“Dopo essersi separato dalla moglie e dalle sue figlie, ha scelto di sposare una donna della stessa età di sua figlia, ma dopo un decennio ha capito di aver fatto un grave errore.”

Sognava di trascorrere una vita lunga e felice con la sua giovane moglie, ma ora, a cinquantacinque anni, è tormentato da un rimpianto profondo.

— Un altro caffè? — chiese la cameriera, battendo delicatamente con l’unghia sulla tazzina vuota.

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Viktor Nikolaevič sobbalzò. Nel semibuio del caffè “Transit”, vicino alla stazione, tutto intorno a lui sembrava ondeggiare. Era lì seduto da più di tre ore.

— Come? Ah… sì, grazie. Ma senza zucchero.

La ragazza sorrise divertita e si allontanò con la tazzina. Sul cartellino c’era scritto “Alëna”. Era giovane, proprio come Ksuša dieci anni prima. Stessa aria sbarazzina, stesso modo di leccarsi le labbra mentre ascoltava.

La vita sembrava essersi fermata. Fuori una pioggia sottile, fredda e insistente, scendeva come quel senso di vuoto che Viktor portava dentro a cinquantacinque anni. Le gocce scivolavano sul vetro, tracciando strisce umide simili alle rughe che avevano segnato il suo volto con il tempo.

Il telefono vibrò di nuovo tra le sue mani — la sesta volta in trenta minuti. Non era Ksuša. Solo lavoro. Chiuse la chiamata in silenzio.

— Il conto, per favore? — Alëna posò una nuova tazzina sul tavolo. — Sto per finire il turno.

— No, aspetto ancora…

Si bloccò, incapace di pronunciare la parola “moglie”. Lo è ancora? Dopo quei messaggi vocali, quel silenzio, quel post sui social con l’hashtag #l’uomodovrebbe?

— Allora aspetti pure — disse lei, allontanandosi verso un altro tavolo.

Viktor aprì la chat con Ksuša. L’ultimo messaggio era il suo, inviato alle 9:08 del mattino:

«Ci vediamo in stazione alle 14:00. Dobbiamo parlare. Ti amo.»

Nessuna risposta. Solo due spunte blu.

Sorrise amaramente. “Ti amo”. Una parola semplice ma ormai svuotata di senso. Dieci anni fa era una promessa, l’inizio di un’eternità. Ora, una condanna.

Vicino a lui, una coppia litigava. Un uomo sulla trentina cercava di convincere una donna vestita di rosso:

— Non capisci? Questa è la mia occasione! Mosca, carriera, soldi veri…

— E io? — la donna mescolava nervosamente il caffè. — Anche io dovrei abbandonare tutto?

Viktor ascoltava senza volerlo. Un tempo pensava che i litigi altrui fossero solo una commedia, ora sapeva che la sua vita era diventata una farsa.

“Anche gli uomini meritano la felicità.” Quelle parole le aveva dette a Marina dieci anni fa, mentre lei sistemava i bagagli. Quanto suonavano sciocche ora. La felicità come un diritto, come se si potesse acquistare o trovare accanto a una giovane moglie.

Il telefono vibrò ancora. Un messaggio:

“Scusa, non posso venire. Rimandiamo. Domani parto per Bali con le ragazze. Due settimane.”

Viktor posò il telefono a faccia in giù, massaggiandosi le tempie. Il caffè si stava raffreddando, come le sue speranze che qualcosa potesse cambiare.

Una donna con un bambino di cinque anni, con una giacca blu a dinosauri, si avvicinò a un autobus. Lei rideva, nonostante la pioggia. Quel sorriso gli sembrò dolorosamente familiare.

Sussultò. No, non era Marina. Solo un’illusione. La vita di Marina doveva essere cambiata profondamente. E lui? Aveva solo un caffè freddo e la sensazione che la sua esistenza fosse in pausa, come un vecchio film che nessuno vuole più vedere.

Pagò e uscì dal “Transit”. La pioggia era più fitta, gelida. I chicchi colpivano il suo viso. Risvoltò il colletto del soprabito — un regalo di Ksuša per il suo compleanno — e sentì risuonare nella mente quelle parole: “Ti sta bene quel colore. Sei così… distinto.” Ora sembravano deriderlo.

