«– Figlio mio!» esclamò Vera Antonovna fermandosi di colpo sulla soglia. Gli occhi le si illuminarono di stupore e felicità, mentre le braccia si alzavano verso l’alto come ali pronte al volo. Si lanciò verso il figlio appena rientrato, lasciando la porta socchiusa, quasi temesse che fosse soltanto un miraggio. «– Mi hai fatto prendere un colpo! Perché non mi hai avvisata? Credevo ti mancassero ancora sei mesi di carcere! E l’avvocato… zitto come una tomba!»
Lo strinse tra le mani, gli accarezzò il viso, i capelli, le spalle, come per convincersi che fosse davvero lì, vivo. Era smagrito, scavato, con le spalle ossute, ma nei suoi occhi brillava la stessa luce di sempre: limpida e coraggiosa.
«– Ilyushenka, cuore mio… che gioia!» singhiozzava, incapace di trattenere le lacrime.
«– Mamà, basta piangere,» la calmò Il’ja, stringendola forte e baciandole la guancia bagnata. «– È finita. Sono a casa. E l’avvocato ha taciuto perché l’ho pregato io: volevo farti una sorpresa.»
«– Sciagurato!» lo rimproverò lei sorridendo, già pronta a correre in cucina. «– Devo sfamarti e farti dimenticare quell’inferno.»
Ma lui la fermò. «– Aspetta, mamà. Mi stai nascondendo qualcosa. Cos’è successo?»
Lei abbassò lo sguardo. «– La tua Lëra… appena sei entrato in galera, se n’è andata. Così è fatta.»
Il’ja chiuse gli occhi e rise amaramente. «– Lo sapevo. Non è mai venuta a trovarmi. Dio giudicherà.»
A tavola lo aspettava un banchetto casalingo: verza stufata, grano saraceno, cetriolini e una torta di pesce. Profumava di casa, di pace ritrovata.
«– Mi mancava tutto questo,» sospirò lui, assaporando ogni boccone.
«– Mangia, figlio mio. Io vado al negozio, serve pane fresco.»
Mentre faceva la spesa, Vera incontrò una bambina, Nastja, con un vestitino logoro e le guance sporche. «– Signora, avete già una televisione? Mi servono soldi per le medicine di mamma…» disse con voce flebile.
Seguendola fino alla sua casa cadente, Vera scoprì la madre malata, stesa su un letto, e sul muro la foto di un uomo: l’uomo che suo figlio, quella notte maledetta, aveva colpito prima di finire in carcere.
Il cuore di Vera tremò, ma non esitò: riempì la dispensa, portò medicine, promise protezione. «– Da oggi ci sono io. Chiamami zia Vera.»
Da quel giorno, lei e Il’ja non le lasciarono più sole. Col tempo la donna guarì, la bambina rifiorì, e insieme iniziarono una nuova vita.
Il vecchio dolore lasciò spazio a qualcosa di diverso: solidarietà, rinascita, amore inaspettato. Quando, mesi dopo, inaugurarono la nuova casa, Il’ja varcò la soglia portando Katja tra le braccia come una sposa, mentre Nastja correva davanti a loro con un vestitino bianco. Vera Antonovna, mano nella mano con l’amico Ahmet, li seguiva con il cuore colmo.
Per la prima volta dopo tanti anni, sentì di essere tornata a vivere.