«Mi sembra ancora irreale. Ho concesso a mia matrigna di essere presente al mio matrimonio solo perché papà me l’aveva chiesto con il cuore in mano. Dopo anni passati a sopportare le sue cattiverie, continuavo a ripetermi che sarebbe stato solo un giorno. Credevo di essere abbastanza forte per reggere. Quanto mi sbagliavo.
Certe persone aspettano solo il momento giusto per affondare il colpo, e lei non si è lasciata sfuggire la sua occasione. Davanti a tutti, ha preso il microfono e ha letto ad alta voce le pagine più intime del mio vecchio diario rosa.
Mi chiamo Liza, ho 28 anni e il mese scorso ho sposato Egor, l’uomo che mi è rimasto accanto per sei anni, conoscendo ogni mia ferita, inclusa quella più dolorosa: Irina, la mia matrigna.
Ricordo bene quando, una sera, mentre stilavamo la lista definitiva degli invitati, Egor si fermò con il dito sul suo nome.
«Sei sicura di volerla qui?» mi chiese con cautela.
Restai a fissare quelle lettere fino a vederle confondersi. «Papà ne soffrirebbe se non venisse. Ci tiene troppo.»
«Ma è il nostro giorno, Liza. Non il suo.»
Gli baciai la fronte cercando di rassicurarlo. «Ho sopportato Irina per diciotto anni, posso farcela per altre ventiquattr’ore.»
Che illusione.
Irina entrò nella mia vita quando avevo dieci anni, appena un anno dopo che la malattia aveva portato via mamma. Papà era sommerso dal dolore e dal peso di crescere due figlie; Irina, con i suoi tailleur stirati e il sorriso calcolato, sembrava una salvezza.
Per papà forse lo fu. Per me e mia sorella, invece, fu un veleno lento che corrose la nostra infanzia.
A cena mi sfiorava la spalla e diceva con finta dolcezza:
«Lizon’ka, tesoro, lascia qualcosa anche a chi fa sport.»
Oppure, commentando i miei vestiti:
«Che look audace… ammiro le ragazze che non temono il giudizio altrui.»
A tredici anni origliai una sua frase che mi ferì più di mille insulti:
«La figlia di Ivan è tutta sua madre… poverina, guarda quanto mangia.»
Papà non sentì mai. O forse scelse di non ascoltare. Quando provavo a confidarmi, il suo sguardo si velava di stanchezza.
«Irina ce la mette tutta, Liza. Anche tu dovresti impegnarti di più.»
Così imparai a tacere, riversando tutto in un diario rosa chiuso da un lucchetto traballante, con un unico obiettivo: resistere fino al giorno in cui sarei potuta scappare.
E a diciotto anni lo feci: una borsa di studio, due valigie, e tanta voglia di ricominciare lontano. Tornavo a casa solo per le feste comandate, armata di terapia e di distanza emotiva.
«Sei cambiata!» mi disse Irina lo scorso Natale, strizzando gli occhi per scrutarmi.
«Succede quando cresci,» risposi, assaporando la piccola vittoria quando fu lei a distogliere per prima lo sguardo.
Arrivò il giorno del mio matrimonio. Mentre mia sorella Ol’ga mi chiudeva la zip del vestito, le sue dita sfioravano la mia schiena tremante.
«Sembri mamma,» sussurrò, e fingemmo entrambe che le mie lacrime fossero solo commozione.
Papà bussò, e nei suoi occhi lessi lo stupore:
«Sei bellissima, figlia mia.»
Per un istante rividi l’uomo che era prima che il dolore lo spegnesse.
«Papà, sei sicuro di volerla qui?» gli chiesi ancora.
Il suo sorriso vacillò. «Ha promesso di comportarsi bene. È solo un giorno, no?»
Annuii, con la voce incrinata. «Solo un giorno. Posso farcela.»
La cerimonia fu magica. Egor si commosse leggendo i voti, e il tramonto ci avvolse d’oro. In quell’istante Irina non esisteva, c’eravamo solo io, lui e le nostre promesse.
Al ricevimento cambiavo abito per ballare più comoda; Egor rideva, incredulo:
«Sei mia moglie!»
«E non ti liberi più di me!» risposi ridendo, libera come non mi sentivo da settimane.
Poi cominciarono i discorsi. Ol’ga fece ridere e piangere tutti, la mia amica Masha brindò ricordando episodi buffi. Poi Irina si alzò.
«Per chi non mi conosce, sono la matrigna di Liza,» disse al microfono, sorridendo falsa. «Non sono sua madre, certo, ma ho avuto l’onore di vederla crescere.»
