Dove sussurrano gli abeti.

Artem rimaneva immobile sotto una pioggia fina e tagliente. Non percepiva il gelo che gli mordeva le guance né il vento che lo attraversava. Teneva tra le dita una piccola manciata di terra bagnata: l’ultimo gesto possibile per la sua Alisa. La bara, coperta di rose bianche — i suoi fiori preferiti — era già calata nella fossa scura. Nelle orecchie gli rimbombavano ancora i freni che strillano, lo schianto. Un attimo soltanto, un camionista fuori controllo che brucia il rosso, e tutto scompare. Sogni, progetti, risate: silenzio. Mancavano due settimane al matrimonio.

Il mondo si era come spento; i colori si erano ritirati lasciando solo una tavolozza di piombo e malinconia. Nessuno gli era stato mai così vicino quanto Alisa. Solo un amico gli restava, Dmitrij, fermo al suo fianco, la mano pesante sulla spalla, muto davanti all’impotenza.

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I giorni successivi al funerale si impastarono in un incubo viscoso e senza alba. Artem non viveva: vagava nell’appartamento ormai vuoto, che però conservava ancora l’eco del riso di lei, il suo profumo, i passi leggeri nel corridoio. Si fermava alla finestra che Alisa amava, come in attesa: da un momento all’altro, la porta si sarebbe aperta e una voce avrebbe gridato: «Tëma, sono a casa!». La porta, però, restava zitta. Dentro, l’anima gli era ridotta a cenere.

Dmitrij lo vedeva consumarsi a vista d’occhio. La sorte non aveva mai fatto sconti ad Artem: infanzia in orfanotrofio, solitudine, una lotta continua per ritagliarsi un posto. E quando finalmente la felicità sembrava a portata di mano, gliel’avevano strappata con brutalità, lasciandolo con una ferita sempre aperta.

— Ascolta, Tëma, — la voce di Dmitrij arrivò brusca, quasi militare, recidendone l’assenza. — Devi resistere. Lo so, adesso sono parole vuote. Alisa non tornerà. Ma tu devi restare. Sei giovane, sei forte. Devi cambiare aria. Staccarti. Ricominciare.

— Da dove, Dima? — la voce di Artem era piatta. — Quello che sento non passerà. Non è una cicatrice, è un buco dentro. Vorrei scomparire sottoterra e non vedere più nessuno.

— Così ti spegni, — ribatté secco Dmitrij, con una lama d’acciaio nella voce. — Mi senti? Non puoi. E poi ho un’idea.

— Dima, grazie… ma io…

— Ascoltami e basta! — insistette, stringendogli le spalle per incrociarne gli occhi. — Vai da mio nonno, in campagna. Da nonno Matvej. Te ne ho parlato: un posto all’estremo del mondo, il capoluogo di distretto è lontano. Fa il guardaboschi. Se vuoi nasconderti, è il luogo giusto. Camminerai con lui nel bosco; lì la gente la conti sulle dita. Il lavoro è tosto: i bracconieri non mancano e lui li scaccia. Aria buona, alberi, silenzio… Ti farà bene.

Artem non rispose, ma nei suoi occhi spenti s’accese un filo di luce. Forse curiosità, forse solo la disperazione che cerca un varco.

— D’accordo, — mormorò infine. — Mandami l’indirizzo. Dimmi come arrivare. Parto domani. Qui non ho più nulla.

— Benissimo. Nonno Matvej vive a Elovo, la casa è proprio al limitare del bosco. Prendi il regionale per lo scalo di Promysla, poi sette chilometri a piedi.

— Niente di che, — fece Artem con la mano. In quel gesto tornò, per la prima volta dopo giorni, un’ombra di volontà. — Grazie, fratello. Sei un amico. E vieni anche tu, appena puoi.

— Certo che vengo. È un uomo d’oro. Salutamelo. — Si abbracciarono: in quell’abbraccio c’erano dolore, speranza e una tacita, virile solidarietà.

La strada per Elovo sembrò il passaggio a un altro mondo. Il frastuono della città si dissolse nel ronzio del treno e poi nel silenzio pieno dei campi. Il villaggio era rannicchiato ai margini di una foresta senza fine, come sospeso fuori dal tempo: isbe scurite dagli anni con cornici intagliate, galline che razzolavano per la via, e nell’aria un odore di resina e fresco che inebriava.

Nonno Matvej, apparso sulla soglia con un cigolio, era basso e tarchiato, come ricavato da una quercia antica. Il volto solcato di rughe, gli occhi chiari e dritti, capaci di bucare l’apparenza.

