Katja fissava Roman con gli occhi pieni di incredulità. Le sue parole le suonavano assurde, impossibili da accettare.
— Rom, per favore, stai scherzando, vero? — disse con voce rotta.
— Dimmi che è solo uno scherzo stupido. Che rideremo e poi mi stringerai come sempre. Su, dimmi qualcosa, Romochka…
Lei incrociò le mani imploranti, ma lui restava impassibile, deciso. Non c’era più spazio per battute o ripensamenti. Era la fine, concreta e crudele, proprio nel momento in cui lei aveva più bisogno di lui.
— Tesoro, mi dispiace davvero… — mormorò lui. — È la verità. Ma devi capire. Tu mi hai sempre capito. Pensavo di essere pronto, ma ora so che non è così. Volevo diventare l’uomo che tu immaginavi accanto a te, ma non ci riesco. Sono troppo giovane per un impegno così grande. Spero tu riesca a capirmi. È meglio così, separarci.
Il volto di Katja si fece pallido, le labbra tremarono.
Perché le faceva così male? Eppure lo amava con tutto il cuore, pronta a tutto per lui.
— Mi avevi detto… — sussurrò a fatica. — L’avevo chiesto io… Come puoi dire queste cose adesso? Sai che nulla potrà più cambiare! Avevi promesso che sarebbe andato tutto bene, che avrei potuto contare su di te! Ti avevo creduto, Roma… — la sua voce si spezzò sotto il peso dell’amarezza.
Cercava disperatamente una parola, un motivo che potesse farlo tornare indietro.
— Tutto sarà diverso, vedrai — implorò. — Non ti chiederò di fare nulla per me. Farò tutto da sola, ti chiederò aiuto solo quando avrò davvero bisogno. Per favore, lasciami restare accanto a te. Ho bisogno di te. Non lasciarmi adesso che sto male. Non ce la farò da sola. Ho bisogno del tuo amore e del tuo sostegno. Ti prego…
Si era quasi umiliata davanti a lui, ma Roman rimase freddo. Quando lei sfiorò la sua mano, lui si ritrasse come infastidito.
— Lo dite tutte così — sbuffò stringendo la mascella. — Prima “non ti disturberò”, poi “torna presto”, “non uscire”, “dimentica gli amici”. E allora io inizio a odiarti, e tu odi me ancora prima. È meglio separarci subito. Sarà meno doloroso. Non ci lega più nulla.
Katja sollevò un sopracciglio, quasi incredula.
— Nulla? — bisbigliò abbassando lo sguardo. — Sei davvero sicuro?
Roman arrossì leggermente, evitando il suo sguardo.
— Penso sia una scelta da donna. Io volevo solo essere una brava persona, ma non ci sono riuscito. Ora voglio vivere la mia vita, come voglio. Nessuno può dirmi cosa fare. Non abbiamo più nulla da dirci. Scusa.
Si alzò dal tavolo, pronto a andarsene.
— È davvero la tua decisione finale? — chiese Katja. — Non ci rivedremo più?
Lui la guardò un’ultima volta, con gli occhi fermi e decisi.
— Sì. Dimenticati di me. Buona fortuna. Addio.
Se ne andò, lasciandola sola al tavolino, dove pochi minuti prima erano stati una coppia.
Dopo un attimo si avvicinò la cameriera:
— Vuole ordinare qualcosa?
— No… grazie, non serve — rispose Katja cercando di mantenere la calma.
La ragazza la guardò con sospetto e aggrottò le sopracciglia.
— Allora liberi il tavolo. Qui non facciamo da rifugio ai senzatetto. Se non ordinate, dovete andare via. Altrimenti chiamo la sicurezza.
Katja si guardò intorno, confusa. La gente ai tavoli vicini aveva sentito tutto. “Probabilmente hanno ascoltato ogni parola,” pensò. Si alzò lentamente, con lo sguardo basso, e uscì dal locale.
All’aria aperta inspirò a fondo l’aria fredda. Le girò la testa. Appoggiò le mani sul pancione.
— Non avere paura, piccolo. Sono con te. Non ti lascerò mai.
Roman se ne era andato, ma dentro di lei viveva quel piccolo essere che non avrebbe mai abbandonato. Era diventato il suo senso. E anche se il padre non voleva starle vicino, lei sarebbe stata una madre che l’avrebbe amato per sempre.
Katja e Roman si erano incontrati un anno prima. Lei aveva diciotto anni ed era appena entrata all’università. Lui ventitré, con un lavoro stabile. Per lei era l’uomo ideale. La passione era scoppiata all’improvviso. Divennero intimi, e Katja aveva creduto alle sue promesse. O meglio, voleva crederci.
Ma la relazione non fu come sperava. Quando Katja annunciò la gravidanza, Roman esitò. Lei vide la paura nei suoi occhi. Poi la abbracciò, assicurandole che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbero sposati, che era felice del bambino.
