Svetlana, luminosa come un mattino di primavera, entrò nel matrimonio con il cuore pieno di sogni. Aveva sposato Oleg, un uomo che le parlava di futuro, protezione e fedeltà eterna con una dolcezza che le toglieva il fiato. Lo guardava incantata, e solo a immaginare la loro vita intrecciata per sempre sentiva il cuore batterle forte nel petto. Le sembrava che, al suo fianco, nessuna tempesta avrebbe potuto sfiorarla.
Quando Oleg accennava al padre e alla “loro stirpe”, lei sorrideva distrattamente, convinta che fossero solo discorsi da uomini, un passato che non aveva più importanza. Con lui vicino, pensava, non serviva altro: né sapere di vecchi rancori, né conoscere segreti di famiglia. L’amore, il calore, una casa piena di armonia: era tutto ciò che desiderava. E Oleg, almeno all’inizio, sembrava davvero l’uomo che aveva immaginato. Attento, premuroso, la circondava di mille piccole cure, quasi avesse costruito intorno a lei un bozzolo di tenerezza. Svetlana lo guardava e credeva di vivere dentro il suo mondo ideale.
Ma quel mondo poggiava su fondamenta crepate, nascoste sotto uno spesso strato di tradizioni e pregiudizi duri come la pietra.
La famiglia di Oleg era vasta e rumorosa, simile a una grande tenuta contadina dove tutto ruotava intorno al capofamiglia. Quattro figli maschi, una rigida gerarchia e al vertice lui: Pavel Ivanovič. Un uomo dalla presa d’acciaio, la voce capace di far vibrare le pareti e uno sguardo in grado di spegnere qualsiasi tentativo di ribellione. Andava orgoglioso dei suoi figli soprattutto per un motivo: erano tutti maschi.
Al banchetto di nozze, tra tovaglie candide, piatti colmi e calici scintillanti, alzò il bicchiere e, con tono da generale più che da padre, dichiarò:
— Nella nostra stirpe non nascono femmine! Solo figli maschi! E che i novelli sposi se lo ricordino!
Poi colpì Oleg sulla spalla con tale forza che sembrò più un ordine che un augurio.
Oleg, il più giovane, era cresciuto sotto quella pressione costante. Non si era limitato ad ascoltare il padre: ne aveva assorbito le parole, come la terra assetata assorbe la pioggia. I fratelli maggiori avevano fatto il loro dovere, regalando al padre nipoti maschi, uno dopo l’altro. Solo il terzo figlio, Jakov, detto Jaša, aveva infranto il copione familiare. A diciotto anni aveva chiuso la porta di casa dietro di sé e non era più tornato. Si raccontava che fosse diventato pittore a Parigi, o che vivesse da qualche parte nell’Estremo Oriente. Nessuno lo sapeva con certezza. Quando Svetlana sentì quelle voci, intuì la verità: Jaša era scappato dalla tirannia, dal soffocamento, dall’impossibilità di vivere la propria vita.
La casa di Pavel Ivanovič somigliava a un campo di addestramento. Ogni gesto aveva un protocollo, ogni parola un limite. Lui era convinto di essere il centro dell’universo, e che il mondo dovesse girargli intorno. Solo Jaša aveva avuto il coraggio di sottrarsi a quella forza. Ora, immersa in quell’atmosfera densa di tensione, Svetlana cominciava a capire perché.
Una sera, durante la cena, tutti seduti intorno al lungo tavolo di quercia, Pavel Ivanovič si alzò di colpo. Puntò gli occhi su di lei e chiese, senza alcuna dolcezza:
— Bene, quando avremo il nostro nipote? Già me lo vedo: gli insegnerò a sparare, a pescare, gli darò il nostro nome. Ma badate: dev dev’essere un maschio. Le femmine sono estranee, se ne vanno a sposarsi e si dimenticano della famiglia.
Il silenzio cadde come una coltre di piombo. Svetlana sentì un brivido correrle lungo la schiena. Avrebbe voluto dire che un figlio è un dono, qualunque sia il sesso, ma nessuna parola le uscì. Oleg si limitò ad annuire, docile, come un soldato davanti al superiore.
Più tardi, in salotto, quando rimasero soli, Svetlana trovò il coraggio di chiedere:
— Oleg, davvero per te è importante se sarà maschio o femmina? L’amore dipende da questo?
— Non è questione di quello che penso io — disse lui, pacato ma fermo. — È la nostra stirpe. Le nostre mogli hanno sempre avuto figli maschi. Devi dare alla luce un maschio. È così che dev’essere.