— Salve, è lei nonno Matvej? — chiese Artem, la voce che suonò fin troppo forte in quel silenzio.

— Salute, ragazzo. Sono io. Se sei arrivato, entra, — borbottò il vecchio, ma con uno sguardo cordiale.

Dentro odorava di erbe essiccate, fumo di stufa e pane caldo. Seduti al tavolo grezzo con un tè al miele, Artem raccontò tutto: l’orfanotrofio, gli anni di solitudine, Alisa, quell’istante in cui la vita si era spezzata. Parlava, e il vecchio ascoltava in silenzio, annuendo: in quel tacere c’era una sapienza larga, che alleggerì un poco il petto di Artem.

Finito il tè, Matvej lo accompagnò in un’isba più piccola, accanto.

— Era dei miei genitori. Vecchia ma solida. Starai qui. C’è il necessario. Dormi; domani andiamo in perlustrazione. Mi farai da mano.

Così cominciò una vita nuova. Per quasi due mesi Artem prese il ritmo del bosco: sveglia all’alba, sentieri muschiosi, il vento che fischia tra pini e abeti, richiami d’uccelli. Imparò a “leggere” la foresta: tracce, suoni, il respiro stesso della natura. Nonno Matvej era severo ma giusto. A poco a poco, l’aculeo del dolore si smussò, diventando una tristezza quieta, sopportabile. Artem ricominciò a sorridere; tornò a respirare a pieni polmoni.

Compagno inseparabile era Grom, un pastore tedesco intelligente e fedele, più che un cane: un collega, un amico.

Artem mise radici a Elovo. Dava una mano agli anziani, spaccava legna, riparava recinzioni. Scoprì il sapore semplice dell’essere utile, di far parte.

Un giorno d’autunno, dopo aver consegnato un rapporto all’ufficio forestale di Promysla, si fermarono in un caffè sulla strada. Tornando alla macchina, notarono Grom agitato: guaiva e graffiava la portiera. Appena Artem la aprì, il cane schizzò via e scomparve dietro l’angolo dell’edificio; subito si levò il suo latrato profondo.

Artem corse. Dietro l’angolo, su un ceppo, una ragazza se ne stava raggomitolata, il viso rigato di lacrime. Davanti a lei, Grom era fermo: non minaccioso, ma vigile.

— Grom, torna! — ordinò Artem. Il cane obbedì e gli infilò il naso freddo nel palmo. — Non abbia paura: non le farà nulla. Che è successo? Qualcuno le ha fatto del male?

La ragazza scoppiò in un pianto più forte. Appoggiato al muro c’era un bastone grezzo, ricavato a mano. Arrivò anche Matvej, che osservò la scena senza parlare.

— Ti sei fatta male alla gamba, tesoro? — chiese indicando il bastone.

— Mi… ci ha portato il patrigno, — singhiozzò. — In moto. Mi ha lasciata qui e mi ha detto di non tornare. La mamma… è morta tre giorni fa. Lui mi picchiava già prima. Ora non ho un posto dove andare.

Alzò il viso, e ad Artem mancò l’aria: somigliava ad Alisa. Stessi occhi grandi e luminosi, stesso ovale. Ma in quello sguardo c’erano paura e vita, non l’assenza.

— La gamba… — sussurrò, cogliendo la domanda non detta. — Mi ha spinta dalla veranda, tempo fa. È guarita male.

— Vieni con noi, — disse Artem, stupito dalla propria voce. — A Elovo troveremo posto. Sono sette chilometri.

La ragazza arrossì, lo sguardo alla gamba.

— Non è giusto… sono zoppa.

— Zoppo è chi ha storta l’anima, — tagliò corto Matvej. — Andiamo.

In macchina, sballottata dalle buche, raccontò di chiamarsi Lilia, vent’anni, gli ultimi passati ad accudire la madre malata e a subire le violenze del patrigno ubriaco.

Matvej la accolse come una nipote. Le diede un bastone leggero e ben fatto, riparò i gradini per facilitarle il passaggio. Lei ricambiò col calore di una casa: ordine, profumo di dolci al forno. Le sere d’inverno, vicino alla stufa, aspettavano Artem di rientro e ascoltavano il vento nella canna fumaria. Un giorno, a bruciapelo, il vecchio chiese:
— Ti piace il mio Artemka?

Lilia arrossì come un papavero.
— Sì… ma io sono zoppa, e lui… Non mi degnerà.

— Basta parlare così, — la rimbrottò il nonno. — È un bravo ragazzo. Dillo al cuore: il cuore capisce.

