Tatiana varcò la soglia dell’obitorio proprio mentre l’alba, pallida e metallica, strisciava sui muri di cemento. Il turno era appena iniziato, eppure bastarono pochi minuti perché la realtà prendesse la piega assurda di un melodramma.
Un’ambulanza si fermò davanti all’ingresso. La sirena tacque di colpo, come se anche il suono avesse paura di entrare. Subito dopo comparve qualcosa che lì non avrebbe dovuto esistere: un corteo nuziale. Limousine lucide, fiori freschi, nastri che danzavano nel vento — simboli di speranza e felicità trascinati, incredibilmente, fino alle porte della morte.
I colleghi di Tatiana uscirono come richiamati da una calamita. Barellieri, infermieri, patologi: una fila di camici bianchi identici, spettri curiosi che osservavano la vita invadere il regno dei defunti. Si udivano sussurri, dita puntate, telefoni alzati per catturare quell’istante impossibile. Un matrimonio… in un obitorio. Non era solo raro: sembrava una crepa nel mondo.
Tatiana rimase indietro, appoggiata al muro, mezza nascosta nell’ombra. Era arrivata da poco e non aveva ancora guadagnato né confidenza né affetto. Sentiva addosso gli sguardi, le frasi non dette, quella nebbia di giudizio che si infilava dappertutto. Tutti sapevano. Lei era stata in prigione.
Nessuno lo proclamava, ma i corridoi lo mormoravano:
“È un’assassina.”
“Ha ammazzato il marito.”
“Sei anni dentro, adesso lava i pavimenti.”
Parole che non cadevano mai davvero a terra. Restavano sospese, pesanti, come gocce scure prima del temporale.
Tatiana non cercava attenzione. Voleva soltanto un angolo in cui respirare. Il passato, però, era un chiodo piantato nella carne: dolore, solitudine, crudeltà. Sei anni dietro le sbarre, condannata a sette per aver ucciso il marito. Non un gesto da ladra o truffatrice. Un atto disperato: un coltello afferrato per non morire.
Il loro matrimonio era durato un soffio: un anno appena. Le nozze erano state una favola di superficie — abito bianco, brindisi, sorrisi finti quanto la luce dei flash. Ma già il giorno dopo la maschera di lui era caduta. E sotto, non c’era un marito: c’era un predatore.
Tatiana era cresciuta in orfanotrofio. Nessuna famiglia a cui tornare, nessuno che potesse bussare alla porta e dire: “Basta.” Per lei ogni giorno aveva un prezzo: botte, umiliazioni, paura. Finché una sera, quando lui alzò ancora la mano, qualcosa dentro di lei si spezzò come vetro. La lama brillò. E tutto finì.
Il processo fu una macelleria. I parenti di lui — numerosi, influenti, affamati di punizione — chiesero sangue. Tatiana ricorda ancora la giudice: una donna anziana, occhi duri e stanchi, voce che sembrava aver visto troppo. Disse, in aula, senza alzare il tono:
«Per questo non si manda una persona in prigione. Per questo si ringrazia. Il mondo diventa più pulito.»
Eppure la condanna arrivò lo stesso. Sette anni. Sei scontati, poi la libertà condizionata.
Fuori, però, non c’era salvezza. C’era solo un tipo diverso di prigione. Nessuno voleva un’ex detenuta: né in un bar, né in un negozio, né come addetta alle pulizie. Le porte restavano chiuse una dopo l’altra, come se la sua vita avesse un cartello appeso al collo.
Finché, un giorno, passò davanti all’obitorio e notò un foglio ingiallito:
“Cercasi personale. Non serve esperienza. Stipendio sopra la media.”
Il cuore le saltò in gola. Entrò, disse la verità aspettandosi il rifiuto. Invece la presero. Poche parole, zero prediche. Solo un lavoro.
All’inizio fu un inferno silenzioso. Le prime notti si svegliava sudata, con in testa colpi di porte e passi di guardie. Poi, lentamente, la paura cominciò a ritirarsi, soprattutto dopo la frase del vecchio patologo, Petr’ Efremovič — magro, capelli grigi, rughe come strade sulla pelle:
«Devi temere i vivi, ragazza. I morti non possono più farti niente.»
Tatiana se la ripeteva come una formula. Con il tempo, smise di vedere i corpi come spettri: erano persone che avevano finito di soffrire. Loro erano in pace. Lei, invece, stava ancora combattendo.
E poi arrivò quel giorno assurdo.
Una sposa fu portata dentro su una barella. Coperta da un lenzuolo, con il bouquet accanto e un vestito bianco da principessa addormentata. Vicino a lei lo sposo — giovane, bello, ma svuotato. Non piangeva. Fissava il nulla con lo sguardo di chi ha già lasciato il mondo, anche se cammina ancora. I familiari cercavano di trascinarlo via, lui resisteva come un naufrago aggrappato a un relitto. Quando finalmente lo allontanarono, si girò verso l’ingresso dell’obitorio come se fosse la porta dell’inferno.
