Nella saletta del personale medico aleggiava un odore zuccherino e stanco: caffè bruciacchiato, sudore asciutto, notti mai finite. L’aria, densa come gelatina, sapeva di turni massacranti, di beep ostinati e di una rassegnazione silenziosa. Nina Petrovna — fisico robusto da samovar antico, lineamenti su cui la severità aveva messo radici — faceva tintinnare il cucchiaino nel terzo caffè iperzuccherato della notte. Le dita, addestrate alla precisione di siringhe e cateteri, si muovevano da sole.
— In dieci anni qui in chirurgia pensavo d’averle viste tutte, — mormorò, senza degnare di uno sguardo la giovane ausiliaria. — Ma che il primario si presenti con una bambina… questa è nuova.
Svetlana, con negli occhi ancora il lucore fresco della scuola infermieri e il cuore non ancora corazzato dal cinismo, sospirò. Anche il camice le sembrava fuori misura: troppo bianco, troppo grande.
— E dove dovrebbe lasciarla, Nina Petrovna? Lidia… — cercò le parole più gentili. — …ha fatto i bagagli ed è andata via. Pare da quel socio d’affari. Dasha è rimasta sola. Lev Grigor’evič si divide tra sala operatoria e figlia.
— “Si divide”… — sbuffò l’infermiera capo, senza cattiveria: solo una saggezza stanca, pagata a caro prezzo. — Mano di Dio, quello. Mani d’oro. Prende casi che gli altri rifiutano. Ma la vita è un’altra storia. Sono tre settimane che sta qui con la bambina. Meno male che è quieta come un topolino: se ne sta in un angolo e disegna.
Tacquero, fissando la superficie opaca delle tazze. Entrambe pensavano allo stesso nome: Lev Grigor’evič. Nei corridoi correvano storie su di lui, soprattutto da quando aveva preso in carico quel caso disperato della stanza sette.
— E la milionaria? Sempre uguale? — sussurrò Svetlana, abbassando la voce come per non disturbare l’equilibrio tra vita e morte.
— Stazionaria, grave. Ariadna… Nome da regina. Dicono fosse una donna di forza e grazia, di sangue e latte. Dopo l’aggressione… i luminari hanno allargato le braccia, lui no: l’ha agguantata coi denti e l’ha strappata all’altro mondo. Ora non si stacca dal letto: la veglia come un cane fedele. Spera che apra gli occhi.
Svetlana sbirciò nel corridoio vuoto dell’alba. Nell’angolino bimbi, improvvisato accanto al posto infermieri, sedeva una piccola con due trecce scure, strette. Fronte aggrottata, serietà sorprendente, colorava il suo album con pennarelli vivaci, indifferente a barelle stridenti e gemiti attutiti.
— Dasha è un angelo. Sveglia, discreta. Guardarla stringe il cuore.
— E il marito di Ariadna? — cambiò registro Nina Petrovna, con un’ombra di sospetto. — Artur. Arriva, resta dieci minuti con la faccia di pietra, come a una riunione, e sparisce. Dicono sia più giovane di dieci anni. Freddo. C’è qualcosa che non torna.
La porta si aprì piano; sulla soglia apparve una figura alta, un po’ curva, in camice un tempo stiratissimo e ora stropicciato. Lev Grigor’evič. La barba di giorni gli incupiva le guance scavate; gli occhi, arrossati dall’insonnia, bruciavano di un fuoco concentrato.
— Nina Petrovna, Sveta, — la voce, di solito morbida, era roca ma d’acciaio. — Preparatevi. Mi pare che in stanza sette… qualcosa si muova. Ho visto palpebre tremare. Dinamica positiva.
Non attese risposta. Voltò l’angolo e i passi svanirono. Le due donne si scambiarono uno sguardo: odore di temporale. Di speranza.
L’angolo bimbi, nascosto in una nicchia, dominava il corridoio. Dasha stava finendo l’abito viola di una principessa quando un uomo si lasciò cadere sulla panchina di fronte. Lo conosceva: lo zio che veniva dalla “zia addormentata”. Afferrò il telefono; il bel volto levigato si deformò in una smorfia di rabbia.
— Quanto ancora devo aspettare? — sibilò, velenoso. — Io non pago per esperimenti! Doveva… insomma, muovetevi! Non aspetterò all’infinito!
Dasha trasalì, rattrappita come dopo uno schiaffo. Capiva poco, ma quel gelo cattivo lo sentiva fisicamente. E sapeva che parlava di suo papà, che non dormiva per salvare la signora. La gola le si chiuse in un nodo caldo. L’uomo scomparve oltre l’angolo con passi irritati.
