Svetlana, luminosa come un’alba di aprile e con il cuore pieno di progetti, sposò Oleg: un uomo dalle parole morbide, promesse di cure e fedeltà che sembravano scolpite nella pietra. Lo guardava con ammirazione; l’idea di intrecciare per sempre le loro vite le faceva battere il cuore. Credeva che accanto a lui nulla potesse ferirla — né le tempeste né il caso. Quando Oleg accennava al padre, lei sorrideva e lasciava correre: che valore poteva avere il passato, se il presente era così splendente? E che importanza avevano certi segreti di famiglia, se l’attendevano amore, calore e pace? Era sicura che, sotto lo stesso tetto dell’uomo che amava, sarebbe stata felice comunque. E Oleg pareva confermarlo: premuroso, attento, la avvolgeva in un bozzolo di tenerezza. Svetlana sorrideva tra sé, convinta di vivere finalmente il suo piccolo paradiso.
Quel paradiso, però, nascondeva crepe sotto strati di tradizioni dure come il granito. La famiglia di Oleg era estesa come una grande tenuta: quattro figli, tutti maschi, e una gerarchia inflessibile. A capo del clan stava Pavel Ivanovič — mano d’acciaio, voce che faceva vibrare i vetri, sguardo capace di gelare ogni slancio. Andava fiero dei suoi ragazzi, soprattutto del fatto che fossero tutti maschi. Al banchetto di nozze, alzando la coppa di champagne in una sala sfavillante, tuonò: «Nella nostra stirpe non nascono femmine! Solo figli maschi! E che i novelli sposi lo tengano a mente!» Poi assestò una pacca sulla spalla di Oleg più simile a un ordine che a un augurio.
Oleg, il più giovane, era cresciuto sotto quella pressione e l’aveva assorbita come la terra l’acqua. I fratelli maggiori avevano già dato al padre nipoti maschi, come si “doveva”. Solo il terzo, Jakov — Jaša per tutti — non aveva retto: a diciotto anni aveva chiuso la porta alle spalle ed era sparito. Si diceva fosse diventato pittore a Parigi o fosse finito all’estremo oriente, ma quando Svetlana lo seppe capì il vero motivo: era fuggito dalla tirannia, dall’impossibilità di essere se stesso.
Vivere nella casa di Pavel Ivanovič era come stare in un campo di addestramento: ogni passo, ogni parola, dovevano rientrare nei confini. Lui era la legge, e credeva che il mondo dovesse piegarsi al suo volere. Solo Jaša aveva avuto la forza di sottrarsi. Immersa in quell’aria tesa, Svetlana iniziò a intuirne il prezzo.
Una sera, durante la cena attorno al lungo tavolo di quercia, Pavel si alzò e, fissandola, domandò:
— Allora, quando ci regalerete il nipote? Non vedo l’ora di insegnargli a sparare e a pescare, di passargli il nostro nome. Badate bene: dev’essere un maschio. Le femmine se ne vanno, prendono un altro cognome e ci dimenticano.
Cadde un silenzio pesante. Un brivido corse sulla schiena di Svetlana. Avrebbe voluto dire che un figlio è un dono comunque, ma restò zitta. Oleg annuì soltanto, come un soldato alla consegna.
Più tardi, da soli in salotto, lei trovò il coraggio:
— Oleg, davvero per te conta se sarà maschio o femmina? L’amore dipende da quello?
— Non è una mia idea — rispose pacato — è la nostra stirpe. Le mogli della nostra famiglia hanno sempre avuto maschi. È così che dev’essere.
Svetlana lo guardò come si guarda un estraneo. L’uomo che aveva sposato sembrava ridotto a portavoce di un copione antico. Le salì al petto un’ansia nuova.
Decise di confidarsi con la suocera, Marija Grigor’evna: occhi stanchi, voce gentile, l’unica capace di smussare l’intransigenza di casa.
— È vero che qui non nascono femmine? — chiese.
— Avevamo paura — sussurrò la donna — tremavo all’idea di una figlia, per il giudizio di tuo suocero. Quando nacque Jaša, mi sentii libera per un istante. Poi tutto tornò com’era. Non temere: tutte le nostre nuore hanno avuto maschi. Capiterà anche a te.
