“Sognava di costruire un futuro lungo e sereno accanto alla giovane moglie, ma a cinquantacinque anni si ritrova a fare i conti con un rimorso che brucia.”
— Un altro caffè? — domandò la cameriera, tamburellando con l’unghia sulla tazzina vuota.
Viktor Nikolaevič trasalì. Nel semibuio del bar “Transit”, dentro la stazione, il mondo gli sembrava ondeggiare. Era lì seduto da più di tre ore.
— Come? Ah… sì, grazie. Ma senza zucchero.
La ragazza sorrise appena e portò via la tazzina. Sul cartellino c’era scritto “Alëna”. Giovane, come lo era Ksuša dieci anni prima. Stesso sguardo ironico, stesso modo di passarsi la lingua sulle labbra mentre ascoltava.
Fuori cadeva una pioggia sottile e fredda, insistente come la sua stessa vita a quell’età. Le gocce sul vetro scivolavano lente, simili alle rughe che ormai gli segnavano il viso.
Il telefono vibrò per l’ennesima volta. Non era Ksuša, solo lavoro. Ignorò la chiamata.
— Il conto, per favore? — disse la cameriera lasciandogli una nuova tazza fumante. — Tra poco finisco il turno.
— No, aspetto…
Si bloccò. Non riusciva a dire “moglie”. Lo era ancora? Dopo quei messaggi, il suo silenzio, l’hashtag sui social che parlava di “uomini veri”?
Aprì la chat: l’ultimo messaggio era suo. «Alle 14:00 in stazione. Dobbiamo parlare. Ti amo». Due spunte blu, nessuna risposta.
«Ti amo». Due parole che un tempo erano promessa, adesso suonavano come condanna.
Accanto a lui una coppia discuteva: lui voleva partire per Mosca, lei gli rinfacciava la carriera e i soldi. Viktor ascoltò senza volerlo. Un tempo avrebbe sorriso, ora gli sembrava di guardare il teatro della propria vita.
Dieci anni prima aveva detto a Marina: «Anche gli uomini hanno diritto alla felicità». Credeva fosse vero. Adesso quelle parole gli apparivano ridicole.
Un messaggio arrivò sullo schermo: «Scusa, non posso venire. Rimandiamo. Domani parto per Bali con le ragazze. Due settimane».
Il cuore gli cadde in fondo allo stomaco. “Con le ragazze”? O con qualcun altro? Poco dopo la banca gli notificò l’acquisto di due biglietti business class per Denpasar. Era chiaro.
Guardò vecchie foto sul telefono: Istanbul, il Bosforo, sorrisi studiati davanti alla macchina fotografica. Solo ora notava come negli occhi di Ksuša ci fosse sempre altrove, mai lui.
Provò a chiamarla. Rispose solo la segreteria: «Lascia un messaggio, ti richiamo appena posso». La voce registrata non era più quella dolce di un tempo.
«Ho visto i biglietti» disse piano. «Ho capito tutto. Non serve fingere. Non voglio litigare, parliamone una volta sola. Da esseri umani».
Chiuse la chiamata e rimase con un vuoto nello stomaco.
Il cellulare squillò ancora. Stavolta non era lei: era Katja, la figlia maggiore. La prima volta in tre anni.
— Pronto?
— Ciao, papà.
La voce era diversa, matura. Marina, la sua ex moglie, era in ospedale. Operazione alla cistifellea. E Katja gli disse anche un’altra cosa: «Diventerai nonno. È una femmina. La chiameremo Sonja».
Un nodo gli serrò la gola. Non avrebbe saputo nulla, se non fosse stata Marina.
— Verrò domattina in ospedale — disse con esitazione.
— Perché, papà? — fu la risposta.
Quelle tre parole lo ferirono più di qualunque insulto.
Qualche giorno dopo, su invito delle figlie, si ritrovò a un compleanno di famiglia. Porta un mazzo di crisantemi bianchi e un regalo scelto con imbarazzo. Quando la porta si aprì, sentì il profumo di casa e vide Marina: capelli corti, vestito blu, un sorriso pacato. Nessun rimprovero, nessuna rabbia. Solo:
— Ciao, Viktor. È tanto che non ci vediamo.
Lui abbassò lo sguardo.
— Ciao, Marina. Come stai?
Per un attimo gli parve di respirare davvero, dopo anni di apnea. Non c’erano promesse di ricominciare, ma la possibilità di esserci, almeno un po’, per le figlie e per la vita che continuava.
Forse non era troppo tardi per imparare a vivere davvero, anche a cinquantacinque anni.