La mattina di quel giorno – quello che avrebbe diviso la mia vita in un “prima” e un “dopo” così netti da sembrare due esistenze diverse – era carica di un’agitazione dolce, quasi bambinesca. Mi sono svegliata con la sensazione che fosse festa, come se mi aspettasse un incontro che avevo desiderato per anni.
Era passato un decennio intero da quella sera della maturità in cui noi, ancora ragazzi ingenui con il mondo davanti, ci eravamo dispersi ognuno nella propria vita adulta. E ora io, Alisa, l’ex capoclasse instancabile, mi ero presa a cuore la missione di rimetterci tutti insieme attorno a uno stesso tavolo.
Avevo prenotato un ristorantino accogliente con vista sulla parte vecchia della città, chiamato uno per uno tutti quelli che erano rimasti nei paraggi e ricordato personalmente a ciascuno ora e indirizzo. Volevo che fosse una serata speciale: calda, amichevole, come se la scuola fosse finita ieri e noi non ci fossimo mai persi di vista.
Passai la giornata immersa nei preparativi.
La mattina mi fermai in un salone di bellezza: messa in piega morbida, capelli sistemati alla perfezione, un velo di smalto color pesca sulle unghie. Poi andai da mio padre, Sergej Petrovič.
Lui viveva ancora nel nostro vecchio appartamento, quello che profumava di libri, tè e infanzia. Io me n’ero andata due anni prima, quando la carriera aveva cominciato a decollare, ma il cuore era rimasto lì, tra quelle pareti.
Papà non stava benissimo – il diabete, il cuore stanco – ma resisteva con una dignità che mi commuoveva. Mia madre era morta quando avevo tre anni; lui mi aveva cresciuta da solo, facendomi da padre e da madre insieme. Per me era il modello assoluto di uomo: onesto, fermo, buono e responsabile fino all’ostinazione.
Dicevo spesso alle amiche che mi sarei sposata solo con qualcuno in cui avrei riconosciuto almeno una briciola della sua nobiltà. Ma col tempo avevo cominciato a credere che uomini così non nascessero più.
— Alisonka, mio sole, — il suo viso si illuminò appena entrai. — Per chi sei così in ghingheri oggi?
— Rimpatriata di classe, papà. Te l’avevo detto, ricordi?
— Ah, sì, sì… — annuì, e nei suoi occhi passò un velo di malinconia. — Saluta tutti da parte mia. Soprattutto quel rosso… come si chiamava… Leška. Bravo ragazzo, con la testa sulle spalle.
Annuii soltanto. Sapevo che Leša da anni scalava le vette dell’IT nella capitale e che difficilmente sarebbe più tornato nella nostra città.
Bevemmo il tè insieme, gli lasciai la cena pronta e, come un disco rotto, gli ricordai ancora una volta le medicine. Lui fece un gesto con la mano, mezzo infastidito, mezzo divertito:
— Lo so, figlia mia, lo so. Non sono mica un bambino. Vai, o arrivi tardi alla tua festa e fai brutta figura.
Al ristorante arrivai con mezz’ora d’anticipo: volevo controllare personalmente che tutto fosse perfetto.
L’amministratrice, una donna sui quaranta con occhi vivaci e sguardo pratico, mi rassicurò: i tavoli erano apparecchiati, il menù concordato, in sala una musica morbida scorreva appena percettibile.
Diedi un’occhiata in giro: luce soffusa, candele che tremolavano in eleganti candelabri, tovaglie candide, posate lucide… L’atmosfera sapeva di calma e di calore. Mi sembrò che niente potesse rovinare quella serata.
Alle sette spaccate cominciarono ad arrivare i primi compagni. Le prime a comparire, ridendo e gridando il mio nome, furono Nastja e Irina – le vecchie amiche del cuore, con cui avevamo condiviso le grandi e piccole tragedie scolastiche. Ci abbracciammo, ci baciammo, ci studiammo a vicenda, cercando di riconoscere i volti di allora sotto i tratti cambiati dal tempo.
Piano piano la sala si riempì di voci e risate. In tutto eravamo una ventina, quasi l’intero “nocciolo duro” della nostra vecchia classe. Alcuni vivevano ormai all’estero, altri non erano riusciti a venire, ma chi c’era bastava a creare quell’atmosfera familiare che avevo sognato.
