«Bella vita che ti sei organizzata, eh?» ghignò l’ex, pur continuando a sganciare quattro spicci per il mantenimento.

«Vedo che ti sei sistemata alla grande,» sogghignò l’ex, pur continuando a sganciare spiccioli per l’assegno di mantenimento.

Veronica richiuse la porta del bagno e vi poggiò la schiena. Inspirò profondamente, occhi serrati. Cinque minuti. Solo cinque minuti di quiete prima di affrontare il resto.

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«Mamma, è arrivato papà!» gridò Timofij dalla stanza accanto, con quella gioia limpida che trapassava le pareti sottili.

Lei si sciacquò il viso e alzò lo sguardo allo specchio: trentadue anni, un viso segnato dalla stanchezza, coda di capelli castani un po’ disfatta, niente trucco. In quell’immagine scorgeva un giudice severo.

«Arrivo, amore!»

In salotto, Boris occupava già il nuovo divano come fosse casa sua, mentre Timofij gli mostrava un giocattolo con l’orgoglio dei grandi annunci.

«Ciao,» disse Veronica, tenendo il tono basso.

Boris la misurò dall’alto in basso, con quel sorrisino che pungeva.

«Bel posticino,» commentò, tamburellando sul bracciolo. «Non ti manca nulla, a quanto pare. Eppure, sull’assegno non smetti di frignare.»

Lei serrò la mandibola. Non davanti al bambino.

«Tim, preparati. Prendi anche un libro, va bene?» Il piccolo annuì e sparì in camera. Boris colse l’attimo per ripartire.

«Allora, chi ti finanzia? Sul serio puoi permettertelo con i miei “quattro spicci”?» La voce, un ghigno.

«Sono fatti miei,» tagliò corto lei. «Cinquemila al mese non sono un aiuto: sono un affronto. E tu lo sai.»

«Il divorzio l’hai voluto tu,» alzò le spalle. «Adesso arrangiati e non lamentarti.»

Veronica distolse lo sguardo, nascondendo le mani tremanti. Tre anni dopo, lui continuava a colpirla come se fosse un avversario. Ogni incontro, un fronte.

«Per favore,» bisbigliò, «niente scenate oggi. Timofij aspettava questo weekend.»

Boris si alzò. Le passò accanto lasciandole addosso una scia di profumo costoso e spavalderia.

«Dovrei sorridere mentre mi rovini la vita?» le soffiò addosso. «Hai demolito tutto. Non te lo perdonerò mai.»

«Demolito cosa?» rispose lei, con un sorriso spezzato. «Una casa dove mi umiliavi? Dove contavo zero? Dove sparivi la notte per poi tornare a dettare sentenze?»

«Ti amavo!» esplose, tanto che lei fece un passo indietro. «E hai distrutto tutto.»

La porta si spalancò: Timofij, zainetto in spalla. «Papà, sono pronto!»

La furia sul viso di Boris si sciolse in un sorriso finto. «Bravo, campione! Oggi spacca!»

Il bambino abbracciò la madre. «Ciao mamma!»

«A domani, tesoro,» sussurrò Veronica baciandogli i capelli. «Fai il bravo.»

Li accompagnò alla porta. Senza voltarsi, Boris strinse la mano del figlio; poi, vicino all’ascensore, le lanciò uno sguardo che prometteva altri round. Le porte si chiusero. Veronica scivolò a terra, spalle al muro, le mani a coprire il volto.

«È intollerabile,» sbottò Anna mescolando il caffè. «Come hai fatto a reggere per anni?»

Erano al bar sotto casa. Con Timofij dal padre, Veronica poteva finalmente respirare da sola per un paio d’ore.

«All’inizio era un’altra persona,» rispose piano. «Poi, un granello dopo l’altro, è cambiato tutto. E non me ne sono accorta subito.»

«Però ce l’hai fatta,» le strinse la spalla Anna. «In tante restano impigliate.»

«L’ho lasciato per nostro figlio,» annuì Veronica. «Non volevo che crescesse in un posto dove la mamma tace e il papà comanda i respiri.»

«E adesso quel “papà” si vendica con un assegno da fame,» sbuffò l’amica. «Potresti chiedere di più.»

«Potrei. Ma sui documenti risulta quasi nullatenente. E se lo trascino in tribunale, rischia di ottenere più tempo con Tim.»

«È un ricatto,» disse Anna, decisa.

«È pur sempre suo padre,» mormorò Veronica. «E Timofij lo adora.»

