“Quando ho conosciuto e sposato il padre di Nathan, il bambino aveva già sei anni. Sua madre li aveva abbandonati due anni prima, lasciandoli soli.”

Lo incontrai la prima volta quando aveva sei anni. Occhi grandi, inquieti, e quelle gambette sottili che lo tenevano nascosto dietro la gamba di suo padre al nostro terzo appuntamento. Richard mi aveva già parlato di lui, certo, ma vederlo così fragile accese in me qualcosa di profondo.

Nei suoi occhi lessi una diffidenza che nessun bambino dovrebbe conoscere: lo sguardo di chi è già stato lasciato senza promesse di ritorno.

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«Nathan» disse Richard con voce calma, «ti presento Victoria, la persona di cui ti ho parlato.»

Mi chinai fino ad arrivare al suo livello e gli sorrisi. «Ciao, Nathan. Tuo papà mi ha detto che ami i dinosauri. Ho qualcosa per te.» Gli porsi una busta: dentro c’era un libro di paleontologia.

Non volevo dargli un semplice giocattolo: desideravo che capisse che per me era un piccolo esploratore, non solo un bambino da intrattenere. Non sorrise, ma prese la busta con serietà.

Più tardi, Richard mi confidò che quel libro lo teneva nascosto sotto il cuscino e dormiva con lui tutte le notti.

Fu lì che iniziò la nostra storia. Quel bambino aveva bisogno di un porto sicuro, e io sapevo di poterglielo offrire senza invadere i suoi spazi. Non ho mai preteso il suo affetto: ho atteso, con pazienza.

Quando, sei mesi dopo, Richard mi chiese di sposarlo, volli che Nathan fosse parte della decisione.

«Ti va bene se sposo tuo padre e mi trasferisco con voi?» gli domandai un pomeriggio, mentre preparavamo biscotti al cioccolato.

Si prese il tempo per riflettere, cucchiaio di impasto in mano: «Se diventi la mia matrigna… continuerai a fare i biscotti con me?»

«Ogni sabato», promisi. E mantenni la parola, anche quando da adolescente diceva che quei dolci erano roba da bambini.

Quando Richard e io ci sposammo, sua madre biologica era sparita da due anni: niente telefonate, nessun biglietto di auguri, solo un vuoto che Nathan non riusciva a colmare. Io non ho mai cercato di sostituirla, ma ho costruito piano piano il mio posto accanto a lui.

Ero lì al suo primo giorno di scuola, con la lunch box di Star Wars stretta tra le mani tremanti. Lo incoraggiai al concorso di scienze, quando il suo ponte di legnetti resistette più di tutti. L’ho visto arrossire al ballo di fine media, quando la sua prima cotta scelse un altro compagno.

Richard e io non abbiamo mai avuto figli nostri. Non perché non ci fosse il desiderio, ma perché Nathan, con la sua energia e il suo affetto, bastava a riempire la casa.

La nostra vita a tre si costruì su rituali, scherzi e fili invisibili che ci fecero diventare una vera famiglia.

Un giorno, a tredici anni, dopo un litigio, Nathan mi disse: «Non sei la mia vera madre.» Mi colpì come un pugno. «No,» risposi con voce spezzata, «ma io ci sono. Sempre.» Sbatté la porta, ma la mattina trovai un biglietto di scuse sotto la mia. Da quel momento, il nostro legame cambiò: non era di sangue, ma di scelta, rinnovato ogni giorno.

Poi Richard morì, improvvisamente, a soli cinquantatré anni. Il mondo mi crollò addosso. Nathan stava per iniziare l’università. Ricordo ancora i suoi occhi smarriti: «E adesso? Tu resti?»

«Affronteremo tutto insieme», gli dissi. E così fu. L’ho sostenuto nel dolore, ho pagato le sue rette, ero accanto a lui alla laurea, gli ho sistemato la cravatta al suo primo colloquio. Ho fatto quello che Richard avrebbe fatto.

Il giorno della sua laurea mi regalò un ciondolo con inciso “Forza”. «Non hai mai cercato di sostituire nessuno,» disse commosso. «Hai semplicemente scelto di restare.» Da allora porto quella collana ogni giorno.

Al suo matrimonio, in una splendida tenuta tra i vigneti, mi sedetti con discrezione in fondo. Melissa, la sposa, mi aveva sorriso freddamente e con tatto mi aveva chiesto di lasciare i posti davanti «alle madri biologiche». Stringendo un piccolo cofanetto con i gemelli che avevo comprato per Nathan, scelsi di non reagire. Non volevo rovinare il suo giorno.

Quando Nathan entrò e cominciò a percorrere la navata, si fermò improvvisamente. Si voltò, cercò il mio sguardo e lo trovò. «Prima di sposarmi,» disse ad alta voce, «voglio rendere omaggio a chi è rimasta quando tutti gli altri se ne sono andati.»

Con passi decisi venne da me. «Non resterai seduta in fondo,» dichiarò. «Sei tu che mi hai cresciuto. Sei tu che sei rimasta.» E poi, con la voce rotta dall’emozione: «Accompagnami, mamma.»

Mamma. In diciassette anni non lo aveva mai detto.

Camminammo insieme fino all’altare, tra lacrime e applausi. Nathan mi fece sedere accanto a lui, al posto che mi spettava da sempre.

Al ricevimento alzò il bicchiere e disse: «Alla donna che non mi ha dato la vita, ma che me l’ha insegnata.» Tutti brindarono, persino la famiglia di Melissa.

Quando poi ballammo insieme, sentii la presenza di Richard accanto a noi. «Papà sarebbe fiero di te,» gli sussurrai. «Di noi,» rispose Nathan. «Il sangue non fa una madre. L’amore sì.»

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