“Arrivò in ospedale con i vestiti logori, decisa a vendere il suo sangue. Quando il medico capì perché le servivano quei soldi, gli mancò il respiro…”

Caterina Dmitrievna era inginocchiata sulla tomba ancora fresca, avvolta dal cielo grigio d’autunno e dal silenzio cupo del cimitero. Attorno a lei il vento strappava le ultime foglie gialle dagli alberi e le faceva turbinare sopra la terra umida. Pioveva da ore, ma la donna non avvertiva più l’acqua che inzuppava la sua giacca nera: nessuna tempesta della natura poteva competere con l’uragano di dolore che le stringeva il petto.

Il camposanto era deserto. Solo lei, circondata da lapidi di pietra e dal rumore ovattato della pioggia, che a tratti si confondeva con i suoi singhiozzi. Veniva lì ogni giorno, di nascosto dal marito. Non sopportava più i suoi tentativi di consolarla, quelle frasi vuote che parlavano di “andare avanti”. Quelle parole la ferivano più di qualsiasi rimprovero.

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Si piegò davanti alla piccola lapide di granito, le ginocchia affondate nel fango. Non sentiva il freddo, né il dolore alle ossa: la sua voce tremava soltanto quando, chinando la testa, mormorò:

— Svetochka, piccola mia… perché non sono riuscita a proteggerti? Avrei dato la mia vita pur di vederti viva. Perché ti ho lasciata andare?

Le lacrime scivolavano sulle guance, cadevano sul marmo e si mescolavano alla pioggia. Era passato più di un anno da quando il corpo della loro unica figlia era stato trovato. Eppure il dolore non si era placato: cresceva giorno dopo giorno, consumando Caterina come un fuoco eterno.

Il dramma era iniziato tre anni prima, quando Sveta aveva cominciato a cambiare. All’inizio erano piccoli segnali: appunti inquietanti nel diario, rientri sempre più tardi, amicizie misteriose. Gli occhi della ragazza, un tempo luminosi, si erano fatti inquieti, gelidi. Caterina e suo marito avevano provato a parlarle, a implorarla, ma più si sforzavano, più lei si allontanava.

— Lasciatemi in pace! — urlava sbattendo la porta. — Non sono più una bambina!

La sera dell’overdose segnò il punto di non ritorno. Ambulanza, urla, paura: Sveta sopravvisse, ma dentro di lei qualcosa si spense definitivamente. Da lì in avanti, la casa divenne una prigione: sbarre alle finestre, serrature nuove, turni di guardia.

— Vi odio! — gridava la figlia. — Avete rovinato la mia vita!

Poi, una notte, riuscì a fuggire. Solo un biglietto: “Non cercatemi. Non sono più vostra figlia.”

La cercarono per otto anni. Polizia, investigatori privati, annunci. Tutto inutile. E quando ormai la speranza era quasi svanita, arrivò la notizia più crudele: un corpo trovato in un magazzino abbandonato. Diagnosi: overdose.

Il funerale non chiuse la ferita. Caterina smise di vivere, limitandosi a sopravvivere. Valerij, il marito, stimato medico, vedeva scivolargli tra le dita anche lei, oltre alla figlia.

Un giorno, però, il destino bussò di nuovo. In ospedale arrivò una bambina minuta, con abiti logori e scarpe sformate. Si avvicinò a Valerij con candida determinazione:

— Zio dottore, compri il mio sangue, per favore.

All’inizio lui rimase spiazzato, ma ascoltandola comprese. La piccola, Alja, voleva aiutare la nonna malata, senza soldi né cibo. Valerij la seguì a casa, vide la donna ridotta allo stremo e la fece ricoverare immediatamente.

Da quel giorno Alja entrò nella loro vita. In lei, nei suoi occhi grandi e tristi, c’era qualcosa di familiare, un’eco che li faceva tremare. La verità emerse poco dopo: la madre della bambina si chiamava Svetochka Sokolova. Era lei, la loro figlia perduta. Aveva partorito Alja, poi era morta quando la piccola aveva appena quattro anni.

Un test del DNA dissipò ogni dubbio. Alja era loro nipote. Sangue del loro sangue.

Da quel momento, la casa tornò a riempirsi di vita. Risate, giocattoli, fiabe lette prima di dormire. Caterina ricominciò a cucire vestitini, Valerij a raccontare storie e insegnare i nodi alle scarpe. Il dolore per Sveta rimaneva, ma adesso era accompagnato da una nuova, potente speranza.

Ogni sera, Caterina sedeva accanto al letto di Alja e, stringendo la sua manina, sussurrava guardando la foto della figlia:

— Grazie, amore mio, per averci lasciato questo dono. Non ti abbiamo salvata, ma prometto che proteggeremo lei. Sempre.

Fuori continuava a piovere. Ma per la prima volta dopo anni, quella pioggia non sembrava più solo lacrime: era lavacro, promessa di una nuova vita.

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