«Per tre anni era rimasta in silenzio, fino a quando un uomo non varcò la soglia della banca e si inginocchiò davanti alla donna delle pulizie.»

Nessuno ricordava esattamente come Aleftina fosse arrivata in quell’ufficio. Sembrava esserci sempre stata, un’ombra silenziosa e discreta, quasi invisibile. Impossibile dire se fosse giovane o già avanti con gli anni: qualcuno la vedeva come una ragazza, altri la immaginavano più matura. Il volto le era nascosto da un fazzoletto annodato in modo rustico e da un dolcevita che le copriva il collo.

Ogni giorno si dedicava a pulire i pavimenti, a lucidare con cura i servizi igienici, a far brillare maniglie di metallo e vetri divisori: tutto ciò che veniva sfiorato dalle mani e dalle fronti dei clienti. Lo faceva da mesi, senza mai pronunciare una parola, senza mai farsi notare.

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Nessuno l’aveva mai vista truccata né sentito alcun profumo intorno a lei. Solo l’odore fresco dei detergenti per pavimenti e dell’aria pulita che lasciava dietro di sé. E in effetti, dopo il suo passaggio, l’intero ufficio sembrava avvolto da un’atmosfera calda e accogliente, quasi familiare.

I colleghi avevano rapporti diversi con lei: alcuni la guardavano con pietà, altri la ignoravano, mentre qualche maleducato si permetteva qualche scherzo cattivo.

«Ehi, muta! Qui c’è polvere!» le urlò un giovane manager del reparto crediti, indicando un angolo immacolato. Cercava di farla irritare, ma lei si limitò a prendere il panno in silenzio e a riprendere a lavorare. Nessuna reazione, solo dedizione.

«Guarda come suda!» rise un altro un giorno, ma subito fu redarguito da colleghe più anziane, protettrici di Aleftina.

Lei sospirava e taceva, abituata a quelle volgarità. Tornava a casa ogni sera in un piccolo appartamento, si prendeva cura dei pesciolini, preparava una cena semplice e si dedicava alla pittura. I suoi acquerelli erano delicati e leggeri, i colori scorrevano sulla carta dando vita a mondi nascosti. Non dipingeva per mostrare, ma per sé stessa. A volte usciva a dipingere all’aperto, e in quei momenti le sue opere si riempivano della luce e del mistero della natura.

Ma ogni notte era tormentata dallo stesso incubo, invariato da nove anni, che la svegliava con un grido.

Una notte di giugno scoppiò un’emergenza: urla acute provenivano dal pianerottolo. L’aria era satura di odore di bruciato, il fumo filtrava dalla serratura. Il fuoco non era a casa sua.

I genitori di Alya e il fratellino uscirono in fretta, portando solo i documenti. Nel pianerottolo si radunarono i vicini, sconvolti.

L’appartamento al secondo piano, di fronte al loro, era in fiamme. La finestra socchiusa lasciava uscire densi pennacchi di fumo.

«Hanno chiamato i vigili del fuoco?» domandò una signora, pentendosi subito del pensiero egoista di non voler rovinare i mobili.

«Sì», rispose qualcuno, chiedendo silenzio per evitare il panico.

Alya conosceva a malapena quella famiglia: erano da poco arrivati — un uomo, una donna e un bambino di sei anni, Lesha. Aveva un buon feeling con il bambino, grazie alla sua esperienza da insegnante amata e rispettata.

Quando udì una tosse infantile provenire dall’appartamento capì che non c’era tempo da perdere. Tentò di aprire la porta, trovandola chiusa. Con l’aiuto degli attrezzi del padre, riuscì a forzare l’ingresso.

Dietro la porta un denso fumo avvolgeva la stanza in fiamme. Su un divano giaceva una donna, probabilmente senza vita. Ma dove era il bambino?

Alya trovò Lesha, quasi privo di respiro, lo prese delicatamente e corse verso la finestra. Il calore era insopportabile, ma con uno sforzo riuscì ad aprirla.

Dalla strada si sollevarono esclamazioni di sorpresa: i pompieri avevano steso il telo salvavita sotto la finestra.

«Lesha! Figlio mio!» gridò un uomo accorrendo, ma fu fermato.

Alya passò il bambino attraverso la finestra, poi perse i sensi strisciando fuori.

Il fuoco esplose con violenza, divorando l’appartamento in un attimo.

Aveva solo ventidue anni. La sua sopravvivenza era un miracolo: i medici non credevano avrebbe resistito nemmeno un giorno, e invece il suo volto rimase intatto.

Anche Lesha fu salvato, ma la madre morì soffocata dal fumo. Dopo il funerale, il padre e il bambino scomparvero senza lasciare traccia.

L’incendio fu causato da un impianto elettrico vecchio e malfunzionante.

La convalescenza di Alya fu lunga e difficile. Le cicatrici coprivano gran parte del suo corpo. Avrebbe voluto un intervento estetico, ma non aveva soldi e doveva coprirsi con abiti lunghi.

«Alečka, vendiamo l’appartamento, ti curiamo» le suggeriva il padre.

Lei rimaneva muta, incapace di parlare dopo il trauma. I medici dicevano che le corde vocali erano intatte, ma che il corpo aveva rifiutato la voce, forse a causa dello shock.

L’appartamento fu venduto, il fratello si sposò e sparì, il padre si isolò.

Alya perse anche il lavoro da insegnante.

Un giorno, quasi per caso, trovò lavoro come donna delle pulizie in un ufficio. Il direttore, colpito dalla sua dedizione, la raccomandò ad un amico e Alya finì a lavorare in banca.

Anche lì affrontò colleghi sgarbati, ma lavorava con impegno.

Un giorno, mentre puliva, entrò Sergey Mikhailovich, il padre di Lesha. La riconobbe subito, si inginocchiò davanti a lei e baciò le sue mani segnate dalle cicatrici.

Lei pianse.

«Sei tu… colei che ha salvato mio figlio!» disse, raccontando a tutti.

La sala si riempì di applausi. Alya sorrise, confusa.

Un ragazzo di quindici anni entrò e chiamò suo padre, stupito dalla scena.

Sergey sussurrò: «Lesha, questa è colei che ti ha salvato.»

Il ragazzo corse da lei e la abbracciò.

In quel momento Alya parlò per la prima volta dopo anni: la voce era profonda e roca, ma affascinante.

Da allora si incontrarono spesso e, per la prima volta in nove anni, Alya non si svegliò più urlando.

Sergey e Lesha l’avevano cercata per anni, senza sapere dove fosse.

Appena seppe dove lavorava, Sergey si occupò delle sue cure e della riabilitazione.

Un amico di Sergey scoprì i suoi acquerelli e li fece conoscere in gallerie d’arte, dove conquistarono molti estimatori.

Alya non avrebbe mai immaginato che la vita potesse riservarle tanto: sentirsi apprezzata, amata e riconosciuta per la sua vera bellezza, nonostante tutto.

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