Ci sedemmo, cominciammo a mangiare, a brindare, a ricordare scherzi, verifiche disastrose e cotte adolescenziali. Le trasformazioni erano le più sorprendenti.
Vitja, l’ex ragazzino timido che si nascondeva dietro pile di libri, ora era un uomo ben pasciuto, in completo costoso, che infilava la parola “progetto” e “profitto” in ogni frase.
Marina, una volta la capobanda delle monelle, oggi insegnava alle elementari: stessa energia di allora, solo incanalata in uno sguardo fermo e buono.
Il tempo ci aveva riplasmati, smussato certe spigolosità, cancellato vecchie insicurezze, creato rughe nuove.
Fu circa un’ora dopo, quando la serata era al suo culmine, che la porta del ristorante si aprì piano.
Sulla soglia apparve un ragazzo. Avrà avuto venticinque anni. La sua figura sembrava esitare nell’aria calda della sala. Indossava una giacca sottile e consunta, jeans strappati, scarpe da ginnastica vecchie, tenute insieme da uno spago al posto dei lacci.
Il viso era coperto da una barba incolta, i capelli arruffati – non sporchi, però, solo segni di abbandono. Rimase fermo lì, indeciso, osservando la tavolata illuminata.
L’amministratrice gli andò incontro, il sorriso di cortesia congelato.
— Mi dispiace, giovanotto, stasera c’è un evento privato. Non può entrare.
— Volevo solo… scaldarmi un po’, — la sua voce era roca, come se non fosse abituata a parlare. — Resto qui alla porta un minuto e poi vado via. Fuori fa davvero freddo.
— No, non è possibile. È un locale serio, non possiamo… Mi dispiace.
Li guardavo, e il cuore mi si strinse. Tremava. Non per scena, ma di quel tremito sottile che ti prende quando hai freddo fino alle ossa. Fuori tirava un vento gelido: cinque gradi appena e lui vestito quasi da mezza stagione.
Era evidente che fosse un senzatetto. Ma nei suoi occhi — grigi, profondi — non c’erano arroganza né rabbia. Solo stanchezza e una minuscola scintilla di speranza per un po’ di umana gentilezza.
Qualcosa dentro di me scattò. Mi alzai senza pensarci.
— Si sieda qui, la prego, — dissi, indicando un tavolino libero in un angolo riparato. — Non si faccia problemi.
Mi guardò come se avesse frainteso.
— Posso davvero?
— Certo. Si scaldi. Le porto qualcosa di caldo da mangiare.
L’amministratrice mi lanciò un’occhiata severa, ma non disse nulla. Il ragazzo si sedette con imbarazzo; io presi il menù.
— Scelga quello che le va. Il borsch è buonissimo, e fanno ottime cotolette col purè.
— Io… non ho soldi, — sussurrò, abbassando gli occhi.
— Lo so. Offro io. Siamo a posto così.
Ordinai un pasto completo. Lui mangiava in fretta, ma con una cura sorprendente: non faceva rumore, non rovesciava briciole. Nei suoi gesti si intuivano antiche abitudini, come tracce sbiadite di una vita completamente diversa.
Tra un cucchiaio di zuppa e l’altro, gli chiesi piano:
— Come ti chiami?
Esitò. Nei suoi occhi passò una specie di vuoto.
— Non lo so. Non ricordo. Quelli che mi hanno trovato mi chiamavano Aleksej. Ma sento che non è il mio vero nome.
— Trovato… dove?
— In un fosso, in periferia. Qualche mese fa. Avevo la testa spaccata, non capivo niente. Dicono che sono rimasto lì più di un giorno. Mi hanno portato in ospedale, mi hanno “aggiustato” alla meglio e poi dimesso. Non avevo dove andare. Niente documenti, niente memoria. Vivo dove capita. Ora sto in un seminterrato sul Prospekt Pobedy.
Sentii la pelle incresparsi. L’amnesia l’avevo vista solo nei melodrammi. Ma lui parlava con una sincerità nuda, senza autocommiserazione, e dubitare mi sembrò quasi offensivo.
— E la polizia? Non ti ha aiutato? Magari qualcuno ti sta cercando.