Più tardi, approfittando di un momento di confusione, Dasha, in punta di piedi e stringendo l’album, si avvicinò alla porta socchiusa della stanza sette. La donna sul letto era pallida quanto le lenzuola, avvolta in fili e tubi: una bambola reduce da un gioco crudele. A Dasha parve solo molto stanca. Molto addormentata.
— Dashenka, qui non si può, — sussurrò Svetlana comparendo alle sue spalle. La prese per mano e la riportò nel suo angolo.
Ariadna, intanto, galleggiava in un buio vischioso. Non era sogno: era non-essere. Niente corpo, niente coordinate. Solo il panico animale della solitudine. Dov’era Artur, il cavaliere promesso? Perché non le stringeva la mano? Nel silenzio compatto, un suono tagliò la tenebra come un laser: dapprima lontano, poi più chiaro. Una voce femminile stanca. E una vocina di bambina: sottile, limpida, come una campanella. Se qui ci sono bambini, pensò, questo non è l’inferno. Qui è vita. Devo tornare.
Raccolse le ultime briciole di volontà, si slanciò verso quel richiamo. Un dolore feroce la trafisse; la luce esplose negli occhi. Li riaprì con fatica. Sagome bianche si muovevano concitate. Era tornata — un trionfo e una tortura.
Quando la coscienza si fece nitida, accanto a lei sedeva il medico stanco. Occhi profondi, quieti.
— Ariadna, mi sente? Sono Lev Grigor’evič. È in ospedale. È al sicuro.
— Cosa… è accaduto?
— Traumi multipli, grave trauma cranico. È stata incosciente quasi tre settimane. Ricorda qualcosa?
Tre settimane. Una campana di ghisa.
— Ricordo… l’ingresso di casa. Poi buio.
Entrò Artur. Ariadna lo attese come un naufrago attende un faro. Lui si avvicinò come davanti a una vetrina, le posò una mano fredda sulla spalla.
— Ti sei svegliata. I medici dicono che migliori, — tono piatto, da affari.
— Artur… ho avuto paura…
— Ho una chiamata importante, un minuto. — Già fuori, già al telefono. Rientrò: — Devo scappare. Sei sotto controllo. Passo dopo.
Se ne andò. Semplicemente. Il gelo le riempì le vene. Non c’era quando moriva, non gioì del suo ritorno, nessuna tenerezza. E perché, con le loro possibilità, era finita in un ospedale pubblico? Tutto stonava.
Dal fondo di quel buio riemerse un frammento — una vocina infantile: «Al posto di questa signora fingerei di essere morta, così si vede chi è davvero il marito». Non sapeva quando l’avesse sentita, ma la frase le si conficcò in testa. Prese il pulsante.
Quando Lev entrò, lei lo fissò.
— Dottore, ho una richiesta folle. Mi aiuti a far credere a mio marito… che sono morta.
— Assolutamente no! — arretrò, indignato. — Non posso mentire sulla morte di una paziente. È immorale, non etico, illegale.
— La prego! — le lacrime le velarono la voce. — Qualcosa di mostruoso mi circonda. È l’unico modo per arrivare alla verità. Mi salvi davvero.
Nei suoi occhi lui riconobbe lo stesso dolore tagliente che aveva provato davanti all’armadio vuoto e al biglietto di Lidia. Inspirò, come controvento, e infranse un principio.
— Va bene. Una volta sola. Non voglio dettagli. Lo faccio perché credo al suo istinto.
Quando Artur tornò, Lev gli andò incontro nell’atrio con la compostezza di chi annuncia l’irreparabile.
— Mi dispiace… Il cuore si è fermato un’ora fa. Complicanze imprevedibili. Le mie condoglianze.
Si allontanò in fretta, tremando di vergogna. Ariadna venne coperta fino al capo.
Artur restò immobile un istante, poi entrò, si avvicinò al letto, sfiorò la spalla con un gesto schifiltoso. Nessuna reazione. Il suo volto si deformò in una smorfia selvaggia: rise senza suono, scosso da un sollievo animalesco. Cominciò a dettare al telefono:
— Coniglietta, è fatta! Morta! Siamo liberi! Pagherò meno a quei tipi, hanno tirato lungo… non importa: conta il risultato! Arrivo!
Si voltò e si bloccò: sulla soglia, Lev, bianco come la calce. Il costosissimo smartphone gli scivolò di mano e si schiantò. Sul letto, seduta, l’“estinta” fissava Artur con una calma feroce; in mano teneva il proprio telefono: sullo schermo l’icona di una registrazione appena salvata.
