— Mamma, stai davvero esagerando! Vuole solo parlare! — sbottò Diana, in shorts da casa e maglietta consunta, lanciando il telefono sul divano con un gesto seccato. Lo smartphone affondò tra i cuscini, con un tonfo ovattato. — Cosa ci trovi di così assurdo?
— “Assurdo”, Diana, è che quest’uomo sparisce per quindici anni e adesso improvvisamente si ricorda di avere una figlia! — Maya rimase ferma con lo straccio in mano, sentendo lo stomaco stringersi in una morsa fredda. — Per quindici anni non ha mai mostrato il minimo segno che tu esistessi… e ora sbuca dal nulla! Non ti chiedi perché?
— Ha detto che si è pentito! Che era giovane, stupido. Le persone cambiano!
— Le persone forse sì. Lui… ne dubito fortemente, — replicò Maya con un tono duro, girandosi verso la finestra, dietro cui cadeva una pioggia fine e malinconica d’autunno.
Quel giorno se lo ricordava fin troppo bene. Igor, suo marito… la giacca di jeans lisa, il sorriso sciocco, la frase lanciata in fretta: «Torno subito, vado a prendere il pane». Diana aveva tre anni appena, seduta sul pavimento a costruire torri con i cubetti colorati.
Non era solo “andato via”: era evaporato. All’inizio Maya non rispondeva alle chiamate, era lei a tempestarlo di telefonate. Poi il numero smise di esistere. I genitori di Igor abbassavano lo sguardo e si limitavano a mormorare: «Sarà partito per lavoro. Non ci ha detto niente». E così Maya era rimasta sola. Senza soldi, senza spalle su cui poggiare, con una bambina piccola da crescere.
Aveva conosciuto la fatica fino all’osso: il cuscino inzuppato di lacrime che girava dall’altro lato per riuscire a dormire un paio d’ore; i turni tanto pesanti da farle tremare le ginocchia; i collant rammendati così tante volte che sul tallone si era formata una ragnatela di punti.
Eppure, ce l’aveva fatta. Aveva tirato su sua figlia da sola. E ora, quando Diana era quasi alla maturità e la loro vita, pezzo dopo pezzo, era stata ricostruita, alla porta si presentava il “papà smarrito”.
Diana l’aveva trovato sui social. Gli aveva scritto per prima, con un messaggio lungo, pieno di nostalgia e rimpianti. E la ragazza, cresciuta senza un abbraccio paterno, si era sciolta come neve al primo sole di marzo.
— Mamma, è solo un caffè. In centro, in un locale pieno di gente. Te lo giuro. — La voce di Diana vibrava mentre si avvicinava a Maya e le appoggiava una mano sulla spalla. — Voglio solo incontrarlo. Una sola volta. Ti prego.
Il cuore di Maya fece un balzo doloroso. Si voltò e incontrò gli occhi di sua figlia: gli stessi occhi castani di Igor, ma lì dentro non c’era più spensieratezza, solo una supplica limpida e ostinata. Come poteva impedirle di vedere il fantasma del padre?
— Va bene. — cedette piano. — Ma tieni acceso il mio telefono. E al minimo segnale strano mi chiami subito.
Igor si dimostrò sorprendentemente cordiale. Maya lo capì fin dal primo istante in cui lui riportò a casa Diana. Un SUV nero, lucido, si fermò sotto il loro palazzo; lui scese, aprì la portiera alla ragazza con modi da perfetto gentiluomo, avvolto in un cappotto di cashmere costoso, e con quel sorriso colpevole che un tempo, tanto tempo prima, aveva fatto vacillare anche lei.
— Ciao, Maia. Grazie per aver permesso questo incontro.
— Non ti serve il mio permesso. È abbastanza grande per decidere da sola, — replicò lei fredda, afferrando Diana per il gomito e trascinandola quasi dentro l’androne, lontano da quell’uomo e dal suo dopobarba troppo familiare.
Ma il ghiaccio cominciò a sciogliersi. Non nel cuore di Maya, bensì in quello di Diana. Appena rientrata, la ragazza buttò la giacca a terra e iniziò a parlare a raffica.
