A vent’anni appena, Emily si ritrovò in una situazione che non avrebbe mai pensato di vivere. Era una ragazza tranquilla, cresciuta in una famiglia operaia di Bakersfield, in California. Studiava ragioneria al community college e, nel tempo libero, faceva qualsiasi lavoretto le capitasse pur di aiutare a pagare le bollette. Sua madre sgobbava da anni come cameriera in una tavola calda, da quando il padre di Emily era morto quando lei aveva solo tredici anni.
Emily era sempre stata “quella brava”: responsabile, studiosa, senza colpi di testa. Nessuno si sarebbe mai aspettato da lei uno scandalo. Quell’estate, però, la sua vita si ribaltò.
Conobbe Jason lavorando part-time in una braceria vicino a un grande cantiere residenziale. Lui era appena entrato nella squadra edile: alto, discreto, con un sorriso timido e un accento del Sud che tradiva le sue origini in una cittadina dell’Arkansas. Emily si sentì subito attratta da quella calma silenziosa e dal modo in cui Jason sembrava ascoltarla davvero, come se ogni sua parola fosse importante.
Iniziarono a vedersi di nascosto. Per tre mesi vissero un innamoramento totale, ingenuo e febbrile, come se il mondo fuori non esistesse. Quando Emily scoprì di essere incinta, ebbe paura – una paura viscerale – ma insieme sentì nascere una piccola speranza. Jason le promise che l’avrebbe portata a casa sua, in Arkansas, a conoscere i genitori e che avrebbe chiesto la loro benedizione. Parlava di nozze, di una nuova vita, di una famiglia tutta loro.
Emily, che non aveva mai avuto il lusso di sognare troppo, gli credette.
Il giorno in cui arrivarono nella piccola cittadina vicino a Little Rock, però, il sogno cominciò a incrinarsi. I genitori di Jason li accolsero senza entusiasmo. Il padre fu freddo, ma fu la madre a trafiggere Emily con una sola frase. Posò lo sguardo duro sul ventre appena arrotondato e disse, con un sorriso sottile:
«Al giorno d’oggi le ragazze vanno a letto con chiunque. Come facciamo a sapere che il bambino sia davvero di Jason?»
Quelle parole le si conficcarono nella pelle come una frustata. Emily si sentì rimpicciolire, incapace di reagire, una mano istintivamente posata sul ventre per proteggerlo.
Il viaggio di ritorno verso la California fu avvolto dal silenzio. Jason guidava senza quasi parlare. Da quel momento, qualcosa in lui cambiò. Prima furono solo rinvii: “I miei hanno bisogno di tempo”, “aspettiamo un po’”, “non è il momento giusto”. Poi iniziarono le chiamate sempre più rare, i messaggi lasciati senza risposta. Finché, un giorno, Jason smise semplicemente di farsi vivo.
Passarono tre mesi. Emily, ormai con la gravidanza ben visibile, faceva doppi turni per riuscire a pagare l’affitto. Lasciò il college, lasciò Bakersfield e trovò una stanza in un piccolo appartamento fuori città. Un pomeriggio, una collega – anche lei originaria dell’Arkansas – la chiamò con la voce che le tremava.
«Emily… Jason si è sposato. Lo scorso fine settimana. Una ragazza della sua città, presentata dai genitori.»
Emily rimase seduta per ore su una panchina del parco, lo sguardo perso nel nulla. Nessun pianto, nessuna scenata. Solo un vuoto pesante, come se qualcuno le avesse spento l’interruttore dentro.
Fu allora che prese la sua decisione.
Avrebbe tenuto il bambino. Con o senza Jason, con o senza il giudizio di chiunque. Si trasferì a Fresno e trovò lavoro come impiegata negli uffici di una segheria. Ricominciò in silenzio, senza raccontare niente a nessuno. Partorì in un motel economico, in una notte di temporale, con il gestore che chiamò i soccorsi perché non c’era nessun altro. Quando le misero il neonato tra le braccia, lo chiamò Noah: per lei quel nome significava “nuovo inizio”.
Essere madre single a 21 anni fu una maratona senza pause. Emily lavorava fino allo sfinimento e si occupava di Noah praticamente da sola. Le notti in cui non trovava una babysitter, se lo legava alla schiena con una fascia improvvisata mentre sistemava fatture e scartoffie d’ufficio a casa. Il corpo le doleva, la mente era esausta, ma non si lamentava con nessuno. Non tornò mai a Bakersfield: la vergogna di guardare sua madre negli occhi e spiegare tutto era troppo grande.
Noah crebbe come un ragazzo dolce, intelligente, curioso di tutto. Aveva i capelli scuri di Jason e quegli stessi occhi verdi che Emily non avrebbe mai potuto dimenticare. Ogni volta che li incrociava, sentiva una fitta al petto. Non gli parlò mai davvero di suo padre. Nei moduli della scuola, alla voce “nome del padre”, lasciava lo spazio vuoto.
Quando Noah entrò al liceo, Emily era riuscita, con anni di sacrifici, a comprare una casetta alla periferia di Santa Rosa. Aveva aperto un piccolo negozio d’angolo al piano terra – frutta, prodotti di base, un bancone sempre in ordine – e la loro vita si era assestata in una routine semplice, quasi serena. Eppure, l’ombra di Jason restava lì, in un angolo della mente, soprattutto da quando Noah aveva cominciato a fare domande.
Un pomeriggio d’estate, dopo gli esami del penultimo anno, Emily lo sentì parlare con un amico sul portico.
«Non so chi sia mio padre. Mia mamma dice che è morto da tempo. Ma uno dell’Arkansas mi ha detto che assomiglio a un tipo di nome Jason con cui lavorava…»
Emily restò immobile in cucina, una bottiglia di latte a mezz’aria. Le mani iniziarono a tremarle. Il nome, la voce di Jason, il viaggio, la casa vicino a Little Rock… tutto ciò che aveva cercato di seppellire per diciassette anni tornò a galla in un colpo solo.
Quella notte rimase seduta da sola sotto la luce del portico, guardando le lucciole punteggiare l’orto sul retro. Non chiuse occhio, mentre la mente girava in tondo fra passato e presente.
La mattina seguente, mentre sistemava mele e pesche sul banchetto all’ingresso del negozio, vide avvicinarsi una donna. Era più anziana, con i capelli grigi raccolti e un viso che le sembrò stranamente familiare.
«Tu sei… Emily?» chiese piano, come se avesse paura della risposta.
Il cuore di Emily si fermò per un istante, poi riprese a battere all’impazzata.
A vent’anni appena si è ritrovata incinta, senza averlo cercato, di un operaio che lavorava in cantiere.
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