— Tu… — balbettò Artur, livido. — Maledetta! Vi distruggerò!
Con un urlo inarticolato travolse chiunque gli capitasse davanti e fuggì.
— Lo fermiamo? — chiese Lev.
— Lasci stare, — la voce di Ariadna era di ghiaccio. — Il video è già arrivato dove deve. Non andrà lontano.
Uscito il medico, Ariadna si lasciò andare ai cuscini. Le lacrime, pesanti e mute, scesero non per il dolore fisico, ma per lo svuotamento, per il crollo di un’intera vita. La porta si socchiuse: una testolina con due trecce fece capolino.
— Le fa molto male? — chiese Dasha con voce di vetro lucidissimo.
Ariadna si asciugò in fretta.
— È già passato, tesoro.
— Papà dice che anche i forti piangono, ma poco. E poi serve un tè molto dolce e biscotti al cioccolato: il cuore si illumina.
Ariadna sorrise, sfiorò una treccia.
— Come ti chiami, piccola meraviglia?
— Dasha. E lei?
— Ariadna.
— Papà mi chiama libellula, — confidò la bimba.
Un brivido. “Libellula” era il suo vecchio soprannome segreto. Un filo invisibile si tese tra loro, fragile e fortissimo.
Parlarono a lungo: disegni, giornate in ospedale, papà-eroe. Il gelo interno cominciò a sciogliersi. Il giorno dopo arrivarono uomini in abiti ufficiali: interrogarono Ariadna con cura. La macchina della giustizia, lenta ma inesorabile, si mise in moto.
La sera Ariadna fece chiamare il direttore sanitario, un uomo corpulento e ansioso.
— Voglio la dimissione.
— Impossibile! — si gonfiò. — Con le sue lesioni deve restare settimane!
— Proposta semplice: finanzio la ristrutturazione completa del reparto, attrezzature di ultima generazione e tre ventilatori. In cambio, ferie retribuite urgenti al dottor Lev per motivi familiari. Sarà il mio medico personale a domicilio. E Dasha verrà con lui: aria buona, non corridoi.
Il direttore impallidì, poi arrossì. Era un ricatto palese, ma la prospettiva luccicava di gloria e budget.
— È… fuori standard…
— Ma vantaggiosissima per tutti, soprattutto per lei, — chiuse Ariadna.
Un’ora dopo era tutto firmato. Lev, frastornato, con Dasha, salì sull’auto di Ariadna verso la villa in campagna. Dasha gridò di gioia davanti alla stanza con balcone sul giardino; Lev attraversò atri di marmo, balbettando scuse e cercando un appiglio per rifiutare.
— La prego, smetta di scusarsi, — lo fermò Ariadna con una mano ferma e gentile. — E non si scusi per Dasha: credo di essere risalita alla luce grazie alla sua voce. È stata la mia guida.
Passarono mesi. In tribunale Lev sedeva accanto ad Ariadna. Il pubblico ministero elencava, monotono, fratture, ematomi, lesioni interne commissionate da Artur con la complicità di una giovane amante. Il linguaggio secco faceva più paura di qualsiasi urlo. Guardando il profilo di lei, il mento fiero, Lev capì con una chiarezza abbagliante che non l’avrebbe lasciata mai. Le cercò la mano gelata e la strinse. Lei ricambiò senza voltarsi: dentro quel gesto c’erano gratitudine, fiducia e l’alba di qualcosa di nuovo.
Lev tornò in un reparto rifatto a nuovo, tutto cromo e vetro. Dasha però restava a casa con la “mamma nuova”, come ormai chiamava Ariadna. Lei aveva piegato la sua agenda di affari multimilionari per accompagnarla a scuola, a danza, ai compiti. L’impero poteva aspettare: aveva trovato qualcosa di più prezioso.
Una sera, sulla terrazza inondata d’oro, con tè e biscotti al cioccolato, Lev — emozionato e impacciato — chiese ad Ariadna di sposarlo. Lei, ridendo tra lacrime felici, rispose che lo aspettava da due mesi e cominciava a seccarsi. I preparativi travolsero tutti: le vere direttrici d’orchestra furono Ariadna e Dasha, fra tessuti, liste infinite e discussioni epiche su tovaglie e tovaglioli.
Guardandole — diverse, irripetibili, sue — Lev capì d’aver trovato ciò che non osava sognare: un porto solido dopo le burrasche. Tutto andò al posto giusto. E il silenzio che calò in casa non era più quello della mancanza, ma della pace: una felicità piena, avvolgente, che fa respirare più largo.