Anna la fissò. «Hai paura di lui?»

Veronica aprì la bocca, ma la voce le si incagliò. Non era terrore per sé: era il timore di veder frantumare quella fragile calma conquistata a fatica.

«Forse,» ammise. «Forse mi tiene ancora inchiodata a ciò che eravamo.»

«Smetti di temerlo e gli toglierai potere,» disse Anna, stringendole la mano. «Finché tremavo, vinceva. Quando ho smesso, ha perso terreno.»

«Non è semplice.»

«No. Ma tu sei già a metà strada. Sai da dove cominciare? Dal divano.»

«Dal divano?» alzò un sopracciglio.

«Sì. Ricomincia da te. Una lampada nuova, un taglio di capelli, un corso che ti piaccia. Non per dimostrare nulla a lui, ma perché lo meriti.»

Veronica ci pensò. E per la prima volta, dopo anni, le parve possibile. Un’altra vita.

«Tre anni,» sussurrò. «Passati a guardarmi alle spalle.»

«È ora di guardare avanti,» concluse Anna.

Alle sette, il campanello. Timofij irruppe felice. «Mamma! Siamo stati in giro e papà mi ha comprato un camion enorme!»

«Fantastico,» gli accarezzò i capelli. «Fammi vedere.»

Il bimbo sfrecciò in cameretta. Boris rimase sull’uscio, lo sguardo piantato sulla lampada nuova in salotto.

«Sprechi?» punzecchiò.

Veronica avvertì un clic dentro di sé, come un nodo che finalmente si scioglie.

«Sì,» rispose tranquilla. «Ora vivo bene. E andrà meglio. Perché lo merito.»

Lui rimase interdetto. «Ma tu…»

«Grazie per aver riportato nostro figlio,» lo interruppe. «Ci vediamo tra due settimane.»

E gli chiuse la porta in faccia.

«Mamma, guarda!» Timofij ricomparve con una grande autopompa. «La sirena è vera e la scala si allunga!»

Lei si sedette accanto a lui, sorridendo. «È un regalo bellissimo. Papà ha scelto bene.»

La gioia del bambino le strinse il cuore. Qualunque fosse il rapporto con Boris, momenti così valevano tutto: la felicità pulita di suo figlio.

«Papà ha detto che lavori poco e per questo abbiamo pochi soldi,» disse Timofij all’improvviso, premendo un pulsante: la sirena riempì la stanza. «E che se vivessimo insieme, avremmo una casa grande e tanti giochi.»

Il gelo. «Cosa ha detto?»

«Che se tu non fossi testarda, staremmo insieme. E potremmo anche prendere un cane. Possiamo prenderlo, mamma?»

Veronica inspirò, domando la collera. «Vai a lavarti le mani e a cambiarti. Intanto scaldo la cena.»

Appena fu sola, scrisse a Boris: «Dobbiamo parlare. Subito. È importante.»
Risposta lampo: «Non c’è niente da chiarire.»
Le si irrigidirono le dita: «Stai manipolando nostro figlio per colpire me. È vergognoso.»
«Dico soltanto la verità. Hai distrutto tu la famiglia.»

Il telefono finì sul divano. Duro in petto il dolore, ma niente lacrime. Non più.

«Non voglio andare da papà! Non voglio!» urlò Tim incrociando le braccia.

Veronica si accovacciò per incontrare i suoi occhi lucidi. «Perché, cucciolo? Di solito non vedi l’ora.»

«Ha detto che andiamo dalla nonna Zina.» Deglutì. «Lei non mi vuole. Dice che sono come te e che non diventerò mai nessuno.»

La rabbia le montò in gola. La madre di Boris aveva sempre guardato il nipote dall’alto in basso. Ora lo feriva apertamente.

«Tim, avevate in programma il museo, ricordi? Volevi vedere lo scheletro del tirannosauro.»

«Non ci voglio andare. Posso restare con te? Ti prego.»

Un trillo. Era alla porta. Veronica inspirò e aprì. Boris in giacca e cravatta, il sorriso compiaciuto di sempre.

«Allora, campione, si parte?» Scorse il volto bagnato del figlio e aggrottò la fronte. «Che succede?»

«Tim non vuole vedere tua madre,» disse Veronica senza alzare la voce. «E lo capisco.»

«Ah, fantastico. Lo metti contro la mia famiglia?» ringhiò. «Ottimo lavoro.»

«No, Boris,» scosse la testa. «È tua madre che lo mette contro di me. Gli dice che è un fallito perché mi assomiglia.»