Katja credette a tutto. Per lei significava costruire una famiglia, un mondo tutto loro, anche se piccolo. Non aveva genitori e viveva con la nonna in un piccolo appartamento. Raccontò subito della cerimonia imminente e del bambino. La nonna, pur disapprovando l’impulsività, si consolò pensando: “Almeno non sarai sola”.
Roman ripeteva che serviva solo un po’ di tempo — sistemare documenti, preparare tutto. Katja non dubitava. Aspettava. Lui continuava con belle parole, finché un giorno non annunciò la fine.
Ora camminava per strada, sentendo un gelo dentro. Era incinta e sola. Con la pancia non poteva lavorare, e gli studi erano a rischio. Avrebbero vissuto con la pensione della nonna. Doveva spiegare a lei che non ci sarebbe stato nessun matrimonio, che Roman era stato solo un inganno.
Pensava tra sé: “Se solo avessi saputo… forse avrei abortito?”
Ma ormai era troppo tardi. L’amore le aveva offuscato la mente. Ora, tolte le lenti rosa, era chiaro: Roman non aveva mai creduto davvero. Aveva solo mentito. Non per crudeltà o cattiveria, solo mentito.
Un brivido la scosse. Doveva muoversi: con un leggero soprabito avrebbe preso freddo. Riprese a camminare verso casa. Dopo un quarto d’ora le gambe erano di piombo e la gola arsa dalla sete.
Era circa l’una di notte. Nessun negozio aperto nei dintorni, solo la insegna tremolante di un caffè chiamato “Barracuda”, aperto fino alle due. Non un locale alla moda, ma un posto accogliente dove passare un po’ di tempo.
Decise di entrare per un bicchiere d’acqua. Aveva qualche spicciolo in tasca, abbastanza per il minimo. Aveva bisogno di raccogliere i pensieri e prepararsi a parlare con la nonna. Varcò la soglia: c’era confusione, proprio come voleva. Il silenzio l’avrebbe soffocata.
Vide alcuni sgabelli liberi al bancone e si sedette, sollevata. Le gambe non reggevano più.
Il barista la notò e si avvicinò. Un giovane dall’aspetto piacevole, sorriso aperto. Katja lo osservò mentre scherzava con i clienti, facendo ridere tutti. Per un attimo sperò in un gesto gentile, un po’ di calore.
Se avesse saputo come sarebbe finita, non sarebbe mai entrata.
Dopo pochi minuti, il barista fu da lei.
— Salve, benvenuta. Cosa desidera?
— Solo un bicchiere d’acqua, per favore — disse a bassa voce. — Quanto costa?
Lui la guardò sospettoso. Raramente qualcuno entra solo per l’acqua, ma sorrise.
— Scegli dal menu l’acqua che preferisci.
Katja aprì il menu e, vedendo i prezzi, spalancò gli occhi.
— Così tanto per una semplice acqua?
Il barista si fece serio.
— Questo è un locale di classe. I prezzi sono adeguati.
Lei abbassò lo sguardo.
— Non posso permettermelo. È troppo.
Lui rifletté un attimo e disse:
— Va bene, ti porto l’acqua del rubinetto. Ti sta bene?
Katja annuì grata. Quando tornò, le porse un bicchiere, ma il suo volto cambiò improvvisamente. Il suo sguardo scivolò verso il pancione.
— Sei incinta?
Il cuore di Katja balzò. Annuii brevemente.
— Ho diciannove anni. Sono maggiorenne. Volevo solo bere e scaldarmi un attimo.
Ma lui rispose con tono diverso:
— Fuori di qui! Appena ho capito che non sei venuta solo per bere, ho fiutato problemi. Qui non facciamo beneficenza. Se qualcuno ti vede, chiamo la polizia. Meglio che te ne vai prima che chiami la sicurezza.
Katja si alzò di scatto.
— Perché mi tratti così? Non ho fatto nulla di male!
— Oh, guarda la santarellina! — sbuffò. — Se non sei una senzatetto, perché giri sola a quest’ora con la pancia in vista? Mi prendi per scemo? Vuoi che ti facciamo il conto, poi chiedi soldi, poi un letto… O vuoi dare via il bambino?
Le lacrime le salivano agli occhi.
— È mio figlio! Volevo solo acqua e un po’ di riposo.
— Basta! Fine della discussione. Fuori, prima che me ne pento.
Con forza le afferrò il braccio e la spinse fuori. Katja rischiò di cadere. L’ultima cosa che vide fu il suo badge: “Daniele”, e una stellina tatuata vicino all’occhio sinistro.
Rimase sul marciapiede, con il soprabito stretto a sé, pensando: “Perché tutti mi respingono? Cosa ho fatto di male?”
Ma non piangeva più. Solo freddo e una nuova forza.
— Andrà tutto bene, piccolo — sussurrò poggiando la mano sulla pancia. — Ce la faremo.
Quattro anni dopo.
Katja correva per arrivare in tempo al lavoro. L’autobus andava lento, e lei stringeva il fazzoletto tra le mani, temendo di fare tardi. In ospedale era rispettata, e il capo detestava i ritardi.