Svetlana lo fissò come se vedesse un estraneo. L’uomo che aveva amato sembrava svanito, sostituito da qualcuno che parlava con la voce del padre, non con la propria. Il suo cuore si riempì di una paura nuova e sottile.
Decise di confidarsi con la suocera, Maria Grigor’evna, l’unica figura in quella casa che sembrava avere ancora uno sguardo umano. Una donna dagli occhi stanchi, la voce dolce, sempre un passo indietro rispetto al marito.
— Maria Grigor’evna, è vero che in famiglia non è mai nata una femmina? — chiese un giorno, quasi in un sussurro.
— Avevamo paura — rispose lei piano. — Io tremavo al pensiero di partorire una femmina, temevo tuo suocero più del destino. Ma quando nacque Jaša… mi sentii libera, come se qualcuno avesse rotto una catena. Poi tutto è tornato come prima. Non avere paura: tutte le nostre nuore hanno avuto maschi. Anche per te sarà così.
Svetlana annuì, ma dentro di sé sentì formarsi un nodo duro. Decise di non pensarci più: sarebbe andata come doveva andare.
Un anno dopo rimase incinta. I medici la rassicuravano: tutto procedeva alla perfezione. Le proposero di sapere il sesso del bambino, ma lei rifiutò. In quella casa, tutti davano per scontato che sarebbe stato un maschio — non c’era spazio per altra possibilità.
La famiglia si mise subito in fermento. La colmavano di attenzioni, la trattavano come una regina. In cucina comparivano piatti elaborati, dolci, manicaretti di ogni tipo. La camera venne rinnovata, cuscini ricamati, lenzuola nuove, tende fresche di lavanderia. Tutti parlavano del futuro “nipotino”, di quanto sarebbe stato simile al padre, di come avrebbe portato avanti il nome della stirpe. Solo Maria Grigor’evna guardava Svetlana con un’ombra negli occhi, come presagendo la tempesta.
Il parto arrivò dopo Natale, in una notte gelida sotto un cielo trapunto di stelle. Qualcosa però si complicò: corsa in sala operatoria, cesareo d’urgenza, l’anestesia che la trascinò in un buio profondo. Quando finalmente tornò in sé, una voce gentile le sussurrò all’orecchio:
— Congratulazioni, è nata una bellissima bambina.
Per un attimo il cuore le esplose di gioia. Ma quello stesso cuore, nell’istante successivo, si riempì di terrore. Una bambina. Le parole di Pavel Ivanovič tornarono a colpirla come schiaffi: “Le femmine sono estranee… Nella nostra famiglia non esistono femmine…”.
«E adesso? — pensò. — Cosa farà Oleg? Cosa mi dirà il suocero? Ci cacceranno?»
La mente cominciò a costruire scenari terribili: il suocero furioso che le sbatteva la porta in faccia, Oleg che si allontanava senza voltarsi, lei buttata fuori al gelo con la neonata in braccio. La notte, sedata da un calmante, sognò neve, urla e una frase che la inseguiva come un’eco: «Una femmina è un tradimento!»
Al mattino, guardando la sua bambina, si fece una promessa silenziosa:
«Non ti rinnegò mai. Qualunque cosa accada, io sarò dalla tua parte.»
Quel giorno arrivò Oleg. La sua figura riempì l’angolo della stanza, ma non portò né fiori né un sorriso. Ascoltò la notizia, impallidì, si irrigidì e, senza dire una parola, si voltò e se ne andò. Le altre madri tentarono di consolarla:
— Tranquilla, è solo sotto shock. Domani tornerà con un mazzo di rose.
Ma il giorno dopo non ci fu nessun mazzo di fiori. Nessuna visita in più del necessario.
Al momento delle dimissioni, Oleg si presentò freddo, distaccato. La aiutò a sistemare le cose, la accompagnò in macchina, ma non si avvicinò alla culla, non guardò la neonata, neppure di sfuggita. A casa, i parenti la accolsero con frasi di circostanza, congratulazioni sbiadite. Pavel Ivanovič non apparve nemmeno sulla soglia.
Per una settimana intera Svetlana visse sospesa, come un’ombra in mezzo a quelle stanze. Non incrociava quasi mai il suocero, Oleg passava accanto a lei senza degnare di una carezza la piccola. La bambina, che avevano chiamato Sof’ja, sembrava avvertire il gelo intorno: piangeva ogni notte, come se cercasse una risposta che nessuno era disposto a darle. L’aria in casa si faceva ogni giorno più pesante, bastava uno sguardo sbagliato per accendere una lite. Oleg, accecato dalla delusione, la accusava:
— Non ce l’hai fatta! Non è nostra! — urlava senza neanche volgere gli occhi verso la figlia.
