Aleksej Platonov, proprietario di una catena di hotel di lusso, a cinquant’anni aveva accumulato non solo capitale, ma anche cicatrici. Aveva imparato una regola semplice: le parole sono vento; a parlare davvero sono i gesti. Da quando la prima moglie lo aveva lasciato subito dopo una grave malattia, portandosi dietro metà dei beni, lui era diventato cauto. Non aveva smesso di credere nell’amore, aveva solo deciso che l’amore andava messo alla prova.
Quando incontrò Alisa — giovane, bella, paziente, capace di ascoltare e di regalare un sorriso anche nei giorni peggiori — quel vecchio dubbio, però, non si placò. Lei diceva di amarlo, lo sosteneva, gli stava accanto senza chiedere nulla. Eppure Aleksej sapeva quanto sia facile recitare, soprattutto se al tuo fianco c’è un uomo molto ricco.
Un giorno lesse su un giornale dell’ennesimo concerto di beneficenza in un orfanotrofio a cui donava da anni ma che visitava di rado. Gli si accese una lampadina: portarci Alisa, senza inviti, senza fotografi, senza scena. Arrivare, osservare, vedere chi era quando non c’era pubblico.
Andarono senza scorta, con un’auto qualsiasi, vestiti con semplicità. L’istituto era rimasto quello di sempre: muri screpolati, odore di minestrina, pavimenti bagnati, un’aria di malinconia sedimentata nel tempo. Il concerto si teneva nella sala grande: poesie, canzoni, una bambina al violino con la “Mélodie” di Ravel. Alisa gli sedeva accanto, sorrideva, di tanto in tanto gli posava una mano sul ginocchio come a dirgli “ci sono”. Aleksej la guardava di sottecchi, cercando di cogliere dietro la gentilezza un lampo di verità.
Alla fine del concerto disse che doveva fare una telefonata, ma in realtà si nascose dietro un sipario, lungo un corridoio che portava alla piccola sala giochi. Alisa entrò poco dopo. Lì l’aspettava una bambina di circa sette anni, esile, occhi enormi, con un biglietto fatto a mano.
— È per te… grazie di essere venuta — mormorò la piccola, porgendole il cartoncino.
Alisa si inginocchiò, prese il biglietto e la strinse. Aleksej stava per uscire dal suo nascondiglio, quando udì la moglie sussurrare:
— Anch’io sono cresciuta qui… tanti anni fa. Allora, però, nessuno veniva a trovarmi. Tu sei forte. E non sei sola, d’accordo? Non sei sola.
La bambina scoppiò in un pianto a singhiozzi e si aggrappò a lei. Aleksej sussultò come colpito. Non lo sapeva. Alisa non aveva mai parlato del suo passato. Nessuna lamentela, nessuna richiesta di compassione. Solo una presenza costante, discreta.
Tornarono a casa in silenzio, ciascuno perso nei propri pensieri. Appena rientrati, Aleksej appoggiò sul tavolo una scatolina con dentro una chiave.
— È dell’orfanotrofio — disse. — L’ho comprato. Lo chiamerò con il tuo nome. E… scusami se ho dubitato di te.
Alisa lo guardò a lungo. Le brillavano gli occhi, ma non pianse. Annuì soltanto e sussurrò:
— Grazie per aver dato una possibilità non solo a me, ma anche a loro.
Passarono tre mesi.
L’istituto, ora “Casa di Alisa”, non era più lo stesso. Con gli investimenti di Aleksej e l’impegno quotidiano di lei, nacquero nuove sale giochi, una biblioteca, strumenti musicali, montagne di peluche, e soprattutto personale pronto a offrire calore e speranza. Alisa andava quasi ogni giorno. Non “faceva volontariato”: viveva lì. Abbracciava, consolava, studiava con i bambini, giocava, disegnava, leggeva fiabe. Trovava una strada per arrivare a ciascuno di loro.
Una sera Aleksej arrivò a prenderla e la trovò sulla soglia, seduta accanto alla stessa bimba del concerto.
— Dicevi che non avevi mai avuto una famiglia — sussurrò la piccola.
— È vero — rispose Alisa. — Ma adesso ce l’ho. E tu hai me. Insieme facciamo già una famiglia, non ti pare?
In macchina, Alisa disse piano:
— Vorrei adottarla.
Aleksej annuì. Non avrebbe potuto dire di no. E, in realtà, non voleva farlo.
Sei mesi dopo, la piccola Mila divenne legalmente loro figlia. All’inizio non osava chiamarli “mamma” e “papà”: le pareva di profanare parole troppo preziose. Una sera, a cena, mormorò:
— Posso… chiamarvi così?
Alisa non trattenne le lacrime; Aleksej si alzò, fece il giro del tavolo e le strinse entrambe.
