Una piccola mendicante inciampa in un segreto milionario: da quel momento tutto cambia.

Era cibo assicurato per mesi, vestiti decenti, forse perfino la possibilità che Alejandro andasse finalmente a scuola come gli altri bambini del quartiere. Era la linea sottile tra continuare a sopravvivere e iniziare, per la prima volta, a vivere davvero.
Ma mentre le sue dita scorrevano sulle banconote, morbide come seta, qualcosa nel vano posteriore del portafoglio le sfiorò la pelle: dei documenti. Una carta d’identità plastificata, carte di credito, una patente di guida, e ovunque lo stesso nome: Eduardo Salazar Mendoza. Lo stesso volto, quello di un uomo anziano dai capelli d’argento, lo sguardo severo di chi è cresciuto abituato al potere e al rispetto.
Sofía ebbe la sensazione che una mano gelida le stringesse il cuore. Quel portafoglio apparteneva a qualcuno. Non era un dono piovuto dal cielo, non era un miracolo anonimo, ma la proprietà di un uomo in carne e ossa, che probabilmente in quel momento lo stava cercando. Aveva un nome, un cognome, un indirizzo.
Sulla patente di guida le lettere spiccavano chiare: Urbanización Los Álamos, carrera 15, 23456, El Poblado. Il quartiere più ricco di Medellín, quello dei milionari, delle ville con giardini più grandi di tutto l’insediamento in cui lei viveva, delle auto che costavano più di quanto la sua famiglia avrebbe visto in una vita intera di lavoro.
Era un universo parallelo al suo: vicinissimo sulla mappa, lontano come la luna nella realtà. Le mani di Sofía presero a tremare più forte. Una parte di lei – quella che sentiva la morsa della fame, quella stanca di vedere sua madre piangere in silenzio quando credeva di non essere osservata – le urlava dentro di chiudere il portafoglio, correre dalla famiglia e fingere di non aver mai visto i documenti.
Chi mai avrebbe potuto risalire a un portafoglio scomparso tra le montagne di rifiuti della città? Chi lo avrebbe cercato lì, dove nessuno guardava?
Eppure, dentro di lei, c’era anche un’altra voce. Più flebile, ma ostinata. Le sussurrava qualcosa di diverso. Era la voce di ciò che le aveva insegnato Rosa Elena che, nonostante le privazioni, non aveva mai smesso di ripeterle che ci sono cose che il denaro non potrà mai comprare e confini che non si devono varcare.
Era la voce della dignità che sua madre aveva protetto con le unghie e con i denti, anche nei momenti più bui.
«Figlia mia», le aveva detto una volta, quando Sofía era tornata a casa con un giocattolo trovato tra i rifiuti ma che apparteneva chiaramente a un altro bambino dell’insediamento, «la povertà non è una scusa per perdere l’onestà. Possiamo essere senza soldi, ma la nostra parola e i nostri principi sono le uniche cose che sono davvero nostre. Se perdiamo quelli, allora sì che restiamo senza niente.»
Quelle frasi ora le rintoccavano nella mente come campane di chiesa. Sofía chiuse forte gli occhi, nel tentativo di soffocare il ruggito del suo stomaco vuoto e il peso dei bisogni della sua famiglia. Quando li riaprì, sapeva già cosa avrebbe fatto.
Non sarebbe stato semplice. Probabilmente sarebbe stata la scelta più difficile della sua giovane vita. Ma la decisione era presa.
Si alzò lentamente, stringendo il portafoglio al petto come fosse un oggetto sacro. Il sole era già alto e il calore la avvolgeva come una cappa soffocante, ma nel suo cuore la confusione aveva lasciato posto a una fermezza fredda, lucida.
Si incamminò verso il punto in cui si trovava sua madre, con passi decisi, anche se dentro di lei tutto vacillava.
«Mamma», disse con una voce che sembrava troppo adulta per i suoi undici anni.
Rosa Elena alzò lo sguardo, scostandosi dalla fronte una ciocca di capelli incollata dal sudore. Le bastò vedere l’espressione della figlia e l’oggetto stretto contro il suo petto per capire che era accaduto qualcosa di fuori dal comune.
«Che cos’hai lì, amore?», chiese, lasciando cadere i frammenti di vetro che stava selezionando. Negli occhi di Sofía c’era qualcosa che non aveva mai visto prima: una miscela di determinazione e sofferenza che le fece correre un brivido lungo la schiena, nonostante il caldo opprimente.
Sofía allungò il portafoglio verso sua madre, le mani ancora leggermente tremanti.
«L’ho trovato tra l’immondizia, mamma. È pieno di soldi, tantissimi… ma dentro ci sono dei documenti. Appartiene a qualcuno.»
Rosa Elena prese il portafoglio. Anche le sue dita iniziarono a tremare nel momento stesso in cui ne avvertì il peso. Lo aprì con cautela e i suoi occhi si spalancarono, tondi come due lune piene, alla vista del contenuto.
Per qualche secondo che parve infinito, madre e figlia si fissarono in silenzio. Non servivano parole: entrambe comprendevano la portata di ciò che avevano tra le mani e la scelta quasi impossibile che le aspettava.
Il piccolo Alejandro, ignaro della tensione che riempiva l’aria, si avvicinò correndo con il suo carrettino improvvisato, il riso della mattina ancora vivo nei suoi occhi innocenti.
«Che cos’avete lì?», chiese con la curiosità schietta dei suoi sei anni. «È qualcosa di buono? È cibo?»
Rosa Elena richiuse di scatto il portafoglio, ma non abbastanza in fretta da impedire alla realtà di colpirla in pieno. La verità la raggiunse come un pugno nello stomaco: suo figlio aveva fame.
Da due giorni non mangiava altro che un po’ di riso con il sale, perché era tutto ciò che erano riusciti a mettere in tavola.

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