Dal giorno in cui portarono a casa la loro bambina, il cane nero — si chiamava Ink — prese l’abitudine di stendersi davanti alla porta della camera, come una sentinella ostinata. All’inizio, Son e sua moglie trovarono la cosa perfino tenera: “Protegge la piccola”, si dicevano. Ma bastarono tre notti perché quella pace si incrinasse.
Alla quarta notte, alle 2:13 precise, Ink scattò in allerta: corpo teso, pelo rizzato, un ringhio basso puntato verso la culla accanto al letto. Non abbaiava, non saltava: produceva solo quel suono gutturale e rotto, come se qualcosa gli bloccasse la gola dall’oscurità.
Son accese la lampada e si chinò sulla figlia. Dormiva serena, le labbra che si muovevano in una smorfia di suzione. Eppure, gli occhi del cane restavano incollati al vuoto sotto il letto. Ink si appiattì, allungò il muso nello spazio polveroso e sibilò piano. Son, con la torcia del telefono, scrutò là sotto: scatole, pannolini, un velo di polvere. E un’ombra piena, compatta, come un buco senza fondo.
La quinta notte, di nuovo 2:13. La sesta, Han si svegliò con un brivido: un raschiare lento, metodico, il suono di unghie sul legno. «Topi?» mormorò, pallida. Son spostò la culla vicino all’armadio, piazzò una trappola in un angolo. Ink non si mosse di un millimetro: fissava il telaio del letto, borbottando ogni volta che la piccola si agitava nel sonno.
Alla settima notte, Son decise di restare sveglio.
Spense le luci, lasciando solo il bagliore del corridoio a disegnare una lama dorata sulla moquette. Impostò il telefono per registrare e si sedette, in ascolto.
All’1:58, una boccata d’aria fredda entrò dalla finestra socchiusa, con un odore di terra bagnata.
Alle 2:10, la casa sembrò svuotarsi, come se trattenesse il respiro.
Alle 2:13, Ink si alzò senza rumore, toccò la mano di Son col muso, poi avanzò strisciando e puntò dritto sotto il letto. Il ringhio gli esplose in petto, profondo, prolungato, come a tenere imprigionato qualcosa.
Son sollevò la torcia. In quell’attimo, un guizzo: non un topo. Una mano. Verdognola di sporco, dita nodose, raggomitolata come un insetto in agguato. La luce gli tremò nelle dita. Barcollò contro l’armadio. Han scattò a sedere, confusa, la voce rotta. La bambina, ignara, respirava piano, con un filo di latte sul labbro.
Son afferrò la figlia e la portò dietro di sé, recuperando una vecchia mazza da baseball. Ink s’infilò sotto il letto con un abbaio secco, graffiando il pavimento. Dall’ombra arrivò un fruscio gelido, poi un silenzio teso. Le luci tremolarono. Qualcosa si ritrasse, lungo e rapido, lasciando una scia di polvere nera.
«Chiamiamo la polizia, ti prego», implorò Han, in lacrime. Son compose il numero con le mani che gli ballavano.
Dieci minuti dopo, due agenti bussarono alla porta. Uno si accucciò, spostando scatole e cianfrusaglie con una torcia. Ink si piazzò davanti alla culla, labbra scoperte su denti bianchi. «Tranquillo, amico», disse l’agente, senza staccare la luce dal pavimento. Sotto il letto, nessuno. Solo polvere aggrovigliata e striature simili a graffi sulle assi.
Il fascio si fermò su una fessura vicino alla testata: il legno era stato tagliato quel tanto che basta per far passare una mano. L’agente bussò. Vuoto. «Qui dentro c’è un’intercapedine. Avete fatto lavori di recente?»
Son scosse la testa. La bambina emise un gemito. Ink girò la testa verso la fessura e ringhiò piano. Dall’oscurità, un sibilo umano, sottile: «Shhh… non svegliarlo…»
Dopo quel sussurro, nessuno in casa riuscì più a chiudere occhio.
