Darina faceva il medico d’urgenza ormai da anni. Spesso, durante i turni infiniti, le sembrava di non farcela: il ritmo era massacrante, il peso delle responsabilità schiacciante. Eppure lasciare quel lavoro era impensabile: la città aveva un bisogno disperato di medici, e le alternative erano illusorie. Le cliniche private erano inavvicinabili, e diventare medico di base avrebbe significato caricarsi di doppie fatiche. E allora, chi si sarebbe preso cura del piccolo Ruslan?
Ogni giorno in ambulanza era una sfida. C’erano le chiamate futili, false segnalazioni di qualche burlone, ma c’erano anche i momenti in cui ti trovavi a lottare contro la morte stessa, riportando un cuore a battere solo per guadagnare quei minuti necessari ad arrivare in ospedale.
La giornata precedente era stata l’emblema di questa routine senza tregua. Prima, un’anziana rischiava di soffocare nell’afa di un appartamento, mentre il nipote restava indifferente davanti alla TV, birra in mano. Poi, una donna di circa quarant’anni crollata a terra durante una passeggiata. Al loro arrivo, Darina aveva capito subito: era già tardi. Ma per dignità e rispetto verso il marito e la figlia aveva tentato lo stesso ogni manovra possibile — massaggi, iniezioni, rianimazione. Invano. Quel peso le era rimasto addosso per ore.
Così, quando arrivò la chiamata di un incidente stradale, decise che non si sarebbe lasciata travolgere dall’emotività: avrebbe fatto il suo lavoro, senza permettere al dolore di schiacciarla.
Un camion contro una piccola utilitaria. L’autista del mezzo pesante illeso, solo un bernoccolo. Ma il ragazzo alla guida dell’auto era ridotto malissimo: privo di sensi, il volto coperto di sangue, il torace rigido e insanguinato, segni inequivocabili di emorragie interne. Darina agiva con freddezza, preparando i farmaci, mentre la collega Katia cercava di stabilizzarlo.
Poi, un attimo che le gelò il sangue. Un dettaglio, uno sguardo più attento… e il mondo le crollò addosso. Quel giovane era Vladislav. Lui, l’uomo che un tempo la chiamava “Darocika”, che l’aveva fatta sentire speciale… e che, scoperta la gravidanza, era sparito senza voltarsi indietro. Peggio: le aveva scritto che il figlio poteva essere “di chiunque”, poi l’aveva bloccata ovunque, come se non fosse mai esistita.
Darina si immobilizzò con la siringa in mano. Katia la richiamava, ma dentro di lei montava il conflitto: salvarlo o lasciarlo morire? Se fossero stati in ospedale, avrebbe passato il caso a un altro. Ma lì no: la vita di Vlad dipendeva unicamente da lei.
Un pensiero la trafisse: non avrebbe mai potuto guardare negli occhi suo figlio e dirgli di aver lasciato morire suo padre per vendetta. Questo no.
Così si chinò, prese fiato, e ordinò:
— Barella, subito!
Il giovane fu caricato sull’ambulanza, e durante il tragitto Darina non si fermò un istante: analgesici, monitoraggio del battito, tentativi di stabilizzare. Vlad gemette soltanto: «Fa… male… tanto…». In ospedale fu operato d’urgenza: milza asportata, busto immobilizzato, settimane di ricovero davanti.
Mentre ripulivano l’ambulanza, Petja trovò un ciondolo insanguinato. Darina lo riconobbe all’istante: il medaglione con le loro iniziali, ordinato anni prima quando erano studenti. Lo consegnò a un’infermiera, senza volerne sapere altro.
Tornando a casa, i ricordi riaffioravano. La nonna che l’aveva sostenuta quando era rimasta incinta, i sacrifici fatti per studiare e crescere Ruslan, le giornate di fame e coraggio. Tutto era alle spalle, e ora contava solo suo figlio.
Eppure, qualche giorno dopo, una collega la chiamò:
— Sai, gli ho consegnato il medaglione. Si è commosso, quasi piangeva. Ha chiesto insistentemente di te.
Darina ringraziò, ma fu categorica: non voleva ringraziamenti, né contatti.
Il destino, però, non la pensava così. Una mattina, uscendo dalla stazione del 118, lo vide: Vlad, pallido, smagrito, seduto su una panchina con un enorme mazzo di rose.
— Sei venuto a cercarmi? — chiese lei, senza giri di parole.
Lui si alzò, tremante, privo dell’arroganza di un tempo. Cercava solo di parlarle, di guardarla un’ultima volta. Lei lo respinse con durezza: non si cancellano anni di silenzi e crudeltà con un mazzo di fiori. Ma qualcosa nel suo sguardo la trattenne.
Si rividero il giorno dopo, dopo un lungo turno. Vlad la portò in un parco dove, anni prima, avevano passato pomeriggi felici. Lì la verità venne a galla: non era stato lui a voltarle le spalle, ma Tamara, una falsa amica, ad avvelenare entrambi con menzogne. Un equivoco crudele aveva distrutto due vite.
Darina tremava, ma non volle fuggire. Lo condusse a casa. Vlad incontrò per la prima volta Ruslan: stesso sguardo, stessi tratti. Quel bambino era la sua immagine riflessa.
Vlad si inginocchiò davanti a lui, la voce rotta dall’emozione:
— Ciao, Ruslan Vladislavovič…
E in quell’istante Darina capì che il passato, forse, non era perduto per sempre.