— Mamma, non immagini! È completamente diverso da come pensavo! Mi ha ascoltata per tutto il tempo, mi ha chiesto della scuola, di quello che sogno per il futuro! Dice che ha messo in piedi una piccola attività. E che per anni ha vissuto nel rimorso, che non ha trovato il coraggio di farsi vivo… Mi vede come il suo tesoro più prezioso.
Da quel momento, per Diana cominciò una specie di fiaba. Per Maya, un incubo vigile.
Il fine settimana successivo lui la portò a fare shopping. Maya la vide tornare carica di buste con marchi che lei non avrebbe mai potuto permettersi. Diana si pavoneggiava davanti allo specchio con le sneakers nuove e i jeans perfetti.
— Ha detto: «Ti dona tutto, principessa. Prendi ciò che vuoi». Ti rendi conto, mamma?
Maya se lo immaginava fin troppo bene. E proprio questo le faceva ancora più male.
Poi venne la cena in un ristorante panoramico al venticinquesimo piano, con vista a perdita d’occhio sulla città. Diana le mandò una foto: sorrideva con un dessert davanti e le luci metropolitane sullo sfondo. «Papà dice che devo imparare a guardare il mondo dall’alto, non solo dal davanzale della nostra cucina», scrisse in chat.
Durante una passeggiata al parco, Igor si fermò all’improvviso.
— Ti ricordi? Amavi l’altalena più di ogni altra cosa. E quel coniglio con un orecchio solo… Non lo lasciavi nemmeno per dormire. Che peccato non aver visto come sei cresciuta.
Diana chiamò immediatamente la madre, piena di entusiasmo:
— Mamma! Si ricordaaaa! Si ricorda del mio coniglietto! Mi voleva bene, davvero!
Maya tacque. Vide con gli occhi della mente quello sguardo acceso di sua figlia, le spalle finalmente dritte. Non ebbe il coraggio di spegnere quella luce tardiva e fragile. Ma il suo istinto le urlava che qualcosa non quadrava.
Nei gesti di lui c’era troppa teatralità, troppa cura studiata. E nei suoi occhi, quando fissava Diana, Maya percepiva non solo un velo di tenerezza, ma una febbrile speranza calcolata, come se davanti a sé non avesse una figlia, ma un biglietto vincente.
Dopo l’ennesima supplica di Diana, Maya cedette:
— Va bene, lo invito per un tè. Una volta.
Igor si presentò sulla soglia del loro minuscolo appartamento dondolandosi leggermente sulle gambe. Il soprabito impeccabile e le scarpe lucide sembravano quasi una presa in giro in quel pianerottolo scrostato. In mano stringeva una torta di pasticceria, con una confezione talmente elegante da sembrare fuori posto.
Seduti nella loro piccola cucina, Maya versava il tè nelle tazze spaiate, senza dire una parola. Diana, raggiante, parlava della scuola, degli esami, dei professori.
Poi, all’improvviso, la domanda che aleggiava da sempre cadde sul tavolo.
— Papà… perché? — sussurrò Diana, più piano, quando si creò un momento di silenzio. — Perché sei andato via?
Igor inspirò a fondo e poggiò la tazzina. Guardò prima sua figlia, poi Maya, con un’espressione di colpa quasi studiata.
— Ero vigliacco, — disse, con la voce bassa e roca. — Avevo ventun anni e nemmeno un soldo da parte. Ti vedevo, Maya, distrutta dalla stanchezza, e tu, Diana, così piccola… Mi sono spaventato. Non era la vita che volevo, non ero pronto. Non ero un uomo, ero un ragazzino. Ho avuto paura delle responsabilità, dei pannolini, delle notti in bianco. Così ho scelto la cosa più meschina: scappare. Non pretendo il vostro perdono, non me lo merito. Volevo solo che sapeste la verità.
Diana lo ascoltava in apnee, gli occhi traboccanti di compassione. Perfino Maya sentì incrinarsi l’armatura che si era costruita attorno al cuore. Le si velarono gli occhi e scappò in bagno, per non farsi vedere cedere.
Quando, qualche minuto dopo, rientrò nel corridoio, sentì Igor che diceva, con un tono diverso:
— Ora che… più o meno abbiamo chiarito il passato… — cercò di addolcire la voce — Diana, dobbiamo parlare di qualcosa di molto delicato…
In quel preciso istante il suo telefono squillò. Lui lo guardò e, irrigidendosi, uscì nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.