Il marciapiede brillava sotto i lampioni, riflettendo una luce indistinta. L’aria era intrisa di umidità di novembre. Viktor si fermò sotto la pensilina del chiosco, tirò fuori un pacchetto di sigarette — fumava raramente, solo quando era nervoso.

— Una sigaretta? — gli chiese un ragazzo magro con un berretto rovesciato.

Viktor gli accese il mozzicone in silenzio.

— Grazie. Bel cappotto. “Burberry”?

— “Max Mara”.

— Forte. Mia moglie ne sogna uno così. Vuole prenderlo a rate. Le ho detto: sei pazza? Abbiamo un mutuo per vent’anni, che cappotto?

Viktor fece una smorfia. Mutuo. Anche lui e Marina avevano un mutuo — un appartamento in un palazzo nuovo con vista sul parco. Lo pagavano da quindici anni, centesimo dopo centesimo. Poi lui aveva rinunciato a tutto.

— Tua moglie ci capisce di marchi? — chiese il ragazzo, ignorando il suo sguardo stanco.

— Mia… — esitò Viktor, cercando la parola giusta — Sì, ci capisce.

Il telefono vibrò nel taschino. Viktor sobbalzò di nuovo, come un alunno colto in fallo. Non era Ksuša. Era una notifica bancaria:

“Addebito di 58.300 rubli. Biglietti aerei Mosca–Denpasar, business class, Aeroflot.”

Il cuore gli si strinse. Non “con le ragazze”. Con qualcun altro, probabilmente quello dei post con l’hashtag #l’uomodovrebbe. Ksuša non aveva mai viaggiato in business class con le amiche. “Perché spendere di più? Meglio lo champagne in hotel”, diceva sempre.

Il ragazzo spense la sigaretta, annuì rapidamente e scomparve nell’ombra. Viktor restò a fissare lo schermo. Aprì la galleria fotografica. Scorse immagini quasi oniriche: viaggio a Istanbul, cena sul terrazzo dell’hotel Marmara, passeggiata sul Bosforo.

Ksuša sorrideva perfetta, come istruita da un fotografo professionista. Lineamenti scolpiti, sguardo calibrato… Solo ora notò che i suoi occhi sembravano sempre rivolti altrove, lontano da lui.

Le ultime foto risalivano a settembre, a una dacia di un’amica nella regione di Istra. All’epoca si era sentito fortunato di essere stato invitato. Di solito le amiche stavano senza i mariti. Ora capiva: era una prova. Volevano vedere come si sarebbe comportato con i nuovi amici di Ksuša, giovani ambiziosi sui trent’anni con tutta la vita davanti.

Lui non c’era. Si annoiava a parlare di criptovalute, non avrebbe saputo cosa dire su un nuovo brano di Faїс o Morgenshtern, e non aveva voglia di discutere di “come Rosneft abbia tradito i piccoli azionisti”. La sera era andato via, fingendo un mal di testa. Ksuša era rimasta.

Chiuse la galleria e compose un numero. Squillò molte volte. All’ottavo rispose la segreteria:

“Ciao, sono io. Se non rispondo è perché sono impegnata in qualcosa di interessante. Lascia un messaggio e ti richiamo appena posso.”

Prima c’era scritto: “…ti richiamerò appena sarò libera, tesoro.” Quando l’aveva cambiata?

— Ksuša, sono io — disse con voce rauca — Ho visto i biglietti. Ho capito tutto. Non serve fingere. Non voglio disturbare. Parliamo solo una volta. Da persone normali.

Riagganciò. Guardò l’orologio: 18:47. Il treno per Mosca partiva tra dodici minuti. Avrebbe fatto in tempo.

Rimesso il cellulare in tasca, si diresse verso la biglietteria. Dentro, una calma stranamente profonda, simile a quella prima di un’operazione, quando il mondo comincia a perdere contorni.

