Svietlana affondava il volto nel cuscino, scossa da singhiozzi che laceravano il silenzio della stanza. Aleksej, incapace di trovare pace, camminava nervosamente avanti e indietro, tormentato dalla domanda che gli bruciava dentro.
«Come si può perdere un bambino?» riuscì a dire, con la voce spezzata dalla rabbia.
«Non l’ho persa io!» gridò Sveta, gli occhi pieni di lacrime. «Eravamo sulla panchina, Ol’ja giocava nella sabbiera insieme agli altri. C’erano tanti bambini, non si può stare a sorvegliarli ogni secondo! Poi all’improvviso tutti se ne sono andati… ho cercato dappertutto, metro dopo metro, e quando non l’ho trovata ti ho chiamato!»
Le sue parole si dissolsero in un nuovo pianto disperato. Aleksej le si avvicinò, si chinò e le posò una mano tremante sulla spalla.
«Perdonami», mormorò, con tono più dolce. «So che non è colpa tua. Non è una semplice scomparsa… l’hanno rapita. Ma io li troverò, te lo giuro.»
Le ricerche iniziarono immediatamente. Polizia e volontari setacciarono cortili, scantinati, boschi e parchi. Eppure non emerse nessuna traccia. La piccola Ol’ja sembrava dissolta nel nulla, come inghiottita dalla terra.
Quella notte Aleksej invecchiò di dieci anni. Gli tornava in mente la promessa fatta alla sua prima moglie, sul letto di morte: proteggere Ol’ja a ogni costo, renderla la bambina più felice del mondo. Due anni dopo aveva sposato Sveta, convinto che la figlia avesse bisogno di una madre. Ma tra loro non era mai sbocciata la vera sintonia.
Per un anno intero Aleksej scomparve dal mondo. A volte affogava nel bicchiere, altre restava lucido e ossessionato da un’unica azione: telefonare alla polizia. Sempre la stessa risposta: «Nessuna novità.»
Un anno dopo la scomparsa, tornò al parco giochi. Seduto sulla panchina, pianse in silenzio.
«Piangi pure», disse all’improvviso una voce alle sue spalle. Era nonna Dasha, l’anziana bidella del quartiere. «Le lacrime purificano l’anima. Ma così non vivi. Se tua figlia tornasse, cosa troverebbe? Un uomo distrutto? E intanto tua moglie svende l’azienda e lascia la gente senza lavoro.»
Quelle parole lo scossero. Tornò a casa deciso e il giorno dopo riprese in mano la sua vita e la sua impresa. Scoprì Sveta in flagrante con un altro uomo e la cacciò senza esitazione. Richiamò la fedele segretaria e ricostruì tutto dalle fondamenta. Nel giro di pochi anni la sua azienda tornò a prosperare, e con il tempo divenne una potenza regionale.
Dietro quella corazza di imprenditore implacabile, solo tre persone conoscevano il dolore che lo consumava: Lidija, la segretaria, Valentina, la governante, e nonna Dasha.
Sedici anni dopo, nel giorno dell’anniversario della scomparsa, Valentina gli presentò una giovane aiutante: Oksana, diciannove anni, timida e silenziosa. Aleksej la osservò attentamente. Un gesto, un’espressione… e il cuore gli balzò in gola. Quegli occhi. Quel modo di sistemarsi i capelli.
Più tardi, da solo, aprì il vecchio album di famiglia. Quando vide la foto del quarto compleanno di Ol’ja, il sangue gli si gelò. Corse in cucina, afferrò il polso della ragazza e alzò la manica: al suo braccio pendeva un piccolo braccialetto da bambino, consunto dal tempo, ma inconfondibile.
«Dio mio…» sussurrò. «Ol’ja.»
Gli esami confermarono ciò che temeva e sperava allo stesso tempo: Oksana era sua figlia. Era stata rapita e cresciuta tra i gitani, fino a quando non era fuggita. Non ricordava quasi nulla dell’infanzia, solo dal giorno in cui la sua memoria aveva ricominciato a funzionare.
Aleksej la abbracciò, le lacrime negli occhi: «Perdonami, amore mio. Non sono riuscito a trovarti prima. Ma ora sei qui, con me. E nessuno ti porterà più via.»
Un anno dopo, nel campus universitario, una ragazza correva con i libri tra le braccia. I suoi occhi brillavano di luce, senza più paura. Nessuno avrebbe mai immaginato che fosse lei, la bambina scomparsa tanti anni prima.