Soledad Martínez aveva trentotto anni quando la vita le si spezzò tra le dita. Era il 1987, e nella curva che tutti in paese chiamavano “El Espinazo” un camion carico di raccoglitori di mele sbandò e si rovesciò come un animale ferito. Ramiro, suo marito, non fece mai ritorno.
Per settimane le diedero solo mezze frasi, sguardi che scivolavano via, promesse di “verifiche” e “pratiche in corso”. Poi, un giorno, l’azienda agricola le infilò tra le mani una busta. Dentro c’erano poche banconote: un indennizzo che suonava come un insulto. Centocinquantamila pesos — all’epoca appena abbastanza per tirare avanti un mese — e quello doveva essere il prezzo di un uomo onesto.
Soledad rimase sola con cinque bocche da sfamare: Mateo, dodici anni, già troppo serio per la sua età; le gemelle Luna ed Estrella, otto anni, identiche e magre come fuscelli; Tadeo, cinque anni, sempre con le ginocchia sbucciate; e la piccola Luz, che ancora cercava il padre nei rumori della notte.
Ramiro era stato il suo appiglio. Soledad ricordava l’ultima mattina insieme: lui, sulla soglia, con la camicia stropicciata e l’odore di caffè addosso, che le stringeva le mani come se volesse passarle tutta la forza del mondo.
«Badami dei ragazzi, Sole… promettimi che staranno bene.»
Lei aveva promesso. Ma mantenere quella promessa diventò una guerra.
Senza lo stipendio di Ramiro arrivò lo sfratto: una mattina trovò la porta chiusa e la vita impacchettata in pochi sacchi. Per tre mesi dormirono sul pavimento della sagrestia, grazie a padre Javier, finché anche la carità non cominciò a pesare addosso come uno sguardo ostile. Alla fine finirono dove finiscono quelli che non hanno più niente: sotto un ponte di pietra, rannicchiati, avvolti in cartoni umidi. Soledad teneva in vita i bambini con la stessa ostinazione con cui una candela resiste al vento.
Di quei centocinquantamila pesos le erano rimasti ottantamila, nascosti in una calza annodata alla vita. Sapeva che dovevano diventare un tetto, anche se marcio, anche se lontano, anche se brutto.
Fu in un pomeriggio di cielo basso, dentro l’emporio “La Sierra”, che il destino le si mise accanto come un passante qualsiasi. Stava fissando le mensole vuote con in mano una pagnotta dura, quando sentì due uomini parlare vicino al banco.
Uno lo chiamavano El Chivo: barba ispida, sorriso amaro, il tipo che si nutre di pettegolezzi come di sigarette. Parlava di una roulotte abbandonata nei boschi, appartenuta a un “gringo fuori di testa” sparito da tempo.
«Quella carcassa è ancora lì a marcire» disse. «Il comune vuole liberarsene. Dicono cento mila pesos per il diritto d’occupazione… ma se uno si presenta con cinquanta, gliela tirano dietro. È un posto maledetto.»
A Soledad si fermò il respiro. Lei ne aveva ottanta.
Non pensò. Agì. Si voltò, avanzò di un passo, e la sua voce uscì più ferma di quanto sentisse il cuore.
«Scusatemi… se qualcuno offrisse ottantamila, crede che accetterebbero?»
I due uomini la guardarono come si guarda chi ha appena detto una follia. El Chivo lasciò uscire una risata corta.
«Señora, quella roba non vale neanche dieci. Però… se ha lo stomaco di andarci a vivere in mezzo ai serpenti, l’accompagno io dal segretario comunale.»
Soledad sfilò la calza, contò le banconote con mani che tremavano e, senza distogliere lo sguardo, le tese.
«Allora andiamo. Questi sono ottantamila.»
Il giorno dopo El Chivo la aspettava con un foglio timbrato e un’aria di chi non crede ancora a quello che ha fatto.
«Congratulazioni, Doña Soledad. Ora è la legittima occupante di una roulotte del 1960, zona “El Arroyo Seco”.»
La strada per arrivarci era un’offesa: cinque chilometri di sterrato che diventavano un sentiero, e poi solo alberi, pietre e silenzio. Quando il camion si fermò in una radura, Soledad scese e la vide.
Storta su blocchi di cemento, incrostata di ruggine e muschio, la roulotte sembrava un relitto trascinato fuori dal mare. La porta pendeva da un cardine, le finestre erano vuoti scuri, come orbite senza occhi.
Dentro era peggio: un odore di umidità e carne vecchia che le tagliò lo stomaco. Il linoleum era gonfio, spaccato, in certi punti mancava del tutto, e sotto si vedeva la terra bagnata. Ma Soledad, con le mani sui fianchi e i figli dietro come un piccolo esercito stanco, guardò oltre.
Quattro pareti. Un tetto. Un posto che nessuno poteva toglierle.
«È perfetta» sussurrò, e quasi si vergognò di averlo detto.
El Chivo scosse la testa, come davanti a un miracolo.
«Lei ha più coraggio di molti uomini che conosco, Doña Soledad.»
