Una mamma single va a controllare il piccolo di buon mattino e resta di stucco: ha già il pannolino pulito.

Una diciassettenne scopre di aspettare un bambino. I suoi genitori adottivi, ferventi religiosi, decidono di cacciarla di casa: all’improvviso non ha più un tetto né qualcuno a cui chiedere aiuto… finché l’aiuto non arriva dal luogo più imprevedibile.

«Fuori di qui!»

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La frase schioccò nell’aria come una frustata.

Sophie fece un passo indietro, le mani sul viso striato di lacrime.

«Sei una peccatrice, una vergogna!» gridò Lorna, la madre adottiva, con una voce tesa che confondeva collera e presunta rettitudine. «Non ti permetterò di restare in questa casa accanto ai tuoi fratelli e alle tue sorelle innocenti!»

Sophie cercò lo sguardo del padre adottivo, un appiglio di pietà. In silenzio, gli occhi supplicavano: «Ti prego, non lasciare che lo faccia».

Ma Harold non alzò nemmeno il capo. Le spalle curve, lo sguardo fisso al pavimento. In tutti quegli anni, non si era mai opposto a Lorna; non avrebbe cominciato ora.

Lorna le serrò il braccio e la spinse verso la porta. «I peccati dei padri!» sibilò. «Avrei dovuto saperlo che saresti finita come tua madre: senza vergogna.»

Ogni parola, un colpo inferto sempre più a fondo.

La porta sbatté alle sue spalle. Sophie rimase sul marciapiede, tremante, mentre le lacrime le rigavano le guance. In un istante, la casa che aveva chiamato “famiglia” per tutta la vita le era stata strappata via.

Dopo qualche minuto, Harold comparve dall’ombra con uno zaino malconcio, riempito in fretta.

«Tua sorella ci ha messo dentro qualcosa,» mormorò con un filo di voce. Poi estrasse dalla tasca un rotolino di banconote. «È tutto quello che sono riuscito a prendere senza che Lorna se ne accorgesse. Mi dispiace, Sophie. Ma sai com’è tua madre…»

«No, non è mia madre,» ribatté lei, raddrizzandosi. «E tu non sei mio padre. Mi avevate promesso amore incondizionato: è questo che fanno i genitori veri.»

Harold arrossì, le lanciò uno sguardo fugace e tornò in casa senza replicare.

Sophie strinse lo zaino al petto. Bambina, era stata adottata dai Jordan e cresciuta con altri quattro ragazzi. Li aveva ritenuti per anni severi ma giusti. Poi aveva capito: non era rigore, era fanatismo. Niente compleanni, niente Natale: “riti peccaminosi”. Settimane di scuola e domeniche in chiesa, fine. Vietati cinema, uscite, rossetto, feste. Da adolescente, la curiosità si era fatta fame di vita: andare al cinema con le amiche, vestirsi bene, tenere la mano di un ragazzo. Piccoli sogni, proibiti.

Quella sete l’aveva spinta oltre il limite. Il primo ragazzo gentile si rivelò una pessima scelta: fama da troublemaker, poca testa e zero rispetto. In pochi mesi, il test era positivo.

Bastò quello perché Lorna la sbattesse fuori.

Seduta su un muretto, provò a calmare il panico. Nello zaino trovò due magliette, un paio di jeans, uno spazzolino. Contò i soldi: 56 dollari e spicci. Neppure una notte in un motel scalcinato.

«Niente miracoli, eh?» sussurrò amaramente, stringendosi le braccia. «Niente angelo custode.»

Le punse il cuore. Da bambina aveva creduto, segretamente, che qualcuno vegliasse su di lei. Il giorno del compleanno comparivano regalini nel suo armadietto a scuola. A Natale — una festa proibita — trovava bastoncini di zucchero appesi all’albero in giardino o una calza piena di caramelle. Di quell’“angelo” non aveva mai visto il volto, ma i segni di bontà erano stati reali. Adesso, però, nessuno.

Con lo zaino come unica ancora, si incamminò verso il parco al tramonto. Lo stomaco vuoto, si lasciò cadere su una panchina.

«Ehi, ragazza,» disse una voce calda. «Che ti è successo di così pesante da farti crollare il mondo addosso? Forse Mama Rosa può darti una mano.»

Sophie alzò lo sguardo: una donna alta, grembiule a fiori, un mazzo di rose in una mano e cesoie nell’altra. Capelli castani raccolti, un sorriso gentile, curioso.

«Sto… bene,» balbettò Sophie.