— Ci sono andato. Hanno registrato la denuncia e mi hanno detto di aspettare. Non ha chiamato nessuno.
Parlammo ancora. Era insospettabilmente colto: usava costruzioni complesse, recitava a memoria Esenin, citava Brodskij… ma non sapeva dire da dove venisse quella cultura. Era come se la sua memoria fosse una tela strappata: frammenti di conoscenze ancora intatti, ma il centro, la figura principale, cancellata.
Quando tornai al tavolo, l’aria era cambiata. Sentivo addosso sguardi disapprovanti.
Vitja, il nostro ex timido trasformatosi in pavone d’affari, sbuffò a voce alta:
— Alisa, sei serena? Hai invitato un barbone alla nostra rimpatriata? È qualche nuovo format di beneficenza?
— Si sta solo scaldando e mangiando qualcosa, — risposi cercando di restare calma. — Non vedo dove sia il problema.
— Il problema è enorme! — scattò lui. — Siamo venuti a passare una serata civile, e tu trasformi il posto in un dormitorio per senzatetto!
— Ho provato solo un briciolo di compassione umana, — ribattei. — Forse dovresti ricordarti cosa vuol dire.
— Che scena patetica, — intervenne Marina, con una calma tagliente. — Siamo adulti, istruiti, e ci comportiamo come i bulli di prima che tormentavano i più deboli nei corridoi.
— Ecco, la paladina dei miseri, — sogghignò Vitja. — Alisa, stai attenta: questi tipi hanno sempre un piano. Oggi gli offri la cena, domani ti trovi casa svaligiata.
— Chiudi il becco, Vitja. Sei diventato un pallone gonfiato insopportabile.
— E tu sei rimasta una sciocca sentimentalista!
La discussione deflagrò. Le voci si alzarono, il tono si fece pesante; metà del tavolo era con me, l’altra metà con lui. L’aria si caricò di irritazione.
Vitja, fuori di sé, fece un gesto brusco: urtò un calice di cristallo, che cadde e si frantumò in mille pezzi. Poco dopo si rovesciò un piatto, lasciando una macchia di grasso sulla tovaglia immacolata. L’amministratrice accorse, sbiancando.
— Signori, ma che succede?!
— Niente! — ringhiò Vitja. — Solo che la nostra ex capoclasse ha deciso di organizzare qui una mensa per i rifiuti umani della città!
Istintivamente mi voltai verso l’angolo. Il tavolo era vuoto.
Il ragazzo era sparito. Aveva approfittato della confusione per andarsene in silenzio.
Mi si strinse la gola. Non solo per lui, ma per noi. Per quello che eravamo diventati.
La serata era irrimediabilmente rovinata. Alcuni se ne andarono sbattendo la porta, altri restarono seduti in un silenzio imbarazzato.
L’amministratrice portò il conto per i piatti e i bicchieri rotti: tremila. Pagai io. Banconota dopo banconota, come se con quei soldi potessi comprare l’oblio di quella serata.
La strada verso casa fu un corridoio di vergogna. Piangevo, senza preoccuparmi di asciugarmi le lacrime. Non per il denaro, ma per la durezza di cuore che avevo visto in persone con cui un tempo avevo condiviso i banchi, e per la mia impotenza: non ero riuscita ad aiutarlo davvero. Non sapevo nemmeno come si chiamasse. O meglio sì: Aleksej. Ma quello non era un nome, solo un’etichetta.
I giorni successivi trascorsero in una routine ovattata. Lavoro, visite a papà, faccende. Ma gli occhi grigi e tristi del ragazzo mi tornavano in mente di continuo. Pensavo a lui nel seminterrato gelido, affamato, malato.
Volevo trovarlo, aiutarlo, ma come? Prospekt Pobedy è lunga, e i seminterrati… decine.
Il quarto giorno il campanello trillò secco, insistente. Aprii e rimasi senza fiato.
Davanti a me c’erano due armadi in carne e ossa. Spalle larghe, mascelle quadrate, occhi freddi. Uno in giubbotto di pelle, l’altro in tuta aderente sulle braccia muscolose.
— Lei è Alisa? — chiese quello in giubbotto, senza neanche un “buonasera”.
— Sì. E voi chi siete?