Dal bagno, Maya colse brandelli di conversazione che le fecero gelare il sangue.
— Sì, sono qui da loro… Mi sembra che sia quasi pronta. Ancora qualche giorno e le dirò tutto… Sì, gli esami… l’importante è che combaci… Sì, Olga, lo so. Farò come abbiamo deciso. Il nostro Sergej deve vivere.
Maya diventò di cera. Sergej. Olga. “Che combaci”.
Tutti i pezzi della storia si incastrarono di colpo in un’unica, orrenda immagine. Le confessioni strappalacrime, i regali generosi, l’apparente senso di colpa: una messinscena indecente.
Quando Igor rientrò in cucina, Diana canticchiava qualcosa mentre sistemava i piattini, felice. Maya lo fissò in silenzio. Nel suo sguardo non c’era più dolore: solo una calma glaciale.
Fu la ragazza a rompere l’atmosfera.
— Mamma, domani papà vuole portarmi in ospedale. Dice che vuole farmi fare degli esami, per controllare la salute. Si preoccupa per me, capisci?
— Diana… — la interruppe Maya con fatica. — Siediti un attimo, tesoro. Dobbiamo parlare.
Le raccontò tutto. Ogni singola parola intercettata nel corridoio.
Il volto di Diana si trasformò davanti a lei: prima stupore, poi rifiuto, infine puro terrore.
— No… Mamma, no! Hai capito male, sicuramente! Non può essere! — singhiozzò, con le lacrime che le rigavano il viso. — Lui non lo farebbe mai…
— Può eccome, amore mio. E lo ha fatto.
Il giorno dopo Igor li aspettava davanti al portone, preciso come un orologio, un mazzo di rose gialle brillanti tra le mani.
Maya e Diana uscirono insieme. Maya camminava dritta, rigida, con la faccia di pietra. Diana seguiva un passo indietro, quasi nascosta, gli occhi gonfi di pianto coperti dalla frangia.
— Allora, principessa, sei pronta? — chiese Igor, allungando il braccio con i fiori.
Diana indietreggiò, come se davanti a sé avesse una fiamma.
— Dove pensi di portare mia figlia? — domandò Maya, posizionandosi tra i due. La sua voce tremava, ma non di paura.
Il sorriso di Igor si spense all’istante. Le rose vibrarono leggermente nella sua mano.
— Maia… che ti prende? È solo una visita di controllo…
— BASTA. — lo troncò lei, con un urlo che le uscì dal petto. — Basta bugie! Ho sentito tutto! Di Olga! Di Sergej! Di come Diana deve “combaciare”! Perché, Igor? Per cosa deve combaciare mia figlia?!
Lui sbiancò. Lo sguardo rimbalzava tra il viso indurito di Maya e quello in lacrime di Diana.
— Io… volevo spiegarvelo, davvero! — balbettò. — Avevo paura di spaventarvi…
— Paura di spaventarci?! — ribatté Maya, tremando. — Non hai avuto paura di mentire per settimane, di comprarti la sua fiducia a colpi di regali! Sei tornato qui non da padre, ma da mercante!
— Mio figlio… tuo fratello… ha la leucemia, — mormorò quasi senza fiato, piantando gli occhi in quelli di Diana. — Ha bisogno urgente di un trapianto di midollo osseo. Io e Olga non siamo compatibili. I medici dicono che una sorella di sangue ha un’altissima probabilità di essere idonea. Tu… tu sei la nostra unica speranza, Diana.
— Quindi ti sei ricordato di avere una figlia soltanto quando ti serviva qualcosa… dentro le sue ossa? — sibilò Maya. — Non l’hai mai vista come una bambina. Per te è stata solo “materiale biologico”, un pezzo di ricambio!
— Ma è una vita in gioco! La sua vita! — gridò Igor, disperato. — È tua sorella, ha il diritto di chiederle aiuto… devo spiegarle perché è importante!
Fino a quel momento, Diana era rimasta muta. Ora sollevò lentamente la testa. Sul volto c’erano lacrime e rossori, ma nei suoi occhi non c’era più ingenuità: solo una lucidità dolorosa e adulta.
— Sorella…? — ripeté piano, con un’amarezza che tagliava l’aria. — Ho scoperto ieri di essere sua sorella?
