“Il marito ha cacciato la moglie via come se fosse un oggetto senza valore, ma dopo solo un anno si è ritrovato a rimpiangere amaramente quella decisione.”

Un colpo alla porta risuonò proprio mentre stavo per buttare nel cestino un’altra teglia di pancake bruciati. Le tre del mattino non sono certo il momento migliore per cimentarsi in esperimenti culinari, ma l’insonnia abbinata a video ricette su VK è una miscela decisamente pericolosa.

— Se è ancora Petrovich con il suo liquore casalingo, giuro che… — mormorai, asciugandomi le mani su un grembiule con scritto “Il Miglior Cuoco del Lunedì”.

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Il colpo si ripeté, questa volta più lieve, quasi un tentativo di rinunciare. Guardai fuori dalla finestra: era così buio che non riuscivo nemmeno a distinguere i miei occhi; solo la lanterna accanto al cancello tremolava come una lucciola ubriaca.

Aprii la porta e rimasi senza fiato. Davanti a me c’era un cestino di vimini. “Non può essere…” pensai, mentre un flebile gemito si alzava dal contenitore.

Due neonati. Uno dormiva sereno con le manine strette, l’altro piangeva con gli occhi colmi di lacrime. Accanto, un biglietto scritto di fretta: “Vi prego, prendetevi cura di loro. È tutto ciò che posso fare.”

— Accidenti… — dissi, ricordando improvvisamente quei piccoli. — Oddio.

Le mani mi tremavano mentre portavo dentro il cestino. Trentacinque anni, single, con un gatto che non prende nemmeno i topi, e adesso improvvisamente due bambini. Avevo sempre desiderato diventare madre, ma in modo più… convenzionale.

— Va bene, Anna, calmati — mi dissi mentre sistemavo i piccoli sul divano. — Ora chiamo la polizia e…

Il telefono era già in mano, il numero composto, ma esitavo a premere il tasto verde. Immaginavo servizi sugli orfanotrofi, storie di affidi complicati. No, non potevo farlo.

Il neonato che piangeva si fece sentire di nuovo. Corrii al frigorifero, presi un litro di latte: sarebbe dovuto bastare. Su internet avevo trovato istruzioni su come preparare una formula fatta in casa.

— Ecco, piccolino, calmati — mormorai mentre lo nutrivo. — Bravissimo.

Il secondo si svegliò e iniziò a piangere a sua volta. Mi muovevo goffamente tra i due, cercando di consolarli entrambi.

Il mattino mi sorprese in cucina. I pancake mezzi mangiati erano diventati sottobicchieri per i biberon, e io sedevo con la testa tra le mani a guardarli dormire.

— Cosa farò di voi? — sussurrai.

Uno dei due sorrise nel sonno e qualcosa dentro di me si spezzò e allo stesso tempo si ricompose. Guardai il telefono, poi i bambini, e di nuovo il telefono, poi cancellai con decisione il numero della polizia.

— Va bene, piccoli — dissi, con un sorriso che si fece largo tra le mie labbra. — Sembra proprio che abbiate una mamma ora. Un po’ pasticciona, ma con tanto amore.

Immediatamente entrambi si svegliarono e piansero all’unisono.

— Sì, dobbiamo assolutamente imparare a cambiare i pannolini — sospirai, aprendo il browser — sembra proprio che questa giornata sarà molto movimentata.

Sedici anni sono volati come un solo giorno. Beh, non proprio un giorno qualunque, ma un episodio infinito di una soap opera piena di drammi, commedie e colpi di scena.

— Zia Anna, perché non abbiamo foto da neonati? — mi chiese Kira a colazione, giocando col porridge.

Cercai di non strozzarmi con il caffè. In sedici anni avevo costruito un intero castello di bugie su una sorella immaginaria, inventando tragedie, versando lacrime alle riunioni con gli insegnanti, raccontando di aver “eroicamente” cresciuto nipoti e nipoti.

— Sono… andate perse in un incendio — balbettai la prima cosa che mi venne in mente.

— Con mamma e papà? — intervenne Maxim, alzando lo sguardo dal telefono.

— No, era un altro incendio — inciampai nelle mie stesse bugie — in uno studio fotografico. Tutti i rullini andarono distrutti…

— Nell’era digitale? — Kira alzò un sopracciglio con sarcasmo.

— Tesoro, finisci il porridge, o facciamo tardi a scuola.

Lavoravo due lavori: contabile di giorno e insegnante d’inglese di sera. Tra una cosa e l’altra, gestivo la casa, i compiti, e infinite chat genitoriali piene di sfide per il titolo di “mamma più brava”.

— Anna Sergeyevna — mi chiamò la vicina Maria Petrovna mentre portavo a spasso il nostro cane Balamut, un regalo per il settimo compleanno dei bambini per distrarli dalle mille domande — È vero che tua sorella era una ballerina?

— Artista — corressi, maledicendo la mia memoria che una settimana fa mi aveva fatto chiamare insegnante di matematica.