— Ci hanno detto che ha parlato di recente con un barbone. Giacca logora, jeans strappati. Conferma?
Il cuore mi cadde giù, poi cominciò a battare all’impazzata.
— Sì, ho parlato con lui. Perché?
— Dov’è adesso? — la voce si fece tagliente.
— Non lo so. Se n’è andato quel giorno e non l’ho più visto.
— È sicura? Non le ha lasciato un indirizzo, un numero?
— Non ha il telefono! Né una casa. È un senzatetto, cosa vi aspettate?
I due si scambiarono uno sguardo. Qualcosa di decisamente minaccioso passò tra loro.
— Se lo dovesse rivedere, — disse quello in giubbotto, — gli dica che lo aspettano. È urgente.
— Chi lo aspetta?
— Non sono affari suoi. Solo riferisca.
Si voltarono ed ebbero finito.
Chiusi la porta e mi appoggiai con la schiena, le ginocchia molli.
Perché due tizi così lo cercavano? Di certo non per restituirgli un portafoglio smarrito.
Capivo solo una cosa: dovevo trovarlo prima io.
Quella sera mi incamminai verso il Prospekt Pobedy.
Passai accanto a ogni ingresso, guardai nei finestroni dei seminterrati bui, che odoravano di muffa e abbandono. La maggior parte era sprangata. In alcuni c’erano altri senzatetto: mi fissarono con sospetto, mormorarono un “non sappiamo niente” e voltarono le spalle.
Stavo per arrendermi, quando lo vidi.
Era seduto sui gradini gelati dell’uscita di emergenza di un magazzino abbandonato, raggomitolato nella solita giacca sottile. Tossiva forte, scuotendo tutto il corpo.
— Aleksej! — chiamai, correndo verso di lui.
Alzò la testa. Nel suo sguardo lampeggiò incredulità, seguita da una timida speranza.
— Buonasera… Come mi ha trov…ata?
— Ti cercavo. Ascolta: due energumeni sono venuti a casa mia chiedendo di te. Non mi sono piaciuti per niente.
Il suo viso impallidì.
— I miei “amici”, — mormorò. — Devono essere loro.
— Chi? Lo sai chi sono?
— Non proprio. Ma non sono dalla mia parte, questo è certo.
Un altro attacco di tosse lo piegò in due. Gli misi una mano sulla fronte. Bruciava.
— Hai la febbre alta.
— È solo raffreddore. Passa.
— Raffreddore?! Qui fuori di notte ci lasci la pelle. Vieni a casa mia. Ora.
Mi guardò come se avessi appena proposto un’assurdità.
— Da lei? Perché? Non mi deve niente. Non mi conosce.
— E allora? Si può aiutare solo chi si conosce per nome e cognome? Vieni. Ho un letto, medicine, cibo caldo.
Esitò, poi cedette. Forse fu il freddo a decidere per lui.
A casa lo feci sedere sul divano, accesi il riscaldamento, misi l’acqua a bollire. Gli preparai un tè forte con limone e miele, poi gli indicai il bagno. Gli diedi asciugamani puliti e una tuta vecchia che usavo in casa. I suoi vestiti finirono dritti in lavatrice.
Quando uscì dal bagno, con i capelli puliti, la barba accorciata alla meglio e i miei vestiti addosso, mi sembrò di vedere un’altra persona. Un ragazzo normale, persino bello, con lineamenti regolari e quegli occhi grigi che ora brillavano di gratitudine.
— Grazie, — sussurrò. — Non ho modo di ripagarla.
— Non devi. L’unica cosa che devi fare è rimetterti in sesto.
Lo sistemai nella stanza degli ospiti, gli diedi una compressa per la febbre.
Quella notte passai più volte nel corridoio, restando ad ascoltare il suo respiro oltre la porta. Era calmo, profondo. Dormiva.
La mattina stava decisamente meglio. A colazione tornammo a parlare.
Mi disse che la sua memoria sembrava rilasciare piccoli frammenti: capitali, date, versi di poesia, formule. Tutto, tranne la sua stessa vita.
— I medici hanno detto che la memoria può tornare all’improvviso. Oppure mai, — spiegò. — Dipende dalla fortuna.
— Non hai cicatrici particolari? Un segno, qualcosa?