Aveva partorito prematuramente una bambina e superato molte difficoltà. Con la nonna era dura — soldi, notti insonni, cure continue. Angelina era capricciosa, ma Katja non si arrese. La nonna lavorava a maglia per guadagnare, e lei studiava — prima online, poi all’università. Aveva preso un anno sabbatico, ma era tornata appena possibile.
Trovò lavoro come ausiliaria in rianimazione e iniziò a studiare medicina. Le avevano promesso il ruolo di infermiera in un anno, la laurea in due e la specializzazione poi. Voleva diventare chirurga. Sembrava difficile, ma credeva in sé.
L’autobus si fermò. Katja scese per prima e controllò l’orologio: era in orario. Avvicinandosi all’ingresso dell’ospedale, sorrise, grata di aver scelto quella strada. La medicina l’aveva aiutata a ritrovare sé stessa. Dopo l’abbandono del padre di sua figlia aveva capito che si può contare solo su sé stessi. Niente illusioni, nessuna attesa dagli altri. Solo azioni. Solo risultati. Solo la famiglia che si costruisce da soli.
All’ingresso notò un giovane seduto sui gradini. Si teneva la testa tra le mani, dondolando lentamente avanti e indietro.
— Che succede? Perché non chiede aiuto? — pensò.
Si avvicinò e gli parlò piano:
— Ragazzo, stai bene? Ti serve aiuto? Puoi parlare? Guardami.
Il giovane alzò lentamente lo sguardo. Katja rimase senza fiato. Era lui: Daniele, il barista che anni prima l’aveva cacciata quando era incinta e sola. Ricordava il suo nome sul badge e la stellina vicino all’occhio.
Daniele cercò di parlare, ma la voce gli si spezzava.
— Mia moglie… il bambino… hanno avuto un incidente… Non so se sono vivi… Ho urlato, ho aggredito un medico… Ora non mi fanno entrare in rianimazione… Ti prego, aiutami a sapere qualcosa…
Katja restò in silenzio. Avrebbe voluto andarsene, ignorarlo come lui aveva ignorato lei. Ma le gambe non la portarono via. Il destino li aveva fatti incontrare di nuovo, e lei non poteva voltarsi dall’altra parte.
— Io lavoro qui — disse piano — Aspetta qui. Farò il possibile per avere notizie.
Lui si aggrappò a quelle parole come a un’ancora.
— Sono fortunato? Ti prego, scopri qualcosa! Anche solo dimmi se sono vivi…
Katja annuì e entrò. I colleghi la conoscevano e le diedero ascolto. Si fece strada negli uffici, promettendo che si sarebbe occupata di tutto. Quando tornò, era già giorno. Il ragazzo era ancora lì.
— Tua moglie sta bene. L’hanno operata d’urgenza. Hai avuto una bambina. Entrambe sono vive. Domani potrai vederla, ma per la bimba dovrai aspettare un po’. È in terapia intensiva per monitoraggio. Ho spiegato che sei pentito. Ti faranno entrare.
Daniele si gettò verso di lei e la abbracciò forte. Katja non se l’aspettava, ma non si tirò indietro. Lui le sussurrava ringraziamenti tremando.
— Vorrei chiamarla con il tuo nome. Come ti chiami?
— Katja. Ma non serve. Sarebbe strano…
— No, è giusto! — esclamò. — Hai ridato senso alla mia vita. Non ti dimenticherò mai.
Lei sorrise.
— E io non dimenticherò come mi hai cacciata dal bar, senza motivo, senza pietà, solo perché ero incinta, stanca e chiedevo un bicchiere d’acqua.
Daniele impallidì. La guardava, incapace di parlare. Lo sguardo di comprensione gli trafisse il petto.
— Tu sei… Oddio… Non ti avevo riconosciuta… Perdona… Perdona me… Non sapevo quello che facevo… Ero uno stupido… Mi vergogno…
Katja sospirò dolcemente.
— Nemmeno io volevo essere quella ragazza che chiedeva aiuto. Ma tu sei stata la mia prova di forza. Dopo quello, ho capito: non si può contare sugli altri. Solo su sé stessi. È grazie a te se ho cambiato vita. Quindi non ti rimprovero. È passato.
Lui le porse la mano e lei gliela strinse.
— Chiedo scusa e ringrazio. Non ripeterò quegli errori.
— Bene. Torna a casa e riposati. Domani vedrai tua moglie. Solo una promessa: niente scoppi d’ira, o dovrò intervenire di nuovo e prendere una ramanzina dal capo.
Lui sorrise tra le lacrime. Katja ricambiò.
Due giorni dopo, entrando nel turno di notte, Katja trovò sulla scrivania un grande pacco regalo. Dentro c’erano cioccolatini, champagne e un cesto di frutta. Un biglietto diceva: “Grazie per avermi dato una seconda possibilità. Con stima, Daniele”.
Katja sorrise. Il rancore era svanito. Non c’era più spazio per il dolore. Solo il futuro. Quello che aveva costruito con le sue mani.