— E Klavdia dal quinto palazzo ha detto…

— Scusa, Balamut ha mangiato qualcosa! — gridai trascinando il cane sano a casa.

La sera, mentre correggevo i compiti, sentivo il fruscio provenire dalla stanza accanto. I bambini bisbigliavano, promettendo sempre guai.

— Mamma — apparve Maxim sulla soglia — voglio dire, zia Anna…

Quel “zia” mi colpì al cuore. Negli ultimi anni me lo avevano detto sempre più spesso, specialmente nei momenti difficili.

— Kira e io volevamo chiederti — esitò — possiamo vedere le vecchie foto con mamma e papà?

— Certo! — risposi troppo in fretta — Sono in soffitta, dobbiamo solo cercarle.

— Le abbiamo già guardate — entrò Kira in cucina, braccia incrociate — non c’è nulla.

Rimasi immobile, un brivido mi percorse la schiena. Gli album c’erano, insieme ai libri per bambini che avevo comprato prima che esistessero, quando sognavo di avere figli, e quel cestino con il biglietto che non avevo mai avuto il coraggio di buttare.

— Ragazzi, io…

— Non serve — alzò la mano Kira — diteci la verità. Solo una volta.

A quel punto squillò il telefono: un’altra mamma voleva parlare dei progressi del figlio in inglese. Ringraziai il cielo per quella distrazione.

— Scusate, chiamata importante — balbettai scappando dalla cucina.

La sera finì con una cena silenziosa. I bambini andarono a dormire e io restai a fissare i loro disegni sul frigorifero: una famiglia stilizzata fatta da Kira e un supereroe con la mia pettinatura disegnato da Maxim.

Improvvisamente sentii un rumore in soffitta. Il cuore mi saltò un battito. No, non ora.

Silenziosa, salii le scale e vidi una luce dall’oblò della soffitta. Poi sentii la voce di Maxim:

— Guarda cosa ho trovato…

Nelle sue mani c’era quel biglietto, ingiallito dal tempo ma custode del nostro segreto.

Rimasi paralizzata sull’ultimo gradino. Sedici anni di menzogne, storie inventate e bugie crollarono come un castello di carte. La gola si seccò e un pensiero martellava la mia mente:

— Potrei perderli. Proprio ora.

— Mamma? — la voce tremava — chi siamo davvero per te?

La storia doveva avere una fine. Ed è arrivata lì, nel silenzio polveroso della soffitta, tra scatole del passato e l’imbarazzo del presente.

— Io… non so da dove cominciare — la mia voce era roca.

Kira accese una vecchia lampada da scrivania e le nostre ombre danzarono sulle pareti come in un film muto. Maxim teneva ancora il biglietto, le dita tremanti.

— Forse dovresti iniziare dalla verità — disse Kira con fermezza — per cambiare.

Mi sedetti su un vecchio baule, le ginocchia cedettero. Avevo immaginato quel momento mille volte, inventando le parole perfette, ma ora tutto svaniva.

— Ti ricordi quella volta con Balamut, quando ha mangiato i miei documenti? — cominciai.

— Cosa c’entra? — disse Maxim.

— Dissi che era la notte peggiore della mia vita. Mentivo. La notte peggiore — e allo stesso tempo la migliore — fu sedici anni fa, quando provai a fare i pancake alle tre del mattino.

Raccontai tutto: il colpo alla porta, il cestino, il biglietto, la paura, il panico, le ricerche su internet, le notti insonni e i primi sorrisi.

— Avrei dovuto chiamare la polizia — la mia voce tremava — ma vi guardai e non ce la feci.

— Ci hai rapiti — sussurrò Kira.

— No! Beh, sì. Vi ho strappati a un sistema che vi avrebbe ridotti a numeri, a un orfanotrofio che vi avrebbe divisi, a una vita che non meritavate.

Maxim si sedette per terra, appoggiandosi a un vecchio comò.

— E i nostri veri genitori? — chiese. — Non hai mai cercato?

— Ho cercato — risposi, indicando una scatola.

Dentro c’erano ritagli di giornale, forum, lettere. Dieci anni di ricerche senza esito.

— E allora perché hai mentito? — disse Kira sfogliando i ritagli — inventando una mamma morta, ballerina, artista, insegnante di matematica?

— Lo so, è stato stupido — sorrisi tristemente — volevo darvi una storia, per non farvi sentire…

— Abbandonati? — Maxim alzò lo sguardo, con gli occhi lucidi.

— Amati — dissi.

E con quel semplice sentimento, il peso di sedici anni si dissolse.

— A proposito di pancake — Maxim si alzò stiracchiandosi — forse ordiniamo una pizza?

— Tradizione di famiglia, fare cose assurde a quest’ora — strizzai l’occhio.

Scendemmo in cucina e aprii un vecchio album.

— Cos’è? — chiese Kira.

— Il nostro nuovo album di famiglia — risposi — è ora di iniziare la nostra vera storia.

Incollai il biglietto sulla pagina successiva e scrissi: “Grazie per il miglior regalo della mia vita. Scusate per tutti i pancake bruciati.”

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