— Una sì. — Rimboccò la manica, mostrando una lunga cicatrice bianca sulla spalla. — È vecchia, dev’essere di quando ero piccolo. Ma non ricordo come me la sono fatta.
Pensai di nuovo alla polizia. Ma lui raccontò che ci era già andato: la scomparsa era stata registrata, ma nessuno aveva collegato quell’uomo senza documenti al “qualcuno” che lo poteva cercare.
E così Aleksej rimase. Un giorno, poi due, poi una settimana. Successe senza che ce ne accorgessimo.
Si rivelò sorprendentemente bravo nei lavori di casa: cucinava, puliva, sistemava tutto. Tornavo dal lavoro stanca, e mi accoglievano il profumo di una cena deliziosa e una cucina luccicante.
— Aleksej, sei un mago, — ridevo. — Sai fare di tutto.
— Devo pur essere utile in qualche modo, — rispondeva. — È l’unica cosa che posso fare per dire grazie.
Ci abituammo l’uno all’altra con una rapidità disarmante. Era discreto, silenzioso, educato. Non frugava tra le mie cose, non faceva domande inutili. Semplicemente c’era. E quella presenza riempiva la casa di una pace che non conoscevo da anni.
A mio padre non dissi nulla: non volevo preoccuparlo inutilmente.
Un giorno, tornando a casa, vedemmo vicino ai cassonetti un batuffolo sporco che si muoveva.
Era un cucciolo di razza, buttato via da qualcuno. Piagnucolava e tremava di freddo. Aleksej lo prese in braccio senza pensarci.
— Teniamolo, — disse. — Avrà caldo almeno qui.
— D’accordo, — risposi. — Ma prima tappa: veterinario.
In clinica lo lavarono, lo visitarono, gli fecero i vaccini. Lo chiamammo Charlie. In poco tempo diventò un cagnolino allegro e attaccato a noi, soprattutto ad Aleksej: lo seguiva ovunque, dormiva ai suoi piedi, piagnucolava se spariva dalla sua vista per più di pochi minuti.
Passò un mese. Io mi ero talmente abituata ad Aleksej che cominciai a temere il giorno in cui la memoria sarebbe tornata.
E se ricordava tutto? Se da qualche parte lo aspettavano una casa, una famiglia, forse una donna amata? Sarebbe andato via.
Era egoista da parte mia, lo sapevo. Ma la sola idea della casa senza di lui – senza i suoi passi, la sua calma, la sua presenza – mi stringeva il petto.
Una sera il campanello suonò di nuovo, secco e insistente. Aprii e mi ritrovai davanti Arteom.
Artem era il mio corteggiatore più tenace e sgradito, quello da cui cercavo di sganciarmi da mesi. Cresciuto nel nostro quartiere, famiglia povera, modi grossolani. Di recente però aveva fatto un salto di qualità: una grossa eredità da un parente lontano e all’improvviso era diventato un “uomo d’affari” con orologio costoso e abiti firmati.
Sotto però, lo sapevo bene, era rimasto lo stesso bullo di sempre.
Avevo accettato di uscire con lui un paio di volte per cortesia, ma ogni volta mi ero sentita a disagio per il suo modo di trattare le persone. Negli ultimi tempi ignoravo le sue telefonate.
— Alisa, ciao! — sfoggiava un sorriso tirato. — Ma quanto tempo!
— Ciao, Artem. Adesso non è un buon momento.
— Ma dai, cinque minuti… — cercò di sbirciare oltre la mia spalla, dentro casa.
In quel momento Aleksej uscì dal soggiorno con Charlie in braccio.
— Alisa, hai visto dov’è il…
Si fermò. E si fermò anche Artem.
Per un lungo secondo rimasero così, uno di fronte all’altro. Il volto di Artem diventò color cenere, il sorriso gli si sciolse addosso, lasciando nudo un terrore animale. Fece un passo indietro, come se avesse visto un morto tornato dall’aldilà.
Aleksej, quello che avevo sempre visto quieto e un po’ spaesato, parlò con una voce che non gli avevo mai sentito: chiara, ferma.
— Artem.
Il nome cadde nell’aria come un colpo.
Artem sobbalzò.
— Io… non sono Artem, ti sbagli! Devo andare!