Quando il camion sparì tra gli alberi, restarono soltanto loro e il bosco. I bambini si stringevano addosso, spaventati.
Soledad si abbassò alla loro altezza.
«Qui vivremo. Ora puzza, sì. Ora fa paura, sì. Ma è nostro. La ripuliremo. E questo posto diventerà il nostro castello.»
I primi giorni furono una lotta contro la sporcizia e contro la stanchezza. Buttarono fuori sacchi d’immondizia, strofinarono pareti, tappando i buchi delle finestre con cartone e stracci. Dormivano tutti ammucchiati su aghi di pino secchi, e ogni notte Soledad ascoltava il bosco come si ascolta un nemico.
La mattina del sesto giorno, lei e Mateo decisero di rimuovere il legno marcio al centro della roulotte per livellare il pavimento. Lavoravano in ginocchio, strappando a mani nude quel che restava del linoleum, quando le dita di Soledad urtarono qualcosa di duro.
Non era terra. Non era metallo.
Era legno.
Scavò, tolse la polpa putrida, e sotto apparvero assi di pino spesse, disposte in un quadrato che non apparteneva alla struttura originale. Il cuore le salì in gola. Afferrò un pezzo di ferro e lo usò come leva. Le assi cedettero con un cigolio.
Sotto c’era il buio.
Un foro.
Stava per chiamare Mateo a prendere l’unica candela quando sentì un suono: un fruscio, come stoffa contro terra secca. E poi un respiro spezzato, terrorizzato.
Il sangue le diventò ghiaccio.
Mateo si aggrappò al suo braccio, pallido come la cenere. «Amá… cos’era?»
Soledad portò un dito alle labbra. Il respiro tornò, più vicino, più veloce.
«Chi c’è lì sotto?» gridò, stringendo il ferro come un’arma. «Vieni fuori!»
Silenzio. Poi, con una voce fioca, come se arrivasse da molto lontano:
«Aiuto… per favore. No… non fatemi trovare. Non urlate.»
Soledad deglutì. Protezione prima di tutto.
«Mateo. Porta fuori le tue sorelle e i piccoli. State vicino all’albero grande. Non vi muovete.»
Rimasta sola, accese la candela. La fiamma tremava come se avesse paura anche lei.
«Abbasso la candela» disse nel buio. «Se provi qualcosa, ti giuro sui miei figli che non esci vivo.»
Il foro scendeva per circa due metri, con rientranze nella terra come gradini improvvisati. Soledad si calò lentamente.
Quando i piedi toccarono il fondo, sollevò la candela — e quello che vide le strappò un urlo muto.
In un angolo, raggomitolato, c’era un ragazzo poco più che ventenne. Pelle pallida sotto lo sporco, sangue secco sulla fronte, capelli biondi aggrovigliati. Una gamba era stesa in modo innaturale, gonfia e violacea, legata con due assi sporche. Il volto era tumefatto, ma gli occhi… gli occhi erano lucidissimi, pieni di un terrore animale.
«Madre di Dio…» sussurrò Soledad. «Che ti hanno fatto?»
«Non mi consegnate» implorò lui, con un accento americano marcato. «Mi uccideranno. Giuro che mi uccideranno.»
Per un secondo la paura fu più forte. Poi, come spesso accade a chi ha già perso troppo, in Soledad prevalse qualcosa di diverso: una compassione dura, quasi feroce.
«Non ti consegnerò a nessuno» disse. «Lo giuro sui miei cinque figli. Come ti chiami?»
«Alex… Alex Thompson.»
«Da quanto sei qui?»
Lui scosse la testa, tremando. «Due settimane? Non… non so. Avevo barrette, poi niente. Leccavo l’umidità dalla terra.»
Soledad sentì un nodo stringerle la gola.
«E chi ti cerca?»
Al nome, sul suo viso passò un’ombra.
«Gli uomini di don Artemio… le guardie della segheria.»
La segheria. Soledad conosceva quel nome: don Artemio possedeva mezza valle, e l’altra metà lo temeva.
Alex inspirò a fatica. «Hanno messo una ricompensa. Cinquantamila pesos per il “gringo spia”.»
Cinquantamila. Una fortuna. Con quei soldi avrebbe potuto salvare i bambini, comprare una casa vera, mandarli a scuola.
Le sarebbe bastato risalire e parlare.
Invece guardò quel corpo spezzato, quei lividi, quello sguardo che chiedeva solo di non morire.
E capì che, per lei, non esisteva davvero una scelta.
«Ti porto acqua e cibo» disse. «Poi mi dirai perché ti chiamano spia.»
Risalì e chiamò i figli con un cenno. Si inginocchiò davanti a loro come davanti a un altare.
«Ascoltatemi bene. C’è un ragazzo ferito sotto casa nostra. Si nasconde da persone cattive e potenti. Nessuno deve saperlo. Se parlate, verranno qui e faranno del male a tutti. Promettetelo sulla memoria di papà.»
Mateo annuì per primo. «Lo promettiamo, mamma.»