All’improvviso la porta si spalancò: Artem comparve con un uomo quasi tra le braccia.
— Nonno, presto! C’è un ferito.

L’uomo, sui quaranta, ben vestito ma livido, ansimava.
— La gamba… credo sia rotta. L’auto si è ribaltata in curva. Sono uscito a fatica…

Lo stesero sulla branda. Mentre Matvej lo copriva e Lilia correva con tè e marmellata di lamponi, lo sconosciuto — si presentò come Vadim — posò lo sguardo sulla gamba di lei con attenzione.

— Vengo da Mosca, — disse a denti stretti. — Ero da un amico a Michajlovka, Stepan l’apicoltore. Dovrei contattarlo… Mio fratello è chirurgo, ha una clinica. Posso farmi venire a prendere in elicottero.

Artem, rischiando tra colline e ghiaccio, salì dove il telefono prendeva e chiamò Stepan, che promise aiuto.

La sera, Vadim, stretto nelle coperte, chiese ad Artem, accennando a Lilia:
— È tua moglie? E la sua gamba?

— E tu chi saresti, dottore? — intervenne Matvej.

— No, ma mio fratello sì. Molto bravo. Posso mettervi in contatto. Quella gamba si può sistemare. Un’operazione.

— E quanto costerà? — chiese Artem, irrigidito.

— A voi, nulla. Mi avete salvato la vita. Ve lo devo. Lilia, preparatevi: domani si parte.

Il giorno dopo arrivò l’elicottero sanitario per Vadim. Portarono con sé anche Lilia. Artem guardò l’elicottero dissolversi nel cielo freddo, e dentro sentì riaprirsi quel vuoto già noto. Aveva appena trovato la forza di restare, e di nuovo il cuore si spezzava.

Passò un mese. Il più lungo. Ogni rientro dal bosco recava con sé una speranza assurda di vederla in piedi sulla soglia. La soglia, però, rimaneva vuota.

Dopo un mese e mezzo, Stepan la riportò da Michajlovka. La lasciò a Promysla. Lilia, ringraziato l’autista, scese e prese la strada verso Elovo. Ogni passo era una prova, non per il dolore — portava un tutore speciale —, ma per l’emozione.

Entrò in casa in punta di piedi. Matvej sonnecchiava nella poltrona accanto alla stufa.
— Nonno… — sussurrò, sfiorandogli la spalla.

Il vecchio sobbalzò. Per un attimo non credette ai suoi occhi.
— Liliška? Tesoro mio! Sei tornata! Fammi vedere come cammini…

Lei fece qualche passo. Una lieve zoppia restava, ma l’andatura non era più spezzata. Gli occhi del guardaboschi si riempirono di lacrime.
— Sei splendida… E capiti a proposito! Domani è il compleanno di Artem. Sarà al settimo cielo!

Artem rientrò tardi, stanco e infreddolito. Grom gli corse incontro. Varcata la soglia, si immobilizzò: accanto al tavolo, sorridente, c’era Lilia. Senza bastone.

Non dissero nulla. Si guardarono; in quel silenzio c’era più che in mille frasi. Poi lui fece un passo, lei gli andò incontro, lui l’abbracciò e la sollevò, facendola girare mentre lei rideva e piangeva insieme.

— Eccoci al completo! — esclamò un raggiante Matvej, allineando le tazze e asciugandosi una lacrima indiscreta. — Forza, Artem, non tirarla alle lunghe: dì quello che devi dire!

Artem posò Lilia, ma non le lasciò la mano. La guardò negli occhi — profondi e luminosi, simili e diversi a un tempo.
— Lilia… — la voce gli tremò. — Sposami.

Dalla tasca della giacca tirò fuori una scatolina: dentro, un anello d’oro semplice — lo stesso comprato un tempo per Alisa, mai infilato. Ora aveva trovato la sua unica, nuova destinazione. Lo porse a Lilia.
— Mi vuoi?

— Sì, — sussurrò lei, la parola più chiara e felice dell’universo. — Sì!

Matvej li cinse entrambi, senza più nascondere le lacrime.
— Vi benedico, figli miei. Che non vi manchino buon senso e amore. E presto dei nipotini, intesi? Che questa casa torni a risuonare di risate.

Fuori, gli abeti secolari stormivano piano, custodi di un segreto antico. Avevano visto dolore, smarrimento, perdite. Ma conoscevano anche la legge del bosco: un sentiero porta sempre avanti. Verso la luce. Verso l’amore. Verso la guarigione.

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