Si girò di scatto e quasi corse verso l’ascensore. Aleksej fece istintivamente per seguirlo, ma lo afferrai per il braccio.
— Fermati! Che succede?
Rimase piantato lì, guardando le porte che si chiudevano. E allora successe qualcosa nel suo volto: gli occhi si riempirono di lampi, come se milioni di pezzi sparsi tornassero all’improvviso al loro posto.
Si portò le mani alla testa.
— Aleksej, dimmi qualcosa, mi stai spaventando!
Si sedette quasi a forza, respirando a fatica.
— Ho ricordato tutto, — disse infine, con la voce roca. — Mi chiamo Dmitrij. Dmitrij Volkov. E quell’uomo… Artem… ha cercato di uccidermi.
In salotto, seduto sul divano, cominciò a raccontare.
Charlie gli si acciambellò sulle ginocchia, fiutando il suo turbamento. Dmitrij posò una mano sul suo dorso e, dopo un lungo respiro, iniziò da capo.
Mio padre, disse, era un imprenditore di successo: azienda importante, immobili, terreni.
La madre era morta quando era piccolo, e il padre lo aveva cresciuto da solo. Poi nella loro vita era arrivata una donna con un figlio della stessa età: Artem. Vennero a vivere in casa loro, ma non ci fu matrimonio né adozione.
— Non siamo mai diventati amici, — disse Dmitrij. — Lui mi odiava perché tutto ciò che lo circondava apparteneva a me e non a lui. Io cercavo di non reagire, di non provocarlo, ma il risentimento c’era.
Poi arrivò il colpo: due anni prima, il padre morì all’improvviso per un infarto. Dmitrij rimase unico erede; la compagna del padre e suo figlio non ottennero nulla.
— E Artem decise che non era “giusto”, — continuò. — Una notte, tornando a casa, mi aspettavano. Artem e alcuni dei suoi. Mi picchiarono a sangue, mi buttarono in macchina e poi mi scaricarono come un sacco in un fosso fuori città. L’idea era semplice: o morivo, o diventavo un relitto umano che nessuno avrebbe preso sul serio.
Lì, tra le erbacce e il fango, Dmitrij aveva perso coscienza. Il resto lo sapevamo già: l’ospedale, la dimissione, la memoria svuotata.
Mi attraversò un brivido.
— Dima, dobbiamo andare subito alla polizia.
— Sì, — annuì. — Stavolta sì. Ma prima…
Si voltò verso di me, e nei suoi occhi c’erano gratitudine e dolore in eguale misura.
— Prima voglio dirti grazie. Mi hai salvato due volte. La prima quando mi hai fatto sedere al tavolo di quel ristorante. La seconda quando mi hai portato via da quel seminterrato. Se non fosse stato per te, sarei morto di freddo. O quei due mi avrebbero trovato e avrebbero finito il lavoro.
— Non ringraziarmi, — dissi piano. — Non ce l’avrei fatta a voltarmi dall’altra parte.
— Invece sì, — replicò. — La maggior parte lo fa. Tu no. E per questo ti sarò grato finché respiro.
Il giorno dopo andammo in commissariato.
Dmitrij presentò una denuncia, raccontò nei dettagli tutto. Si scoprì che il “disperso” Dmitrij Volkov risultava davvero scomparso.
Mentre lui marciva in un fosso e poi in un seminterrato, Artem e la madre avevano tramato: con documenti falsi e buone conoscenze, si erano fatti riconoscere eredi di fatto, sfruttando la dichiarazione di scomparsa di Dmitrij per mettere le mani sui beni.
Il ritorno del vero proprietario fu come una bomba.
Il test del DNA confermò la sua identità. Alcuni testimoni riferirono di aver visto, quella sera, Dmitrij trascinato a forza in un’auto da Artem e due compari. Il puzzle si ricompose.
Artem e la madre furono arrestati. Seguì un processo lungo, ma alla fine la verità emerse e i beni tornarono al legittimo proprietario.
Sembrava proprio una storia dal lieto fine: Dmitrij riaveva il suo nome, la sua memoria, la sua casa, il suo posto nel mondo.
Io ero sinceramente felice per lui. E, dentro di me, mi preparavo all’inevitabile: prima o poi avrebbe lasciato il mio bilocale per tornare nella sua casa enorme.