Svetlana annuì, ma un nodo le serrava lo stomaco. Decise di scacciare i pensieri: sarebbe andata come doveva. L’anno dopo rimase incinta. La gravidanza procedeva bene. Rifiutò di sapere il sesso: “tanto per loro sarà senz’altro un maschio”, si diceva.
La casa entrò in fermento: la colmavano di attenzioni, esaudivano ogni capriccio. In cucina non mancava nulla, in camera comparivano ricami e cuscini nuovi. Tutti parlavano del futuro nipote, di quanto avrebbe somigliato al padre e continuato la stirpe. Solo Marija, incrociando gli occhi di Svetlana, mostrava un’ombra di tristezza, come se presagisse la tempesta.
Il parto arrivò poco dopo Natale, in una notte limpida e gelida. Ci furono complicazioni, un cesareo d’urgenza. L’anestesia la inghiottì. Al risveglio, una voce dolce:
— Congratulazioni, è nata una bimba splendida!
Il mondo le franò addosso e la gioia si mescolò al terrore. «Una femmina… Cosa dirà Pavel? E Oleg? Mi cacceranno?» Nel dormiveglia la inseguivano incubi di porte sbattute, passi nella neve, urla: «Una femmina è un tradimento!». Un’infermiera, di notte, le porse un calmante. Al mattino, Svetlana si fece una promessa: «Non rinnegherò mia figlia».
Oleg arrivò poche ore dopo. Ascoltò in silenzio, impallidì, si voltò e se ne andò. Le altre madri cercarono di rincuorarla: «È sotto shock. Domani arriverà con i fiori». Il giorno dopo non arrivò nessuno. Alla dimissione la riportò a casa senza un sorriso, senza gettare un solo sguardo alla piccola. I parenti porsero congratulazioni di circostanza. Pavel non si fece vedere.
Per una settimana Svetlana visse come un’ombra: evitava il suocero, Oleg ignorava la neonata. La piccola Sof’ja, come percependo il gelo, piangeva ogni notte. L’aria si fece irrespirabile; bastava nulla per accendere un litigio. Oleg, a denti stretti, le scaricava addosso la colpa: «Hai fallito».
Finché, in una sera di bufera, Pavel Ivanovič spalancò la porta della stanza. Il volto stravolto dall’ira:
— Prepara le valigie. Non ti vogliamo più. Nella nostra famiglia non ci sono femmine.
La spinse fuori nel vortice di neve, la bambina stretta al petto. Nessun taxi, nessun aiuto. La porta si chiuse. Svetlana rimase in mezzo alla strada, tremando, cercando di riparare la piccola dal vento.
Un tassista, vedendole, frenò. Colpito dalla loro disperazione, le accompagnò alla stazione, le comprò un biglietto per tornare nella sua città, le lasciò qualche soldo.
— Coraggio — disse — ce la farete.
La madre di Svetlana le aprì senza domande, con le braccia spalancate.
— Siete a casa. Qui nessuno vi farà del male.
Passarono i mesi. Svetlana si rimise in piedi, imparò la vita da madre sola. Un giorno incontrò Andrej: buono, sensibile, solido. Amò lei e Sof’ja senza riserve. Due anni dopo nacquero due gemelli maschi, sani e vivaci. Guardandoli, Svetlana capì di aver trovato finalmente una casa fondata sull’amore, non sulla paura.
Di Oleg nessuna notizia. Un giorno, però, bussò Marija Grigor’evna. Più curva, gli occhi pieni di rimorso, s’inginocchiò:
— Perdonami. Ho taciuto troppo a lungo. Avevo paura. Da quando te ne sei andata, tuo suocero è caduto malato. È a letto, non parla, non si muove. Sembra una punizione per la sua superbia.
Svetlana la abbracciò, senza rancore, solo compassione.
— Non sei tu la colpevole — sussurrò — anche tu sei stata prigioniera.
Da allora Marija tornò spesso: giocava con Sof’ja, sfornava torte, raccontava fiabe. E quando i gemelli crebbero, mormorava:
— Siete i bambini più fortunati: avete ricevuto l’amore più grande.
Svetlana, guardando i suoi figli, Andrej e la suocera finalmente serena, capì che quel cammino difficile l’aveva condotta alla luce — alla vera felicità e alla libertà.