L’agente più giovane, Dung, chiamò rinforzi. Nell’attesa staccò il battiscopa: i chiodi erano nuovi, lucidi contro un legno vissuto. «Intervento recente», borbottò. La gola di Son si seccò. «La casa l’abbiamo presa da una coppia di anziani tre mesi fa. Dicevano di aver ridipinto il soggiorno e sistemato il soffitto. La camera no.»
Con un piede di porco, Dung scardinò la tavola. Dietro si aprì un vano nero, un odore umido che si mescolava a latte guasto e talco. Ink tirò indietro Son con una spinta. Han strinse la bambina al petto.
La torcia scivolò dentro.
«C’è qualcuno?» Silenzio. Ma quando la luce scorse sul fondo, qualcosa comparve: un ciuccio, un cucchiaino di plastica, un panno spiegazzato. E decine di tacche incise nel legno, incroci come una rete.
Arrivata la squadra, inserirono una microcamera e recuperarono un fagotto di stoffa lurida. Dentro, un quaderno gonfio, pieno di pagine annotate con una calligrafia tremante, probabilmente femminile:
«Giorno 1: Dorme qui. Sento il suo respiro.»
«Giorno 7: Il cane sa. Sorveglia, ma non morde.»
«Giorno 19: Devo stare zitta. Vorrei sfiorarle la guancia. Non svegliare nessuno.»
Appunti brevi, febbrili, come scritti al buio.
«Chi abitava qui prima?» chiese un agente. Son ricordò la consegna delle chiavi: la coppia di anziani era accompagnata da una ragazza, capelli a coprirle mezza faccia. «È in ansia, non parla molto», aveva detto allora la donna anziana. Nessuno aveva approfondito.
La telecamera mostrò altro: la cavità correva lungo la parete, un cunicolo stretto. In un punto, un giaciglio arrangiato — coperta sottile, una federa, lattine di latte vuote. Sul pavimento, un’altra scritta incisa: «Giorno 27: 2:13. Respira più forte.»
Le 2:13: l’ora della poppata notturna. Qualcuno, da dentro le pareti, aveva imparato il ritmo della bambina.
«Non è un fantasma», disse Dung, cupo. «È una persona in carne e ossa.» Continuando ad ispezionare, trovarono una finestra con i chiavistelli manomessi e impronte sporche nella parte posteriore della casa. Qualcuno entrava e usciva fino a poco tempo prima.
All’alba, Dung propose: «Stanotte chiudete la stanza. Il cane resta dentro con uno di noi. Vediamo se torna.»
Quella notte, alle 2:13, il tessuto che copriva la fessura si mosse. Una mano magra, infangata, scivolò fuori. Poi un volto smunto: occhi infossati, capelli arruffati, labbra screpolate. Lo sguardo, però, era rapito dalla culla, come una sete antica.
Ancora un sussurro: «Shhh… non svegliatela… voglio solo guardare…»
Era Vy, la nipote degli ex proprietari. Aveva perso un bambino a gravidanza avanzata, era sprofondata in una depressione feroce e, in qualche modo, aveva fatto ritorno a quella casa. Da quasi un mese viveva nell’intercapedine, aggrappata al suono del respiro della neonata come a un’àncora.
Gli agenti la persuasero con calma. Prima di andare via, Vy si voltò un’ultima volta verso la culla. «Shhh…», mormorò.
Nei giorni seguenti, i vani furono murati e il pavimento rifatto. Son e Han installarono telecamere, ma la vera garanzia restò Ink. Non ringhiava più alle 2:13: si sdraiava accanto alla culla e, a volte, sbuffava piano, come per dire: «Ci sono io.»
Un mese dopo, all’ospedale per i vaccini, Han intravide Vy: pulita, i capelli raccolti, una bambola di pezza tra le dita, un sorriso timido mentre parlava con l’agente Dung. Han non si avvicinò. Si limitò ad appoggiare la guancia alla fronte della sua bambina, grata per quel respiro regolare e per un cane che aveva percepito ciò che gli altri non volevano vedere: a volte i “mostri” sotto il letto non sono il male — sono dolore che non trova casa.