Ero convinta che il peggio fosse passato. Crescere mia nipote da sola dopo la morte di mio figlio mi aveva consumata, ma pensavo di aver superato la salita più ripida. Poi, una sera, sulla soglia è comparsa Marina — la mia ex nuora — con un sorriso smaltato, un abito firmato al braccio e una busta nella borsetta. In un attimo ho capito che certe persone possono essere più crudeli di quanto immagini.
L’abito, bisogna dirlo, era splendido: argento, scintillante. Addosso ad Anja l’avrebbe resa una principessa. Mia nipote si morse il labbro, oscillando con lo sguardo tra il suo riflesso nello specchio e quella stoffa luccicante. Prima ancora che le proponessi di provarlo, dalla borsetta di Marina scivolò una busta e cadde sul nostro tappeto consunto. Anja si chinò per raccoglierla; il suo nome campeggiava in grande sulla busta.
«Cos’è?» chiese, senza restituirla.
«Una sciocchezza, niente che ti riguardi adesso», rispose Marina, già con la mano tesa.
Anja aprì la busta. Mi avvicinai, infilai gli occhiali. Erano atti notarili: firme, timbri, pagine fitte. Un brivido gelido mi corse lungo la schiena.
«Marina, che significa?» domandai.
Il suo sorriso esitò appena. «Posso spiegare», mormorò, fissando Anja. «Tesoro, questa casa era per noi. Tuo padre l’aveva comprata per la nostra famiglia. Non credi sia giusto che ora me ne occupi io? Se firmi qui, potrò venderla e trovarne una migliore, più adatta a te. Non devi restare in questo posto dimenticato da Dio, circondata da cianfrusaglie. Possiamo vivere come meritiamo.»
Cadde un silenzio di pietra. Capivo benissimo: non era tornata per riabbracciare sua figlia, ma per strapparle l’ultima cosa rimasta di Michail.
Le mani di Anja tremavano attorno ai fogli, ma la voce le uscì ferma: «Pensi che un vestito ti renda mia madre? Che tu meriti questa casa per cui la nonna ha faticato e pagato ogni mese, mentre mi cresceva da sola?»
«Tesoro, io…»
«Tu mi hai abbandonata!» esplose Anja. «E adesso ti servono soldi per continuare la tua sceneggiata, vero? Hai bussato alla porta sbagliata. Questa è casa mia. Ho diciott’anni. La nonna è tutta la famiglia di cui ho bisogno.» E, senza esitare, ridusse i documenti a brandelli.
La faccia di Marina si irrigidì. Guardò i pezzi di carta sul pavimento come se l’avessero schiaffeggiata. «Ragazzina ingrata», sibilò, afferrando la borsa. «Te ne pentirai, quando resterai bloccata qui a vent’anni, senza un soldo, a badare a una vecchia morente.»
Mi mancò il fiato; la mano mi bruciava dalla voglia di darle uno schiaffo, ma non mossi un muscolo. Marina afferrò la custodia dell’abito, i tacchi rintoccarono sul parquet e la porta sbatté con un colpo secco. In quell’istante sentii le braccia di Anja stringermi forte.
La sera dopo era il ballo di fine anno. Anja lisciò davanti allo specchio il suo vestito azzurro — quello che le avevo cucito io — e mi regalò un sorriso deciso. «Pronta, nonna?»
Le porsi le chiavi, la accompagnai alla mia vecchia berlina, la lasciai davanti alla scuola. A notte inoltrata, oltre la mezzanotte, sentii la ghiaia del vialetto sussurrare: un amico l’aveva riaccompagnata. Le corse scompigliavano i ricci, il mascara era appena sbavato, ma sul volto le brillava una luce che avrebbe rischiarato qualunque buio.
«Com’è andata, tesoro?»
Mi abbracciò. «Ero la più bella. Grazie a te», sussurrò.
Restammo sul portico, lei a raccontare, io ad ascoltare. Nessuno la derise: dissero che il vestito era unico, indimenticabile. Rise, ballò, visse la sua notte. «La migliore della mia vita», disse prima di andare a dormire. Io rimasi fuori, a pensare al futuro.
Quella fu la prima notte del resto della sua vita. Con una borsa di studio parziale per architettura, in autunno avrebbe iniziato il college. Aveva deciso di restare con me: la nostra casa era anche la sua ancora.
Dopo tutto quello che avevo sacrificato, avevo cresciuto una brava persona: non si lasciava abbagliare né dai soldi né dalle apparenze. Somigliava a suo padre, Michail. E questa era casa sua.