Un anno prima, in ospedale, aveva passato quasi un mese. Ksuša era venuta due volte: con frutta, riviste e un bacio sulla guancia. E Marina… lei avrebbe saputo esattamente cosa fare. Ma non lo aveva detto alle figlie, e quindi neanche a lui. Viktor immaginò Marina arrivare con un contenitore di cibo da “Fix Price”, libri e parole semplici. Sapeva trasformare una stanza d’ospedale in una casa. Molti anni prima, quando si era rotto una gamba durante un evento aziendale, lei aveva vegliato notti intere, cambiando le medicazioni mentre lui bruciava di febbre.

Scosse la testa. Il passato non si può recuperare. E ne vale davvero la pena? Dieci anni non sono pochi. Lui aveva scelto quella strada.

— Un biglietto per Mosca, per favore.

— 340 rubli.

Porse una banconota da 500. Proprio in quel momento il telefono vibrò ancora. Viktor lo tirò fuori di scatto.

Non era Ksuša. A chiamare era la figlia maggiore — Katja. La prima volta in tre anni.

Rimase immobile: in una mano il biglietto, nell’altra il telefono. Quel nome sul display sembrava un fantasma del passato.

— Pronto?

Pausa. Poi un respiro profondo.

— Ciao, papà.

Una voce adulta, un po’ roca. Non quella di quando correva a scuola con le chiavi in mano. Tre anni fa aveva provato a farle gli auguri di compleanno. Lei non aveva risposto.

— Che succede? — chiese preoccupato, allontanandosi dalla cassa.

— Niente di grave… cioè, mamma è in ospedale. Ha problemi alla cistifellea. Domani la operano. Non spaventarti.

Marina soffriva da tempo di cistifellea. Al “MedSi” le avevano consigliato dieta e medicine. Lei annuiva, poi continuava a mangiare cibi piccanti e grassi, cucinando per tutti tranne che per sé. “Poi prendo una pastiglia”, diceva.

— In quale ospedale?

— Al sessantasettesimo. Ora non si può entrare, domani dalle nove. Volevo solo dirtelo.

Il tabellone lampeggiò: il treno per Mosca partiva tra sette minuti.

— Grazie per aver chiamato — disse Viktor, trattenendo un nodo alla gola — Come stai? E Lena?

— Bene. Lena si è sposata tre mesi fa con un programmatore del suo ufficio. E io… — esitò — sono incinta. Sei mesi.

Sei mesi. Sarebbe diventato nonno. E nessuno glielo aveva detto. Se non fosse stato per Marina, non lo avrebbe mai saputo.

— Congratulazioni — disse lui — Maschio o femmina?

— Femmina. La chiameremo Sonja.

Sonja, come la bisnonna materna.

Dall’altoparlante arrivò l’annuncio dell’imbarco. Viktor strinse il biglietto più forte.

— Katja, verrò domattina in ospedale.

Pausa. Poi, a bassa voce:

— Perché, papà?

Quelle parole lo colpirono più di qualsiasi altra cosa. Perché? Cosa avrebbe potuto dire a Marina? “Ciao, come stai? So dell’operazione”? O “Scusa, sono stato stupido”? O “Ho lasciato la giovane moglie, potresti perdonarmi?”

— Voglio… stare vicino a voi — balbettò — se serve.

— C’è Il’ja, lui è sempre con lei. E anche io e Lena. Non abbiamo bisogno del tuo aiuto.

“Non abbiamo bisogno del tuo aiuto.” Una frase dura, definitiva come una sentenza.

— Capisco — disse Viktor, sedendosi su una panchina — Mandami notizie sull’operazione, va bene?

— Certo. Ti farò sapere.

Silenzio. Nessuno aveva fretta di chiudere.

— Papà, come sta Ksenija Andre’evna? Sempre bella? — chiese Katja con voce calma, come se parlasse di un’amica.

— Non lo so — rispose lui sinceramente — Ci siamo lasciati.

Katja fece una pausa.

— Capisco. Succede.

“Succede.” Dieci anni di vita, dieci anni di assenza, dieci anni di silenzio — racchiusi in una parola.

— Dove sei adesso? — chiese infine.

— In stazione, a Mytišči.

— Mytišči? Perché lì? Cosa fai?

Viktor guardò il biglietto bagnato. Cosa ci faceva lì? Aspettava un treno che lo portasse in un appartamento vuoto? Era scappato?

— Non lo so — ammise piano — Ho solo scappato.

