«C’era una donna considerata “matta” nel quartiere: ogni volta che Clara e le sue amiche tornavano da scuola, le gridava che era la sua vera madre…
Ogni pomeriggio, Clara percorreva lo stesso tragitto insieme alle sue due migliori amiche, Mia e Jordan: Maple Street, il profumo del panificio all’angolo, poi il parco vecchio con i giochi arrugginiti e le pozzanghere che riflettevano il cielo. Lì, su una panchina sempre uguale, se ne stava una donna dai vestiti consumati e strappati, stretta a un orsacchiotto spelacchiato come fosse l’unica cosa rimasta al mondo.
Di solito borbottava frasi sconnesse, persa nei suoi pensieri. Ma un giorno, appena Clara le passò davanti, scattò in piedi come colpita da una scossa e urlò, con una voce che fece girare tutti:
«Clara! Clara, ascoltami! Sono io… io sono la tua vera mamma!»
Le tre ragazze si bloccarono di colpo. Mia le afferrò il braccio e sibilò: «Non darle retta, andiamo via». Si allontanarono quasi correndo, ridendo per l’imbarazzo e la paura. Ma Clara non rise. Sentì una stretta al petto e, senza capire perché, quella voce le rimase piantata in testa.
Da quel giorno diventò un appuntamento fisso: la stessa panchina, lo stesso orsacchiotto, la stessa frase. A volte la donna la chiamava piano, come in una preghiera. Altre volte urlava fino a farsi venire la tosse. A scuola gli insegnanti dicevano che era una senzatetto con problemi mentali. A casa, i suoi genitori adottivi — Mark ed Elaine Carter — le ripetevano di starle lontano.
«È pericolosa, tesoro», le disse Elaine stringendola forte. «Promettimi che non ti avvicinerai.»
Eppure, di notte, Clara restava sveglia a fissare il soffitto. Una domanda le graffiava la mente: come fa a sapere il mio nome?
E poi ce n’era un’altra, ancora più inquietante: come faceva quella donna a conoscere dettagli che quasi nessuno notava? La piccola voglia dietro l’orecchio, per esempio. Clara se la copriva spesso con i capelli. Eppure, un giorno la donna l’aveva indicata da lontano, come se la vedesse da sempre.
Poi arrivò un pomeriggio di pioggia, di quelli in cui l’acqua ti entra nelle scarpe e ti fa venire voglia di sparire. Mentre attraversava il parco, a Clara scivolò il quaderno dalle mani e cadde a terra, schizzando fango. Prima che lei potesse chinarsi, la donna lo raccolse e glielo porse.
«Hai gli occhi di tuo padre», sussurrò, con una dolcezza improvvisa che stonava con tutto il resto. «Mi avevano detto che eri morta…»
Clara tornò a casa fradicia e tremante, non solo per il freddo.
«Mamma…» disse appena entrata. «Quella donna sa delle cose. Ha parlato della macchia dietro il mio orecchio.»
Elaine si irrigidì come se qualcuno avesse aperto una finestra in pieno inverno. Mark abbassò lo sguardo. E per la prima volta quella casa, di solito così piena di suoni, le sembrò spaventosamente muta.
Dopo un lungo silenzio, Elaine lasciò uscire un respiro pesante.
«Clara… ci sono cose che non ti abbiamo mai raccontato. Ti abbiamo adottata quando avevi due anni. L’agenzia ci disse che tua madre biologica… non stava bene. Che ti aveva lasciata in un rifugio.»
Clara ebbe la sensazione che l’aria le mancasse.
«Quindi è vero… quella donna…»
«È malata», tagliò corto Elaine, troppo in fretta. «Non puoi fidarti di quello che dice.»
Ma ormai la curiosità non era più curiosità: era un tarlo. Il giorno dopo, Clara tornò al parco da sola. La donna era lì, sotto lo stesso albero, con lo stesso orsacchiotto serrato contro il petto. Quando vide Clara avvicinarsi, gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Mi avevano detto che ti avevano portata via», disse con voce rotta, ma lucida. «Ti ho cercata per anni. Non ero pazza, Clara. Ero… distrutta. Ero in lutto.»
Dalle tasche tirò fuori una foto scolorita. Una ragazza giovane, con lo sguardo vivo, teneva in braccio un neonato avvolto in una coperta gialla. Clara sentì un brivido: quella stessa coperta era ripiegata nel suo armadio, un “ricordo” che Elaine diceva di aver ricevuto insieme ai documenti dell’adozione.
«Per favore», mormorò la donna. «Ascoltami solo un minuto.»
Clara iniziò a vederla di nascosto nelle settimane successive. La donna si chiamava Lydia. Ogni volta raccontava un frammento: una ninna nanna, una cicatrice sul ginocchio, un soprannome che Clara non sentiva da quando era piccolissima. “Estrella”, le diceva. E Clara, senza volere, sentiva una parte di sé rispondere a quel nome come a un richiamo antico.
Alla fine non ce la fece più. Una sera affrontò Mark ed Elaine con la voce che le tremava, ma gli occhi fermi.
«Mi avete detto che mi aveva abbandonata», disse. «Ma non è andata così, vero?»
Mark si strofinò le mani, colpevole come un bambino.
«Non sapevamo tutto», ammise. «Tua madre ha avuto un incidente. È rimasta in coma per mesi. E prima che si svegliasse… il sistema ti ha dichiarata abbandonata. Quando lei si riprese, era già tutto fatto. Noi…» Deglutì. «Non riuscivamo a sopportare l’idea di perderti.»
Elaine scoppiò a piangere.
«Abbiamo sbagliato a nascondertelo. Avevo paura. Paura che un giorno tu andassi via e non mi guardassi più come tua madre.»
Clara restò seduta, immobile, con il cuore spaccato in due: gratitudine da una parte, dolore dall’altra. Come si fa a scegliere quando entrambe le parti hanno ragione e torto insieme?
Il giorno dopo portò Lydia a casa. Elaine rimase pietrificata sulla soglia, come se vedesse un fantasma. Poi, lentamente, fece un passo avanti. Allungò una mano, esitante, e quando Lydia tremò, Elaine la strinse… e la abbracciò.
In quel momento Clara vide ciò che non aveva mai immaginato: due madri. Una che le aveva dato la vita. Un’altra che le aveva tenuto in piedi la vita. Entrambe in lacrime, strette nello stesso dolore, nello stesso amore, nello stesso perdono difficile.
Da quel giorno, la “donna pazza” non fu più un’ombra nel parco. Era una madre che non aveva mai smesso di cercare sua figlia.
E tu, se fossi stata Clara, saresti tornata a cercare la verità… o avresti lasciato che il passato restasse dove stava, sepolto e silenzioso?»