Da allora, ogni 12 marzo a “Casa di Alisa” si tenne un concerto di beneficenza. In prima fila sedevano Alisa, Aleksej e Mila. E immancabilmente, quando calava il silenzio, qualcuno tra gli ospiti sussurrava:
— Guardate… una vera famiglia.
Passò un altro anno. Mila cresceva serena; nessuno avrebbe detto che non fossero stati insieme fin dall’inizio. Ma la felicità, quasi sempre, conosce le sue prove.
Un giorno all’istituto arrivò una donna smunta, vestita di scuro, con lo sguardo inquieto. Restò ferma sull’ingresso finché la direttrice non la invitò nel suo ufficio. Tirò fuori dei documenti.
— Sono la madre biologica di Mila — disse quasi in un soffio. — L’ho lasciata qui tre anni fa. Non ce la facevo. Ora… sono cambiata. Vorrei riaverla con me.
Quando Alisa lo seppe, sentì il cuore strapparsi. Aleksej chiamò i migliori avvocati, ma la legge era chiara: se la madre dimostrava di avere lavoro, casa e un percorso di riabilitazione, poteva riottenere la potestà.
A casa, nel “consiglio di famiglia”, Mila rimase a lungo in silenzio, con quella serietà che un bambino non dovrebbe mai conoscere.
— Non voglio tornare — mormorò infine. — La mia mamma è qui. E il mio papà è qui. La mia casa è qui.
Il processo durò tre mesi. La donna, che si chiamava Marina, lavorava come infermiera, aveva superato la dipendenza e conduceva una vita ordinata. Il giudice era combattuto. Allora fece parlare Mila. La bambina disse, con voce ferma:
— So chi mi ha messa al mondo. Ma mamma è quella che c’era quando avevo paura. Quella che mi leggeva le storie quando piangevo. Quella che mi ha insegnato a fidarmi di nuovo. La mia mamma è Alisa.
In aula calò un silenzio pieno.
La sentenza fu difficile, ma alla fine il tribunale decise che Mila restasse con Alisa e Aleksej, concedendo alla madre biologica la possibilità di vederla, se e quando la bambina lo avesse desiderato. All’uscita, Marina si avvicinò ad Alisa.
— Non credevo fossi così forte — disse. — Grazie per averle dato ciò che io non ho saputo darle.
— La cosa più importante è la sua felicità — rispose Alisa. — Non siamo nemiche.
Così, in un certo senso, Mila ebbe due madri. Ognuna con il proprio dolore e il proprio amore.
Aleksej, guardando la figlia, capiva che, mettendo alla prova Alisa, aveva trovato più di una moglie: aveva trovato una famiglia che non pensava di meritare. Tutto pareva al suo posto. Finché, un giorno, tutto si incrinò.
Durante una mattina di festa all’istituto comparve un giovane alto, lo sguardo tagliente, un tatuaggio sul polso che Alisa riconobbe all’istante. Valerij, il suo fratellastro. Il passato che non aveva mai raccontato a nessuno: strade, sotterranei pieni di graffiti, scelte di sopravvivenza.
Assistette al concerto in silenzio, poi le si avvicinò.
— Quindi adesso sei la “signora Platonov”? — sogghignò. — Ti ricordi quando rubavi con noi in stazione? O quando hai scaricato Tanya per salvarti la pelle?
Alisa impallidì. Ogni parola era una frustata.
— Che cosa vuoi?
— Solo ricordarti chi eri. E farti sapere che se tuo marito lo scopre, tornerai a esserlo.
Aveva foto, registrazioni, testimonianze. E, quel che è peggio, non mentiva. Alisa tentò di pagarlo, lo pregò. Valerij non voleva soldi. Cercava vendetta. Voleva romperle ciò che lui non aveva mai avuto: una casa.
Due giorni dopo, ad Aleksej arrivò una busta anonima con un dossier. In un primo momento non ci credette; poi chiese spiegazioni. Alisa disse tutto. Senza scuse, senza pianti, solo la verità.
— Non chiedo perdono — concluse. — Non sono una santa. Ma sono cambiata. Quello che abbiamo è reale. Se te ne andrai, lo capirò.
Aleksej uscì senza dire una parola.
Non tornò quella sera, né la mattina dopo. Il terzo giorno Alisa trovò sul davanzale un’altra busta: la casa intestata a lei, anche l’orfanotrofio. Un biglietto breve:
«Hai salvato Mila. Ma il passato non si cancella. Non riesco a guardarti senza rivedere le strade da cui arrivi. Perdonami».
Passarono due anni.
Alisa non portava più la fede. Ogni giorno, però, tornava a “Casa di Alisa”, si sedeva sulla panchina con Mila e le raccontava storie. Il cuore doleva, ma una verità non gliela avrebbe tolta più nessuno: era sua madre. E lo sarebbe stata per sempre.