«No, tesoro, non stai bene,» rispose Rosa sedendole accanto. «Raccontami. Non sono qui per giudicare.»

Il tono quieto e compassionevole abbassò le difese di Sophie. Parlò: il litigio, la gravidanza, l’assenza di un tetto e di soldi.

Rosa annuì, come se avesse già deciso. «Ti offrirò un lavoro,» disse senza esitare. «E un piccolo appartamento. Ma il tuo bambino sarà responsabilità tua.»

Sophie sbatté le palpebre. «Un lavoro? Davvero?»

«Certo. Ho un chiosco di fiori dall’altro lato del parco e da tempo voglio aprirne un secondo vicino al centro commerciale. Ti insegnerò a vendere e a comporre i bouquet. Ce la farai.»

Questa volta le lacrime furono di sollievo. «Amo i fiori,» sussurrò.

«Allora vieni,» disse Rosa, alzandosi. «Ti faccio vedere l’appartamento.»

Un letto pulito, una piccola cucina, una finestra sulle luci della città. Semplice, ma caldo. Per Sophie, un palazzo.

Nei mesi seguenti lavorò sodo al nuovo chiosco. I clienti amavano le sue composizioni; Rosa la lodava spesso. Andò dal medico — Rosa la accompagnò — e scoprì che lei e il bimbo stavano bene.

Cinque mesi dopo nacque Daniel, splendido. Rosa le concesse tre mesi per trovare un ritmo, ma la maternità era più dura del previsto. Daniel piangeva a intervalli regolari, il sonno si spezzava ogni due ore tra poppate e cambi. Il corpo dolente, la testa annebbiata.

Una mattina, la luce filtrava dalle tende e la casa era insolitamente silenziosa. Il cuore di Sophie accelerò.

«Daniel?» chiamò, correndo nella cameretta.

Il piccolo dormiva come un angelo, le manine sotto il mento. Pannolino asciutto; il biberon preparato a mezzanotte, vuoto.

«Strano…» mormorò. Possibile che si fosse alzata senza ricordarlo?

Accadde di nuovo la notte dopo. E quella successiva. L’ansia salì: stava forse camminando nel sonno?

Decise di restare sveglia. Verso le tre, un piagnucolio. Sophie si fermò sulla soglia.

Una donna, china sulla culla, parlava piano al bambino e lo cambiava con gesti esperti e delicati.

Sophie accese la luce. «Chi sei? Lontana da mio figlio!» gridò.

La donna si voltò, sorpresa ma non impaurita. Sollevò Daniel con naturalezza, cullandolo. «Ciao, Sophie. Mi chiamo Margaret Lawson… sono tua madre.»

Le ginocchia di Sophie cedettero.

Margaret parlò a bassa voce. «Anch’io sono rimasta incinta da adolescente. Avevo sedici anni. Mia madre pretendeva l’aborto, io non ci sono riuscita. Mi ha sbattuta fuori. Senza soldi né lavoro… ho dovuto rinunciare a te.»

Deglutì. «È stato il dolore più grande della mia vita. Ma non ti ho mai persa di vista. Ti osservavo da lontano. Ero io a lasciarti i regalini di compleanno, le calze di Natale. Volevo che sentissi, in qualche modo, che qualcuno ti amava.»

Gli occhi di Sophie si spalancarono. «Eri tu? Il mio angelo custode?»

Margaret sorrise piano. «Quando ti hanno cacciata, non potevo restare ferma. Ho chiesto a Rosa — lavora per me — di offrirti un impiego e un alloggio. Possiedo più di trenta negozi di fiori. E questo appartamento era di mia madre… adesso è anche tuo.»

«Perché non me l’hai detto prima?» chiese Sophie, la voce incrinata.

«Avevo paura che mi odiassi per averti lasciata. Volevo solo essere certa che tu e Daniel steste bene… e permetterti di riposare.»

Sophie le si avvicinò, gli occhi lucidi. «Non potrei mai odiarti. Senza te e Rosa, forse avrei dovuto rinunciare anch’io a Daniel.»

Si strinsero in un abbraccio lungo, e Margaret sorrise tra le lacrime.

Da quel giorno non si separarono più. Margaret accolse Sophie e il piccolo nella sua casa più grande; Sophie conobbe, per la prima volta, l’amore senza condizioni di una vera famiglia. L’angelo custode in cui aveva creduto da bambina non era un sogno: era sempre stato lì, in carne e ossa, in attesa del momento giusto per farsi vedere.

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