Un brivido mi attraversò.
«Quando era bambina amava scrivere,» continuò, estraendo dalla borsetta un oggetto familiare: il mio vecchio diario rosa, logoro agli angoli.
Sentii il gelo.
«Dove l’hai preso?» sussurrai, ma lei già sfogliava e leggeva:
«7 marzo: Odio come mi appaiono le cosce a ginnastica. Tutti penseranno che sono orribile.»
Un mormorio imbarazzato riempì la sala. Egor mi strinse la mano.
Irina proseguì:
«15 aprile: Credo che Egor guardi Svetlana. Chi si accorgerà mai di me accanto a lei?»
Un’infatuazione adolescenziale, innocua, ma l’umiliazione mi bruciava.
Poi il colpo finale:
«9 giugno: Ho provato a baciarmi la mano di nuovo. Morirò prima che qualcuno voglia davvero baciarmi.»
Qualcuno rise a denti stretti, un riso nervoso che mi trapassò il cuore.
Mi alzai. «Basta!» gridai.
Irina fece la finta ingenua. «Ma è tenero! Un po’ di ricordi buffi…»
«Divertente per voi umiliare la sposa?» intervenne Egor, accanto a me. Il silenzio cadde.
Fu allora che papà si alzò, passo dopo passo verso di lei.
«Ridammi il diario.»
«Ivan, era solo uno scherzo!»
«Il diario. Ora.»
Glielo porse sbuffando.
Papà lo prese e la guardò come non l’avevo mai visto:
«Tra noi è finita.»
Irina rimase di sasso. «Stai scegliendo un capriccio invece della famiglia?»
«No. Sto scegliendo mia figlia.»
Si voltò verso di me con gli occhi lucidi. «Scusami, Liza. Avrei dovuto proteggerti da sempre.»
Scoppiai a piangere, ma non per Irina, che uscì di scena portando via la tensione: piangevo perché dopo diciotto anni papà vedeva finalmente la verità.
Egor mi avvolse tra le braccia. «Stai bene?» sussurrò.
Annuii. «Meglio di quanto pensassi.»
Il DJ partì con Higher Love, la nostra canzone. Tornammo a ballare al centro, circondati dagli amici e dai parenti.
«Sai qual è la parte ironica?» dissi tra un passo e l’altro.
«Cosa?»
«Credeva di rovinare il matrimonio.»
Egor sorrise: «Invece lo ha reso indimenticabile. Questa è la mia Liza, capace di trovare speranza anche negli uragani.»
Verso la fine della serata papà mi raggiunse al tavolo dei dolci.
«Ti ho delusa per anni.»
Lo guardai davvero, vedendo il peso del rimpianto sulle sue spalle.
«Sei qui adesso, papà. È questo che conta.»
Mi disse che aveva chiesto il divorzio. «Era da tempo che lo sentivo finito, ma non avevo il coraggio.»
Gli presi la mano. «Sai cosa diceva mamma? Che gli errori non sono punti di non ritorno, ma deviazioni.»
Tre settimane dopo, tornati dal viaggio di nozze, trovammo un pacco davanti alla porta: un diario di pelle nuovo, bellissimo, con un biglietto di papà:
“Liza,
Le tue parole sono preziose. Meritano protezione. Spero che riempirai queste pagine di gioia, sapendo che nessuno potrà più usarle contro di te.
Ho imparato ad ascoltare. Se vorrai parlare, io ci sarò.
Con amore, papà.”
Quella notte scrissi il mio primo pensiero dopo anni:
“Oggi ho capito cosa significa famiglia: non chi condivide il tuo sangue, ma chi protegge il tuo cuore. Non chi riapre le tue cicatrici per divertimento, ma chi ti aiuta a guarirle.
Ho creduto che sopravvivere a Irina mi rendesse forte; la vera forza è arrivata quando ho permesso a chi mi ama di restarmi accanto.
Non sono più la bambina che nascondeva i suoi pensieri dietro un lucchetto fragile. Sono una donna che conosce il suo valore.
E se ho imparato qualcosa dal giorno del mio matrimonio è questo: quando qualcuno ti mostra chi è, credigli. Ma soprattutto, non lasciare andare chi ti ama abbastanza da mettersi tra te e il male.”
Egor mi trovò mentre scrivevo e mi baciò la testa.
«Sei felice?»
Chiusi il diario, sentendo che pesava di possibilità, non più di vergogna.
«Sto andando nella direzione giusta» risposi. E, per la prima volta, era vero.»**