
— E a che serve? Andarmene? Dove? E cosa dico alle bambine? “Papà ha un’altra e dobbiamo trasferirci in affitto”? L’appartamento è suo.
— Le bambine sono grandi ormai. Capiranno, ti vogliono bene.
— Non così tanto da chiedere il divorzio subito. Devono finire gli studi. E poi… quel che sarà, sarà.
Un silenzio pesante calò nella stanza. Ira fissò il finestrino.
— Lena… non ce la faccio più a sopportare tutto questo per lui, capisci?
Lena annuì.
— Lo fai per loro.
Ira accennò un sorriso, ma era il sorriso di chi regge da solo un muro caduto, felice di non essere crollata.
— Resisterò. Fino ai diplomi. Fino ai primi affitti e stipendi. Poi me ne andrò.
Lena annuì.
— Lo so, Ira, sei forte.
— Sono stanca di esserlo, in realtà. Non so fare altro.
Per il suo compleanno voleva riunire tutti: i quarantacinque anni.
Le figlie sarebbero arrivate dalla capitale, dove si erano trasferite da poco per studiare e lavorare.
Andrei si guardava nello specchio del corridoio, aggiustandosi la camicia e parlando veloce:
— Ira, ascolta, deve essere tutto perfetto. Non come l’ultima volta, con insalate banali e polpette asciutte. Ti ricordi?
Lei era in cucina a friggere le crepes.
— Ho ordinato bevande di qualità, non le solite — continuò, chiudendo l’orologio — Vai a prendere del pesce, serve trota. E un formaggio come quello della festa di Laris, ti ho mandato il nome in chat.
Ira non rispose, o almeno fece finta di ascoltare.
— Ah, e il dolce: qualcosa di leggero. Tiramisù? Panna cotta? Va di moda e deve essere bello.
— E tu mi dai una mano? — chiese lei senza voltarsi.
Lui sorrise ironico.
— Ira, sai com’è, ho un sacco di lavoro. Arrivo solo verso sera, sono sommerso… Dai, ce la fai, sei la padrona di casa.
Lei annuì. Ce l’avrebbe fatta. Lo faceva da vent’anni.
Indossò le scarpe.
— Solo, Ira… fai attenzione alla mise en place, ok? È una festa, non voglio che sembri come l’ultima volta.
Sbatté la porta. Il silenzio che seguì era pesante, innaturalmente rumoroso. In casa sembrava che tutto trattenesse il respiro. Perfino l’orologio da parete si era fermato, con la batteria scarica.
Ira fissò il quadrante fermo a metà e capì: era un segno.
Fuori, un giorno di marzo grigio e anonimo. Come lei. Come la sua vita. Come una festa che non era per lei.
“Accogliente…
Rendi accogliente, Ira.”
Come se l’accoglienza potesse colmare il vuoto tra due persone che un tempo erano “noi” e ora erano solo “lui” e “lei”.
Andrei tornò a casa trafelato. L’orologio segnava le 18:45. Gli ospiti sarebbero arrivati alle 19 e lui doveva ancora andare a prendere le bevande in macchina. Si era trattenuto da Yulia, la decima amante in vent’anni di matrimonio con Ira.
Ma dall’uscio lo accolse… il silenzio.
La cucina era vuota, la tavola senza tovaglia. Nel forno non c’era nulla, sul fornello un cerchio vuoto dove avrebbe dovuto esserci un bigné. Niente trota, niente panna cotta, nemmeno un barattolo di olive. Nulla.
— Ira?.. — chiamò a gran voce, ma nessuna risposta.
Percorse le stanze, aprì l’armadio. Lo spazio dove stavano i vestiti era vuoto. Spariti anche gli accappatoi. Neanche un elastico per capelli sul comodino. Nessuna traccia di lei.
Prese il telefono e compose il suo numero. Squillò una volta, due, poi il silenzio.
— Accidenti… — sbottò.
Prese a digitare di fretta: «Ira, dove sei? Gli ospiti sono già qui e non c’è nulla da mangiare.»
Prese a inviare. In quel momento bussarono alla porta.
Entrarono per primi Boris e sua moglie, sempre puntuali e i più affamati. Poi Kosta, collega di Andrei, seguito da Laris con suo marito. Risate, abbracci, regali — un brusio di festa ignaro del caos dietro le quinte.
— Andryuk, ma le insalate dove sono? — chiese Boris deluso guardando il tavolo vuoto.
— Ehm… un momento, arrivano. Ira è… è in ritardo. Sta arrivando.
— Vuoi che ti aiuti a sistemare? — propose Laris — Ti copro io!
Andrei alzò le mani, come per difendersi.
— Aspettate, ora sistemo tutto.
Provò a chiamare Ira di nuovo. Nessuna risposta. Nessuna scusa, nessun “arrivo”, neppure un segno di disprezzo.
Gli ospiti cominciavano a innervosirsi.
— Allora si fa la festa o no? — sbottò Kosta. — Non ci avete mica invitati per guardare la TV…
— Sì, sì… — Andrei rispose distratto, aprendo con rabbia l’app di consegne.
Le sue mani tremavano per la rabbia e la delusione.
In quel momento suonò il campanello.
Sulla soglia c’erano due ragazze — Alina e Marina, le sue figlie. Alte, belle, come due versioni diverse di Ira.
— Ciao papà — disse Alina con voce calma.
— Ciao — rispose lui vuoto — Ma dov’è mamma?
— Mamma non verrà — disse Marina — Siamo venute solo a farti gli auguri.
— Cosa?
— Mamma ti ha lasciato. Ora andiamo da lei, ci manca tanto. Scusa se non festeggiamo con te. Invita pure la tua nuova.
— Ragazze, aspettate — Andrei cercò di sorridere — Non avete capito bene…
— No, abbiamo capito tutto — lo interruppe Alina fissandolo negli occhi — Non siamo più bambini.
Qualcosa dentro di lui si strinse, non per colpa, ma perché tutto era ormai sfuggito al suo controllo. Non sapeva come tornare a quella vita felice di un tempo.
Dietro di loro, gli ospiti mormoravano: «Ma dov’è il cibo?» Qualcuno cercava la padrona di casa.
Andrei rimase sulla soglia, guardò le figlie e capì che era calata la cortina. Era ora di mostrarsi per quello che davvero era.
— Di’ a mamma… che lei…
— Sei un bastardo — lo interruppe Alina — Mamma ha avuto un’idea geniale per la tua festa.
Le ragazze risero, e Andrei sbatté la porta con rabbia.
Poi esplose in un urlo, ordinando a tutti di andarsene, di lasciarlo solo.
Per la sua sicurezza, gli amici se ne andarono. Non lo avevano mai visto così furioso.
Andrei rimase solo. Nessuno avrebbe potuto sostituire la sua diligente e remissiva Ira con la sua cucina casalinga, la casa ordinata e le camicie stirate. Lei non sapeva fare altro.
Yulia era perfetta solo per incontri occasionali, per ravvivare una vita familiare noiosa, ma non per gestire una casa. Come tutti gli altri amori: volevano parlare, ma non cucinare i suoi piatti.
Alina e Marina presero con sé la madre. Nonostante fossero cresciute, la amavano molto e volevano vederla felice. Al padre non rivolsero più parola. Non lo meritava.