La sua vita era stata un continuo correre verso il dolore altrui: camici annodati in fretta, lampade accecanti in sala operatoria, scelte che separano un respiro dall’ultimo. Alessandro non “divenne” chirurgo: ci crebbe dentro, fino a trasformarsi in un riferimento assoluto. Decine, poi centinaia di pazienti gli dovettero il ritorno a casa; negli ospedali il suo nome passava di bocca in bocca con rispetto, e all’uscita molti mormoravano: «Se sto ancora qui, è merito suo».
Arrivò però il giorno in cui anche le mani più salde tremano. Riposto il bisturi, la pensione gli parve un corridoio vuoto. Il silenzio dopo il caos lo spaventava più della morte improvvisa sul tavolo operatorio. Solo Albina, compagna discreta e vigile, sapeva leggere il malessere dietro il sorriso:
— Hai speso il cuore per gli altri, Ale. Adesso spendi un po’ di vita per noi. Non voglio che il tuo ultimo atto sia in corsia.
Parole dolci, precise come una diagnosi. Alessandro ricordò le notti senza sonno, la schiena che protestava, l’ultimo referto non proprio rassicurante. Accettò. Smise di operare. E si sentì smarrito, come un capitano senza mare.
Il destino, però, non fa sconti. Qualche anno dopo Albina si ammalò, e quell’uomo capace di strappare gli altri all’abisso non poté salvarla. Chiamò colleghi, bussò agli studi dei migliori oncologi, cercò spiragli anche dove non c’erano. Nulla. La tenne per mano fino all’ultimo, mentre il mondo cedeva.
Nel vuoto rimase Daniele: figlio non di sangue, ma di scelta. Albina lo aveva voluto con tutte le forze, convinta che l’amore fondasse legami più tenaci della biologia. Daniele, però, crebbe ruvido e indomabile. Capricci furibondi, baby-sitter che scappavano, mobili rotti, urla con gli educatori. «Questione di indole», sospiravano gli psicologi. Alessandro, preso dai turni, faceva del suo meglio: parco, libri, ammonizioni pazienti. Era come gettare semi sull’asfalto.
Quando venne il tempo dell’università, Daniele scelse medicina, forse per inerzia, forse per compiacere quel padre che cercava. Alessandro aprì portoni: rette pagate, favori, un posto in clinica. Ma il camice addosso a Daniele restava un travestimento. Ritardi, pisolini in guardiola, bicchieri al distributore durante i turni. Alessandro si ripeteva: «È mio figlio». E voltava la testa.
Poi comparve Vika. Infermiera brillante, sorriso appuntito. Amava la leggerezza, il denaro facile e le scorciatoie. Insieme, Daniele e Vika impararono a vivere “di riflesso”, attingendo dove altri avevano messo da parte, soprattutto da Alessandro.
Alla morte di Albina, l’avidità trovò spazio. La villa a due piani — dono riconoscente di un imprenditore il cui figlio Alessandro aveva salvato — divenne per Daniele un elenco di cifre, non più una casa. «Vendo, mi sistemo, copro i debiti», si ripeteva, mentre il gioco d’azzardo rosicchiava ogni risparmio.
— Papà, liberiamoci di questa carcassa — buttò lì un giorno — tra bollette e guasti è un buco nero. Non ha senso mantenerla.
Alessandro si irrigidì come ai tempi del bisturi:
— Questa casa è la nostra memoria. Andrà ai nipoti. Non permetterò che finisca sui tavoli di una bisca.
Col passare dei mesi, però, il corpo tradiva. Le ginocchia cedevano, le scale sembravano montagne, i nomi scivolavano via. Daniele e Vika si fecero improvvisamente premurosi.
— Papà, perché non una buona casa di riposo? — propose Daniele con voce carezzevole — Avrai assistenza, medici, compagnia. Noi lavoriamo tanto… E se ti succedesse qualcosa?
— Mi volete mettere via come un soprammobile — ringhiò l’uomo.
— Ma no! — intervenne Vika, occhi lucidi a comando — Pensiamo al tuo bene.
Fu in quel momento che Alessandro sentì spezzarsi l’ultimo filo. Si voltò verso la finestra, il respiro lungo.
— Va bene — disse piano — portatemi dove volete.
Niente lacrime. Solo resa.
La stanza che gli scelsero era triste: pareti scrostate, odore di umido, un soffitto che trasudava. Daniele fece persino un accordo sussurrato con un’infermiera: «Non si sprechi troppo con lui». «Vedrai, non durerà», aggiunse.
I giorni di Alessandro si accorciarono. Chiamava il figlio, lasciava biglietti, chiedeva di tornare a casa. «Domani», «Sono impegnato», «Più tardi». Poi il silenzio. Il vecchio smise quasi di mangiare, le parole gli si spegnevano tra le labbra. Fissava il soffitto, cercando Albina in qualche venatura dell’intonaco.
E proprio quando tutto sembrava finito, entrò Larisa.
Era nuova, giovane, uno sguardo attento. Appena lo vide, sbiancò:
— Ma… siete voi. Voi mi avete operata quando avevo diciassette anni. Peritonite, di notte. Ricordo la vostra voce: “Ce la fai”. Se sono viva, è anche merito vostro.
La condizione in cui lo trovava la indignò.
— Non è possibile trattarlo così — disse alla direzione — Datelo a me. Mi prendo io la responsabilità.
Da quel momento, la stanza cambiò luce. Larisa portò coperte pulite, tè caldo, libri. Gli parlava piano, gli accarezzava la mano, lo accompagnava fuori, al sole, anche se per pochi minuti. Alessandro ricominciò a mangiare, poi a raccontare. Rideva, a tratti. Un giorno le chiese:
— Perché tanta cura?
Larisa sorrise, ma il sorriso aveva una crepa:
— Perché so cosa significa essere messi alla porta. L’uomo che amavo mi ha lasciata in strada: «Non mi servi più». Ho camminato nella neve senza sapere dove andare. Poi ho pensato a quel letto d’ospedale, alle vostre mani. Qualcuno mi aveva salvata. Ho deciso che, da allora, avrei provato a restituire.
Alessandro le prese le dita, nodose, calde:
— Chi abbandona una donna così… è povero dentro.
La settimana seguente chiamò un notaio.
— La villa — disse con voce netta — andrà a Larisa. Non ho più figli in casa: lei è mia figlia nello spirito.
Pochi giorni dopo, se ne andò. Con discrezione, come un medico che esce dall’ultima sala operatoria senza far rumore.
Larisa pianse come si piange un padre. Con un avvocato curò le pratiche, poi si trasferì in quella casa troppo grande, che pian piano riempì di presenza. Il destino, stavolta, scelse la gentilezza: un giovane, nipote di una delle sue assistite, cominciò a farle visita spesso. Si accorse della luce che Larisa portava addosso. Si innamorarono. Si sposarono. Arrivarono bambini. Il giardino tornò a sentire passi piccoli, la cucina profumò di pane, le stanze smisero di scricchiolare di solitudine.
Ogni sera, al tramonto, Larisa apriva le finestre della villa e sussurrava:
— Grazie, Alessandro. Mi avete salvata due volte: ragazza, con la vostra arte; donna, con la vostra fiducia.
Sapeva che il bene, anche quando si perde e fa il giro lungo, prima o poi ritorna. Non sempre in fretta. Non senza ferite. Ma ritorna. E quello è l’unico trionfo che conta.