Tatiana passò accanto alla barella e sentì un brivido: la ragazza era bellissima. Nessuna smorfia di dolore. Niente rigidità. Sembrava… addormentata. La pelle aveva un colorito incredibile, persino rosato, come dopo un lungo sonno.
«Tatiana, finisci di pulire quella cassa e chiudi lì», la richiamò Efremovič.
«Oggi niente autopsie?» chiese lei.
«No. Devo andare via d’urgenza. Torno domani mattina.»
Poi ridacchiò, amaro: «Tanto questi non hanno fretta. Possono aspettare.»
Quando rimase sola, Tatiana sentì crescere dentro un’inquietudine che non riusciva a ignorare. Uscì per prendere fiato: l’aria era fredda, pulita. Sulla panchina davanti all’obitorio lo sposo sedeva curvo su se stesso, come un vecchio. Sembrava un’ombra tra le ombre.
«Posso aiutarla?» chiese lei, piano.
Lui alzò gli occhi, lenti.
«Può portarmi da lei?»
Tatiana scosse la testa. «Non posso. Mi licenzierebbero… e per me trovare lavoro è già un miracolo.»
«Perché?» domandò lui, senza curiosità, come se sapesse già le risposte peggiori.
Tatiana lo guardò e decise di non mentire: «Sono uscita di prigione. Ho ucciso mio marito.»
Lui annuì, quasi distratto, e poi chiese una cosa che le gelò la schiena:
«Non l’hanno ancora aperta?»
«No. Domani.»
Lo sposo abbassò lo sguardo. «Io non voglio andarmene. Quando la seppellirò… forse me ne andrò anch’io.»
«Non dica così!» sbottò Tatiana. «È terribile, ma deve vivere…»
«Ho deciso», tagliò lui. E la sua voce non aveva più pieghe.
Tatiana rientrò con un pensiero fisso: quella ragazza non sembrava morta.
Dalla sala fredda filtrava un odore di disinfettante e metallo. Tatiana si avvicinò alla barella. Vide la mano sporgere in modo innaturale, quasi come se il corpo si fosse spostato da solo. Istintivamente, sollevò appena il lenzuolo e sfiorò le dita della sposa.
Calde.
Non tiepide. Calde davvero. In quel posto i corpi diventano freddi come pietra. Quello era impossibile.
Tatiana afferrò la borsa con le mani che tremavano, cercò uno specchietto incrinato e lo portò vicino alle labbra della ragazza. Un attimo. Solo un attimo.
Lo specchio si appannò.
Un respiro. Minuscolo, fragile, ma reale.
«Valera!» gridò, correndo verso il giovane barelliere.
Valera — sempre composto, sempre lucido — la guardò, vide lo specchio, capì senza bisogno di domande. Mise lo stetoscopio sul petto della sposa, ascoltò, impallidì.
«Il cuore batte», sussurrò. «Debole… ma batte. Chiamate subito un’ambulanza!»
Tatiana uscì di corsa e urlò verso la panchina:
«La vostra sposa è viva!»
Lo sposo scattò in piedi come se qualcuno l’avesse schiaffeggiato con la vita.
«Non stai mentendo?» balbettò.
«No!»
Quando la barella cominciò a essere spinta fuori, lui si lanciò verso l’ingresso.
«Vengo con voi!»
«Chi è lei?» chiese il medico.
«Il marito», singhiozzò. «Oggi… oggi ci siamo sposati.»
Il medico annuì, già in movimento: «In macchina. Ogni minuto conta.»
Le sirene ripresero a urlare, i lampeggianti tagliarono l’alba come lame. L’ambulanza scomparve dietro l’angolo lasciando solo polvere, silenzio e una speranza che tremava, ma non cadeva.
Tatiana e Valera rimasero fermi davanti all’obitorio, come due sentinelle sul confine tra i mondi.
«Tanya…» mormorò Valera quando finalmente riuscì a respirare, «oggi hai salvato una vita.»
Poi, come a mettere ordine nel miracolo, aggiunse:
«È stato il freddo. Ha rallentato il corpo. Il medico dice che non era un veleno letale: era un sedativo potentissimo, una dose capace di simulare la morte.»
Tatiana si asciugò le lacrime. Non erano di paura. Non più.
«Una vita per un’altra», sussurrò. «Io ne ho tolta una… e oggi ne ho restituita una.»
Valera non la giudicò. Non distolse lo sguardo. Le regalò solo un sorriso semplice, caldo, come il sole quando finalmente decide di tornare.
«Ti va un tè?» disse. «Lo so, il posto non è proprio… invitante. Ma oggi perfino qui è successo qualcosa di buono.»
Si sedettero sulla panchina dove, pochi minuti prima, un uomo voleva sparire dal mondo. Ora quella panchina sembrava un simbolo diverso: non più addio, ma ritorno.