Soledad scese con una brocca d’acqua e un po’ di pinole. Alex bevve come se tornasse in vita, poi mangiò con le mani tremanti.
«Grazie» sussurrò.
«Adesso parla» disse lei. «Che cosa hai visto?»
Alex chiuse gli occhi un istante, come se rivedesse tutto.
«Studio biologia in Colorado» spiegò. «Sono venuto per documentare il disboscamento illegale. Avevo una macchina fotografica. Una notte ho seguito i camion… e sono arrivati a una pista d’atterraggio clandestina.»
Deglutì, la voce rotta.
«I tronchi… alcuni erano cavi. Tiravano fuori pacchi avvolti nel nastro marrone e ci mettevano dentro armi nuove. Uno scambio. Ho visto don Artemio. E ho visto il comandante Valles, della polizia rurale, ricevere una valigetta.»
A Soledad si piegarono le ginocchia.
«Le prove?» chiese. «Dove sono?»
«Ho seppellito la macchina fotografica vicino al ruscello. Sotto una roccia a forma d’aquila. Tre rullini.»
In quel momento Soledad capì: non stava soltanto nascondendo un ragazzo. Stava mettendo i suoi figli tra le fauci del potere.
La febbre di Alex salì. La gamba cominciò a emanare un odore cattivo, come frutta marcia. Soledad sapeva che in quel buco sarebbe morto.
Quella notte lasciò Mateo a guardia della roulotte.
«A nessuno, figlio. Apri solo a me.»
E camminò nel buio fino al ranch di El Chivo.
Lui le aprì, sorpreso. «Doña Soledad… che succede?»
«Ho trovato il gringo che cercano» disse lei, senza fiato. «È nella roulotte.»
El Chivo impallidì. «È pazza. Don Artemio la fa sparire. Lei e i bambini.»
Soledad lo fissò con occhi asciutti.
«Sta morendo. E io non lo consegno. Mi serve il tuo aiuto. Devo portare fuori le prove e farlo arrivare vivo a Chihuahua.»
El Chivo rimase in silenzio, combattuto tra paura e rispetto. Poi annuì lentamente.
«Mio cugino è un giornalista nella capitale. Se è vero quello che dice… è dinamite.»
All’alba Soledad seguì le indicazioni: ruscello, roccia a forma d’aquila. Scavò con le mani finché trovò uno zainetto: la macchina fotografica e i rullini.
Quel pomeriggio El Chivo arrivò con un camion pieno di legna. Alex delirava. Con l’aiuto di Mateo lo sollevarono e lo nascosero sotto la catasta nel cassone. I bambini si strinsero in cabina, troppo silenziosi per essere bambini.
All’uscita del paese li fermò un posto di blocco.
Era il comandante Valles.
«Dove vai con tutto quel carico, Chivo?» chiese, e gli occhi gli caddero addosso a Soledad come lame. «Tu sei la vedova… ti sei sistemata nella discarica del gringo, eh? Posto pericoloso.»
Poi, dal cassone, arrivò un gemito soffocato.
Valles alzò un sopracciglio. «Cos’è stato?»
Il cuore di Soledad smise di battere per un secondo. Prima che qualcuno parlasse, Tadeo scoppiò a tossire con una violenza improvvisa, teatrale, disperata.
Soledad lo strinse forte. «È mio figlio» disse subito. «Il freddo… nella roulotte. Ha la febbre.»
Valles la fissò. Fece un passo verso il retro.
In quel momento la radio gracchiò: una voce agitata parlava di movimenti strani vicino alla segheria.
Il comandante esitò, infastidito, poi colpì il fianco del camion con la mano.
«Andate. E non vi voglio vedere girare nel bosco.»
Arrivarono a Chihuahua che il cielo stava già spegnendosi. Trovarono il giornalista. Consegnarono Alex e la macchina fotografica come si consegna una bomba che può esplodere o salvarti.
Due settimane dopo il paese fu travolto: lo scandalo finì sui giornali nazionali. Le foto parlavano da sole: don Artemio, Valles, i tronchi cavi, le armi. I federali piombarono sulla valle. Gli arresti arrivarono come un temporale.
Soledad non tornò mai più alla roulotte.
La famiglia di Alex, gente influente in Colorado, la rintracciò tramite il reporter. Le mandò denaro — non come ricompensa, ma come debito di vita. Bastò per dare ai bambini una strada diversa.
Alla stazione degli autobus di Chihuahua, Soledad comprò sei biglietti verso nord, fino a Ciudad Juárez. Quando l’autobus partì, Mateo guardò fuori dal finestrino, le mani piccole strette al sedile.
«E adesso dove andiamo, mamma?»
Soledad intrecciò le dita con le sue e guardò gli altri quattro, finalmente addormentati, senza paura per un momento.
«Andiamo a vivere, figlio mio» disse piano. «Come ho promesso a tuo padre.»
E mentre la strada inghiottiva il passato, Soledad capì che con le sue ultime monete aveva comprato un rottame arrugginito… ma sotto quel pavimento marcio aveva trovato qualcosa di più raro di un tesoro: la possibilità di salvare la sua famiglia.