Speravo solo che Marina non tornasse a scompigliare l’equilibrio che ci eravamo costruite.
Sedici anni prima, a cinquantasei anni, ancora in affitto tra monolocali umidi, guardavo mio figlio realizzare ciò che a me non era mai riuscito. A ventinove anni, lavorando come muratore, con le mani piene di calli e i sogni spalancati, Michail comprò una casetta a un piano per sé, per Marina e per la loro bimba, Anja.
«Mamma», disse un giorno davanti a un caffè, nella cucina minuscola, «allargerò le stanze, farò una veranda, magari un’altalena in giardino. E per te, una cameretta sopra il garage.»
Ero così fiera. Con la lucidità di chi sa quanto sono fragili le promesse della vita, aveva pure scritto un testamento semplice: se gli fosse successo qualcosa, la casa sarebbe passata ad Anja.
Il destino, però, non gli concesse il tempo. Un incidente in cantiere se lo portò via. Anja aveva appena due anni.
Al funerale stringevo la sua manina; Marina, algida come una nevicata d’inverno, riceveva condoglianze come se fossero formalità d’ufficio. Tornate a casa, la trovai a far la valigia. Aveva ventisette anni.
«Abbi cura di lei», mormorò sulla porta, e mi lanciò le chiavi.
La vidi salire su un’auto di lusso, accanto a un uomo col sorriso facile. Il motore ruggì e sparirono in strada, lasciando me e Anja sul vialetto. Quella fu l’ultima volta che la vidi — fino a ieri.
Mi trasferii nella casa di Michail con Anja e presi qualunque lavoro per pagare il mutuo e mettere cena in tavola: pulivo case finché le ginocchia bruciavano, badavo ai bambini dei vicini, servivo ai tavoli fino ad avere i piedi gonfi. Gli anni scorrevano veloci come pagine voltate al vento. Superati i settanta, la schiena si faceva più rigida, le rughe più numerose; eppure l’energia, per lei, la trovavo sempre.
Anja cresceva: buona, attenta, con un’eleganza tutta sua anche in un abito di seconda mano. Non chiedeva mai troppo, benché sapesse di non avere quello che avevano gli altri. Ma una cosa la desiderano tutte le ragazze: sentirsi belle almeno una volta, al ballo di fine anno.
Qualche settimana prima le chiesi se ci sarebbe andata. Scosse la testa. «Nonna, non preoccuparti. Non è necessario. Non possiamo permetterci un vestito. Ho guardato nei negozi dell’usato, non ho trovato nulla di adatto.» Fingeva indifferenza, ma le parole le pesavano.
Il giorno dopo, in un negozio vintage, trovai un raso azzurro delicato e abbordabile. Quella notte, dopo il turno in tavola calda, tirai fuori la vecchia Singer e cominciai a cucire sul tavolo della cucina. Anja protestò: «Lavori già troppo per me». Ma io infilavo punto dopo punto l’unica cosa che conti davvero: l’amore. Continuai finché le dita non si irrigidirono e gli occhi bruciavano.
La vigilia del ballo, nel nostro corridoio stretto, Anja indossò l’abito. La stoffa catturava la luce in riflessi gentili. Le si riempirono gli occhi. «È il vestito più bello che abbia mai visto», sussurrò.
Fu allora che bussarono forte alla porta. Aprii. Sulla soglia, Marina. Quarantatré anni, bellissima, truccata alla perfezione, tacchi che battevano il legno con la sicurezza di chi entra dove non è invitato. Sul braccio, una custodia lucida.
«La mia bambina!» esclamò, abbracciando Anja, che rimase rigida. Non aveva fatto un solo passo verso di noi per anni, e ora recitava la parte della madre premurosa. Aprì la custodia: un abito d’argento, probabilmente più caro di tre mesi del mio stipendio. «Sono arrivata giusto in tempo», disse, posando gli occhi sul vestito cucito in casa. «Non puoi andare al ballo con… questo. Riderebbero tutti. Prendi questo: è un vestito vero.»
Sentii che qualcosa non tornava, anche se per un istante avrei voluto crederle. Il resto lo sapete: la busta, i documenti, il tranello.
Quella sera, però, Anja ha scelto sé stessa. E quando ha detto «La nonna è tutta la famiglia di cui ho bisogno», ho capito che la nostra casa — con le sue crepe, le sue sedie sbucciate, i suoi ricordi — è più solida di qualunque promessa luccicante. È il posto dove la bellezza non si compra: si cuce, punto dopo punto, finché diventa vita.