«Sciocchezze,» tagliò corto lui. «A mamma lui…»

«Papà, non voglio andare dalla nonna,» ripeté Tim deciso, stringendosi a Veronica.

Boris passò lo sguardo da uno all’altra, irritato. «L’hai suggestionato tu…»

«Basta,» lo fermò Veronica, la mano alzata. «Non davanti a lui. Tim, vai un attimo in camera. Parlo con papà.»

Quando il bambino sparì, Veronica incrociò le braccia. «Che gioco stai facendo? Perché gli fai credere che torneremo insieme? Perché gli vendi illusioni?»

«Perché sarebbe la verità,» ribatté lui. «Se non avessi inscenato quel circo…»

«Un circo? Il nostro matrimonio, per te, era uno spettacolo?»

«Avevamo una famiglia normale!» alzò la voce. «Mantenevo tutti. Cos’altro volevi?»

«Libertà,» rispose. «Rispetto. Aria. Tu controllavi conti, passi e parole. Non era una famiglia: era una gabbia.»

«Ti amavo!» gridò, e lei indietreggiò d’istinto. «E ti amo ancora!»

Si fece un silenzio brusco.

«Se quello è amore,» disse lenta, «preferisco stare sola.»

Boris si passò la mano sul viso. Per un attimo, la corazza gli scricchiolò.

«Non capisco dove ho sbagliato,» mormorò. «Giuravo di fare la cosa giusta.»

Per la prima volta, Veronica lo vide non come un nemico, ma come un uomo stanco.

«Stai cercando di resuscitare un passato che non esiste più,» disse piano. «Mettere in mezzo Tim è crudele.»

«E il divorzio non lo è stato?» borbottò.

«La nostra famiglia era già finita prima delle firme,» sussurrò. «Fingevamo. Io non reggevo più.»

Stettero zitti, separati da anni di ferite. Poi Boris abbassò le spalle. «Voglio essere un padre all’altezza. Sul serio.»

«Allora ascolta tuo figlio,» suggerì lei. «Oggi non vuole vedere tua madre. Rispetta la sua scelta.»

Esitò. Poi annuì. «Va bene. Decide lui.»

«Tim?» chiamò Veronica. Il bambino uscì piano. «Oggi niente nonna,» disse Boris, inginocchiandosi. «Che ne dici del museo dei dinosauri?»

Gli occhi di Tim si accesero. «Davvero? Non ti arrabbi?»

«No,» tese la mano. «Promesso.»

Tim guardò la madre. Lei annuì, sorridendo. «Vai, amore. Papà manterrà la parola.»

Uscirono. Vicino all’ascensore, Boris si voltò: lo sguardo non era più rabbia, ma un tentativo di capire. «Ti chiamo se facciamo tardi.»

Le porte si chiusero. Veronica appoggiò la nuca al muro e chiuse gli occhi. Qualcosa si era spostato, poco ma in modo reale.

Un mese dopo, Veronica si sorprese a non temere il weekend. Boris smise di usare il figlio come arma. Niente più frecciate. Lontano dalla perfezione, certo, ma la guerra si era ritirata.

Quel venerdì, venne a prendere Tim. Lo sguardo gli cadde sulle tende nuove. «Hai fatto qualche cambiamento?»

«Piano piano,» rispose. «Un passo alla volta.»

Boris fece un mezzo passo verso di lei. «Vogliamo entrambi il meglio per Tim,» disse, incerto. Veronica si irrigidì.

«Aumenterò l’assegno,» aggiunse. «Quindicimila. Per ora non posso di più.»

Lei lo fissò, sorpresa. «Perché?»

«Perché è mio figlio,» fece spallucce, abbassando gli occhi. «E… ho sbagliato in molte cose.»

In tutti gli anni insieme, non gli aveva mai sentito dire una cosa simile.

«Grazie,» rispose sincera. «Per Tim vale tanto.»

«Non voglio più guerra, Ver. Davvero.»

Le si allargò nel petto un tepore inatteso. Non amore: sollievo. Pace, finalmente.

«Nemmeno io,» sussurrò. «Non l’ho mai voluta.»

Quando uscirono, Veronica si affacciò alla finestra. Giù, nell’area giochi, suo figlio mostrava al padre una nuova acrobazia alla sbarra. Boris rideva, applaudiva. Lei sorrise.

La ricchezza non è un divano o una lampada. La ricchezza vera è la quiete. Il respiro pieno. E Veronica, finalmente, cominciò a credere di meritarlo.

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