«Dopo l’Accademia militare», iniziò Valera, versando il tè in due bicchieri di plastica, «sono stato in un ospedale da campo. Ho visto salvare persone che non dovevano farcela. Ho visto errori… e ho visto miracoli. Posso chiederti una cosa, Tanya? Com’è che sei finita… qui?»
Lei esitò, poi parlò. Dell’orfanotrofio. Del matrimonio diventato trappola. Delle botte, delle notti in cui pregava di non svegliarsi. Del coltello. Del processo. Del carcere.
Quando finì, Valera non le regalò frasi vuote.
Disse soltanto, piano: «Non torturarti per lui.»
Tatiana lo fissò, come se quella frase le avesse aperto una finestra.
«Sei il primo che non mi guarda come un’assassina», sussurrò. «Ma come… come qualcuno che è sopravvissuto.»
In quel momento un’auto vecchia ma tenuta bene si fermò davanti all’obitorio. Scese Petr’ Efremovič con una sigaretta tra le dita e occhi stanchi, però vivi.
«E allora? Già in pausa, piccioncini?» buttò lì, ironico.
Valera alzò il bicchiere: «Mai visto niente del genere. Se la dose fosse stata appena più alta, non si sarebbe svegliata.»
Efremovič sospirò e guardò l’ingresso come se parlasse con il destino: «Per fortuna ho rimandato l’autopsia. Altrimenti…» Non finì. Non serviva.
La mattina dopo Tatiana uscì dall’obitorio con un peso diverso sul petto. Non più solo vergogna o paura. Qualcosa di nuovo: la certezza di aver visto un respiro dove tutti vedevano solo fine.
Alla fermata dell’autobus un’auto si fermò.
«Tanya, sali. Ti accompagno», disse Valera dal finestrino.
Lei esitò. Sentiva gli occhi dei colleghi addosso, più appuntiti del solito, come se il miracolo li avesse irritati invece che cambiati.
Valera sorrise, senza aggressività: «Quello che pensano non conta.»
Tatiana salì.
Da quel giorno iniziarono i loro viaggi del mattino. Giorni, settimane. Un pomeriggio, davanti all’obitorio, Valera disse all’improvviso:
«Andiamo al cinema? O anche solo a bere qualcosa.»
Tatiana scosse la testa, pronta a nascondersi:
«Perché? Sai chi sono… io sono stata in prigione.»
Lui la guardò con calma, come si guarda una ferita che non fa più paura:
«Anch’io ho combattuto. Ho sparato. Ho ucciso. Non con una pistola giocattolo. Pensi che io sia più pulito? Siamo entrambi passati dall’inferno. Ma siamo qui. E questo basta.»
Quella sera, mentre puliva un corridoio, Tatiana sentì qualcosa sciogliersi dentro: non era ancora felicità, forse. Ma era la strada che ci portava.
Poco dopo, dalla sala riposo arrivò una voce ruvida:
«Valera, sei impazzito? Ti serve davvero una storia del genere?»
«Affari miei», rispose lui.
«È stata in carcere!»
Valera uscì nel corridoio e, con una calma spaventosa, disse:
«Una sola parola cattiva su Tanya… e sarai tu a finire qui dentro. Da sdraiato.»
Il collega arretrò, borbottò qualcosa e sparì.
Tatiana rimase immobile. Valera le sfiorò il gomito.
«Non può andare avanti così», disse. «Mi piaci, Tanya. Sul serio. E voglio che tu smetta di vivere come se dovessi chiedere scusa per esistere.»
Lei non fece in tempo a rispondere, perché una voce allegra li travolse come vento:
«Ehi! Ma voi dovete sposarvi!»
Si voltarono. Era lei. La sposa, ancora pallida ma viva, con un sorriso che sembrava una promessa.
«Dovete dire sì», insistette. «Siete voi che mi avete ridato la vita. Lasciate che io vi renda almeno un po’ di quello che mi avete dato.»
Niente festa grandiosa, dissero loro. Niente favole a comando.
«Ci basta un sì semplice», spiegò Valera.
E allora i neosposi fecero una cosa diversa: non champagne e fuochi d’artificio, ma un regalo vero. Una luna di miele al mare.
«Hai mai visto il mare?» chiese Valera.
Tatiana abbassò gli occhi, quasi vergognandosi di una vita senza orizzonti:
«Mai.»
Pochi giorni dopo presentò le dimissioni.
«Troverò qualcos’altro», disse.
Valera sorrise: «Per adesso il mio compito è uno solo: prendermi cura di te. Farti sentire al sicuro.»
E quando si ritrovarono sulla riva, con le onde che correvano e tornavano come un respiro gigante, Tatiana capì una cosa che non osava neppure sperare: era viva.
Davvero.
E il mare, immenso e azzurro, sembrò dirle sottovoce:
“Te lo sei meritato.”