Il treno arrivò, le porte sibilarono e la folla si fece avanti.

Katja tacque così a lungo che Viktor pensò si fosse interrotta la linea. Poi disse:

— Tra una settimana è il compleanno di Lena, la prima domenica del mese. Ci ritroviamo a casa sua, a Baumanskaja. Se vuoi… puoi venire verso le cinque.

Il treno partì, portando via tante vite nella notte. Viktor rimase seduto sulla panchina, stringendo un biglietto inutile. Aveva un nodo in gola che non voleva sciogliersi.

— Verrò — disse con voce roca — Grazie, Katja.

Domenica fu insolitamente calda per novembre. Viktor Nikolaevič si trovava davanti a un vecchio palazzo di mattoni a Baumanskaja, con un mazzo di crisantemi bianchi e una scatola regalo avvolta in carta blu. Dentro c’era un servizio da tè in ceramica. La commessa gli aveva detto che era il regalo più gettonato. Non aveva discusso: da tempo non sapeva più cosa regalare a una figlia adulta.

Il montacarichi era rotto, ovviamente. Quarto piano. Fiato corto al secondo pianerottolo. Cinquantacinque anni: l’età in cui non si corre più su per le scale come un tempo.

Dietro la porta sentiva voci, risate e il tintinnio di stoviglie. Viktor esitò, poi suonò il campanello. Tre anni senza vedere Lena. Come sarebbe cambiata? Cosa avrebbe detto, vedendolo lì?

La porta si aprì. In piedi, sulla soglia, c’era un uomo basso, con camicia a quadri, jeans, occhiali e barba rossiccia.

— Lei è Viktor Nikolaevič? — disse — Sono Andrej, il marito di Lena. Prego, ti aspettano.

Nel corridoio l’aria profumava di vaniglia e cannella. Viktor si tolse le scarpe, mettendole accanto alle altre. Quante persone ci sarebbero state? Un brivido di ansia lo percorse.

— Papà? — esclamò Lena entrando con un vassoio di stuzzichini. — Sei venuto.

Non una domanda, ma una semplice constatazione. Come se non fosse sicura che sarebbe arrivato.

— Te l’avevo promesso — balbettò lui — Buon compleanno. Dov’è mamma?

— In cucina — sorrise Lena — Sa che saresti venuto.

La cucina era spaziosa, con piastrelle blu dietro il bancone. Lena indossava una camicia da uomo sopra la maglietta, con i capelli corti al posto dei lunghi di un tempo. Accanto a lei, un ragazzo con grembiule “Lo chef si riposa” trafficava ai fornelli.

— Lena, io… — iniziò Viktor, ma lei si voltò.

Quei suoi occhi: identici a quelli giovani di Marina. Castani scuri con riflessi dorati. Li ricordava bene. Ricordava le lacrime nei suoi occhi quando se n’era andato.

— Ciao, papà — disse Lena asciugandosi le mani — Sei coraggioso.

Gli porse fiori e regalo.

— Buon compleanno, tesoro.

Lena lo abbracciò con un’emozione timida. Il suo profumo era fresco, agrumato.

— Grazie — disse — Vieni in salotto, ci sono già tutti. Mamma arriverà dopo… È con Il’ja.

Viktor annuì. Naturalmente. Non si aspettava che Marina lo accogliesse con gioia. Tre giorni prima, quando aveva chiamato per l’operazione, Katja aveva detto: “È andato tutto bene, l’hanno dimessa.” Nient’altro.

Il salotto era pieno, almeno una decina di persone: giovani coppie, una signora anziana con il foulard, due bambini che correvano intorno al tavolino. Viktor capì di non conoscere nessuno. Dieci anni: un’intera vita perduta.

— Viktor Nikolaevič? — lo salutò un uomo alto, con barba curata — Io sono Il’ja, insieme a Marina…

— Piacere — lo interruppe Viktor.

La stretta di mano fu ferma, decisa. Negli occhi di Il’ja non c’era sfida né ostilità, solo la dignità di chi conosce il proprio valore.

— Marina tornerà presto — disse — È andata a prendere la torta da “Volkonskij”.

“Volkonskij”. La pasticceria preferita di Marina

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