Una sera d’inverno, durante una bufera, Pavel Ivanovič spalancò la porta della loro stanza. Il volto stravolto dalla rabbia, la voce che rimbombò nel corridoio:
— Prepara le valigie! Non ti vogliamo più qui! Nella nostra famiglia non ci sono femmine!
Non fu una discussione, fu una sentenza. Prima che potesse rispondere, la spinse fuori, letteralmente, con la neonata tra le braccia, nel vortice di neve. La porta si chiuse alle loro spalle con un tonfo secco. Davanti a lei, solo una strada deserta, le luci lontane e il vento gelido che le tagliava il viso.
Svetlana rimase qualche istante immobile, tremando, cercando di proteggere con il corpo quel piccolo fagotto che piangeva disperato. Nessun taxi, nessun passante. Solo neve e silenzio.
Fu allora che un’auto si fermò. Un tassista, vedendo quella giovane donna con una neonata in braccio in mezzo alla bufera, spalancò lo sportello.
— Sali subito! — disse.
La portò fino alla stazione, senza farle pagare la corsa. Le comprò un biglietto per la città dove viveva sua madre, le mise in mano qualche banconota spiegazzata.
— Tieni, per i primi tempi. Non devi ringraziarmi. Vai a casa.
Alla porta, la madre di Svetlana non fece domande. La vide con la bambina in braccio, gli occhi rossi, il cappotto coperto di neve, e le bastò. Le spalancò le braccia e le strinse tutte e due.
— Ora siete a casa — mormorò. — Qui nessuno vi farà del male.
I mesi passarono. Il dolore si fece meno acuto, sostituito da una quieta determinazione. Svetlana imparò a cavarsela da sola, a essere madre e padre per Sof’ja. Lavorava, si alzava di notte, consolava il pianto della bimba, cuciva un futuro con le proprie mani.
Fu in quel periodo che incontrò Andrej. Un uomo diverso da tutti quelli che aveva conosciuto: buono, affidabile, con una forza silenziosa che non aveva bisogno di mettersi in mostra. Non si spaventò nel vedere che lei aveva una figlia; al contrario, guardò Sof’ja con una tenerezza che commosse Svetlana. Con il tempo, li amò entrambe come se fossero sempre state la sua famiglia.
Due anni dopo il loro matrimonio, arrivò una nuova sorpresa: Svetlana rimase incinta di nuovo. Questa volta nacquero due gemelli maschi, sani e vivaci. La casa si riempì di risate, pianti, passi incerti, gioco e briciole di biscotti. Guardando i suoi tre bambini e Andrej che li sollevava in braccio tutti insieme, Svetlana capì che quella era la vera “stirpe” che desiderava: non quella scritta sul cognome, ma quella costruita sull’amore.
Di Oleg non arrivò una telefonata, una lettera, nulla. Non cercò mai né lei, né la bambina. Per molto tempo rimase solo un’ombra del passato.
Un giorno, però, alla porta si presentò Maria Grigor’evna. Invecchiata, le spalle un po’ curve, ma gli occhi lucidi come non mai. Appena entrata, si inginocchiò davanti a Svetlana.
— Perdonami… — sussurrò, con la voce spezzata. — Sono stata zitta troppo a lungo. Ho avuto paura di tuo suocero, ho avuto paura della sua collera, del suo giudizio. Dopo che sei andata via, è caduto malato. Ora è a letto, immobile. Non parla, non si muove. È come se il cielo lo avesse punito per la sua arroganza.
Svetlana la sollevò dolcemente e la abbracciò. Nel suo cuore non c’era più rancore, solo una profonda compassione.
— Tu non sei colpevole — le disse piano. — Anche tu sei stata prigioniera, come lo eravamo noi.
Da quel giorno, Maria Grigor’evna cominciò a far loro visita spesso. Si affezionò a Sof’ja, le preparava torte, le raccontava fiabe. Giocava con i gemelli, li accompagnava al parco, li riempiva di coccole. E quando li guardava, diceva sempre:
— Siete i bambini più felici del mondo, perché siete cresciuti nell’amore.
Svetlana, osservando quella scena — i suoi figli che ridevano, Andrej che li sollevava in braccio, la suocera che sorrideva finalmente libera dalla paura — comprese davvero il senso del suo cammino. Era passata attraverso umiliazioni, abbandoni e notti di neve, ma tutto l’aveva condotta fin lì: verso la luce, la felicità e, soprattutto, la libertà di essere se stessa e di amare senza catene.