E invece no. Non se ne andava. Continuava a vivere lì, a cucinare la cena, a portare fuori Charlie, a guardare le serie sul divano con me.
— Dima, adesso hai una casa tua. Grande, immagino. Perché devi stare stretto qui? — gli chiesi un giorno.
Mi guardò con una dolcezza così limpida che mi mancò il respiro.
— Perché non posso andarmene da te.
— Perché?
— Perché tu sei diventata la mia casa. E poi… — indicò Charlie che dormiva sui suoi piedi. — Prova tu a spiegargli che dobbiamo separarci.
Sorrisi.
— Charlie è una cosa. E tu?
— Io… — fece una pausa, cercando le parole. — Io ti amo, Alisa.
Disse quella frase con la stessa naturalezza con cui fino a poco tempo prima mi chiedeva il sale a tavola.
— Non saprei dire quando è successo. Tra il primo piatto di borsch e l’ultima passeggiata al parco ho capito che non voglio più una vita senza di te. Tu sei la persona più importante che ho.
Il mio cuore, in quel momento, decise di credergli prima ancora della mia mente.
Mi accorsi che in quelle settimane anche per me lui era diventato molto più di un ospite, più di un “salvato”. Amavo la sua calma, la sua lealtà, il suo modo discreto di esserci.
— Nemmeno io voglio che tu te ne vada, — sussurrai.
Mi strinse forte. Charlie, svegliandosi, si infilò tra di noi scodinzolando. Cominciammo a ridere, con le lacrime agli occhi.
Sei mesi dopo ci sposammo.
Il matrimonio fu minuscolo: mio padre e pochi amici.
Sergej Petrovič pianse abbracciando Dmitrij.
— Finalmente la mia ragazza ha incontrato un uomo vero. Ora posso stare tranquillo.
— Sai, papà, — gli dissi piano, — ti assomiglia molto. È buono e forte come te.
Dmitrij riprese in mano l’azienda del padre, ma senza farsi divorare dal lavoro. La sua vera felicità la trovava a casa, con noi.
Comprammo una casa spaziosa fuori città, con un grande giardino dove Charlie poteva correre a perdifiato tra i fiori. A volte, quando lo guardo inseguire farfalle, mi sembra impossibile che tutto sia cominciato con un ragazzo infreddolito alla porta di un ristorante.
Un giorno chiesi a Dmitrij:
— E se quella sera al ristorante fossi rimasta seduta? Se avessi fatto finta di non vederti, come gli altri?
Lui ci pensò un attimo.
— Probabilmente non avrei superato l’inverno. Oppure Artem mi avrebbe trovato per finire il lavoro. Tu mi hai salvato la vita, Alisa. Non in senso figurato.
— È stato solo un caso, — provai a obiettare.
— Io non credo al caso, — scosse la testa. — Credo che il bene torni sempre. Come un boomerang. Hai teso la mano a uno sconosciuto e in cambio hai ricevuto amore, famiglia, casa.
Mi strinsi alla sua spalla. Guardai Charlie, ormai cresciuto, che saltava nel prato dietro a una farfalla colorata.
— Allora continuerò a fare del mio meglio per fare del bene. Magari succederà ancora qualcosa di bello.
— Succederà, — rispose lui, con una sicurezza che non lasciava spazio al dubbio.
Rimanemmo così sul portico di casa, abbracciati, guardando il sole scendere dietro gli alberi.
Pensavo a quanto sia sottile il confine tra la tragedia e la felicità. A come un unico istante, un unico gesto di compassione, possa ribaltare un destino intero.
I miei ex compagni di classe continuarono nelle loro vite tranquille, rispettabili e, spesso, indifferenti. Io, la ragazza che non era riuscita a voltare lo sguardo davanti a uno sconosciuto infreddolito, avevo trovato il tesoro più grande: l’amore e una famiglia.
Se questa storia somiglia a una fiaba, allora auguro di cuore che fiabe del genere accadano il più spesso possibile.
Fiabe in cui la bontà non arriva con cavalli bianchi e fanfare, ma in silenzio, in sneakers strappate tenute insieme da uno spago.
Fiabe in cui la “principessa” è la ragazza più normale del mondo, che semplicemente non ha smesso di ascoltare il proprio cuore.