Fece scorrere lo sguardo sul cappotto elegante di lui, sulla carrozzeria lucida dell’auto, e infine sul volto sconvolto di quell’uomo che chiamava “papà”.
— Il telefono che mi hai comprato… le sneakers… il ristorante… — ogni parola usciva pesante, come un macigno che cade a terra. — Erano il prezzo da pagare? Un anticipo… per il mio midollo osseo?
Fu come ricevere un pugno dritto nello stomaco. Igor vacillò.
— No, Diana, non capisci… io…
— Mi hai lasciata quando andavo ancora sull’altalena e abbracciavo il mio coniglio con l’orecchio strappato, — la interruppe lei, con la voce che le diventava sempre più ferma. — Non hai mandato gli alimenti quando mamma rattoppava le mie calze per la quinta volta. Non hai telefonato neanche una volta per il mio compleanno. E adesso vieni a dirmi che ti devo qualcosa?
Non trovò più una sola sillaba da aggiungere. Abbassò la testa e il mazzo di rose gli scivolò dalle dita sull’asfalto umido. I petali gialli, sparsi a terra, sembravano la caricatura delle sue scuse tardive. Davanti a loro non c’era più un “signore distinto”, ma un uomo che si confrontava, finalmente, con la miseria delle proprie scelte.
Maya e Diana si voltarono e se ne andarono. Non si concessero neppure un ultimo sguardo. Maya procedeva come retta da una colonna d’acciaio; Diana le strinse la mano come se fosse l’unico appiglio nel mezzo del naufragio.
Quella sera si ritrovarono strette sul vecchio divano, avvinghiate e in lacrime. Prima pianse Diana, con singhiozzi strozzati nella federa del cuscino.
— Come ha potuto farmelo? Perché proprio a me?
Poi le lacrime di Maya si fecero più silenziose: piangeva accarezzando i capelli di sua figlia, non più per il proprio passato, ma per il presente ferito di lei. Non era stata solo un’offesa: era la sensazione che la loro fiducia fosse stata messa in vendita, sfruttata, svalutata.
Quando la stanza sprofondò nel buio e solo la luce del lampione disegnava le loro sagome sul muro, Diana smise all’improvviso di piangere. Rimase zitta a lungo, poi domandò piano:
— Mamma… quel bambino… Sergej… non è colpa sua, vero?
Maya restò senza fiato. Guardò sua figlia e ci vide davanti a sé non più una ragazzina, ma una donna che, pur nel proprio dolore, era ancora capace di compassione. In quegli occhi non c’era più la ferita dell’abbandono paterno, ma la forza di chi sa proteggere.
— No, amore mio… — sussurrò infine, cercando di sciogliere il nodo alla gola. — Lui non ha nessuna colpa.
Ci fu un silenzio lungo, pieno. Non era più smarrimento: era una decisione che prendeva forma.
Il giorno dopo, Diana prese il telefono che Igor le aveva regalato. Aprì il contatto che ormai le suscitava solo disgusto e iniziò a scrivere. Ogni frase le pesava sulle dita, ma sapeva che non poteva tirarsi indietro.
«Farò gli esami di compatibilità. Ma non per te. Per quel bambino che non ha alcuna colpa. Sarà il mio primo e ultimo dono alla vostra famiglia. Dopo non avrai più alcun diritto di cercarmi. Non chiamarmi. Non scrivermi. Non propormi altri incontri. Ho un solo genitore: mia madre. E sarà così per sempre.»
Tenendo il fiato sospeso, premette “invio”.
In quell’istante Diana diventò adulta per sempre. Perse l’ultima illusione dell’infanzia e guadagnò una saggezza amara che nessun libro le avrebbe potuto insegnare. Da quel giorno iniziò a comprendere quel velo di malinconia che, a volte, affiorava negli occhi di sua madre quando credeva di non essere osservata.
Il legame tra loro si fece ancora più forte. Non erano più unite solo dall’amore, ma anche da una ferita condivisa. Perché l’amore vero non si limita a scaldare: lascia cicatrici invisibili, dolorose, ma autentiche nel cuore.
Quella era la loro verità. E con quella avrebbero imparato a vivere.
«Quindi era un anticipo… per comprarti il mio midollo osseo?» La figlia pronunciò la sua sentenza al padre, tornato a cercarla dopo quindici anni di assenza.
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