Un altro sabato, un altro promemoria puntuale della mia presunta “mancanza”.
Sulla strada per il primo compleanno della figlia dei nostri amici cercavo di tenere un sorriso in volto, mentre ogni palloncino, ogni scarpina minuscola, ogni risata acuta mi conficcava nel petto come uno spillo. Avrei voluto chiamare tutto quello “mio”, e invece rimaneva sempre appena oltre la porta.
Più di qualsiasi altra cosa desideravo diventare madre. Quel desiderio non era un capriccio: era tessuto dentro di me. Per anni ho vissuto di attese e di liste di esami, ho attraversato studi medici e farmacie, ho ingoiato pillole che mi gonfiavano il corpo e mi svuotavano l’anima. Ogni mese un’altra sbarra solitaria sul test, e il mio cuore scivolava giù, sempre più in fondo, in un pozzo senza appigli.
Nessuna diagnosi, nessuna risposta utile. “Infertilità idiopatica”, dicevano. Due parole eleganti per dire: non sappiamo perché. Io mi sentivo impotente, un enigma difettoso. Kirill, mio marito, provava a fare da argine:
«Non preoccuparti, Julia. Le cose belle richiedono tempo», sussurrava stringendomi.
Ma vedevo i dettagli: la mascella tesa quando riportavo l’ennesimo esito negativo, l’ombra dietro un sorriso cortese, il modo in cui cambiava discorso se nominavo adozione o fecondazione in vitro.
Finivo sempre a incolpare me stessa. Ero io “il problema”. Mi sembrava di rubargli la vita che meritava. Non lo disse mai, ma il suo silenzio sapeva parlare meglio di chiunque.
Quel sabato alla festa resistetti appena un’ora. Tutti reggevano i loro bambini con gesti naturali, ridevano, scattavano foto lucide di felicità. Io mi sentivo un’ombra appesa al sole. Uscii in giardino a cercare aria.
Lo sentii allora. Kirill.
Era dall’altra parte del patio, sotto la tettoia, con tre amici e una birra in mano. Non stavo origliando, ma il vento portava voci nitide.
Uno di loro disse: «Perché non adottate? Negli occhi di Julia c’è una tristezza che si vede da lontano, amico».
Mi si fermò il respiro. Mi appoggiai al cancello, le dita gelate sul legno.
Kirill rise. Una risata bassa, tagliente, che non riconobbi.
«Sì, poverina», bofonchiò. «Ma ho fatto in modo che un parassita non si mettesse mai tra noi».
Un ronzio mi riempì le orecchie. Parassita?
Poi la lama: «Ho fatto la vasectomia anni fa».
Il mondo si immobilizzò. Mi tenni alla staccionata per non crollare.
E lui continuava, calpestando il nostro sogno:
«Niente pianti notturni, niente chili in più, niente soldi buttati in pannolini. Così è più semplice».
Risero. Nessuno lo fermò, nessuno chiese “perché”.
Me ne andai come in trance. Qualcuno mi chiese se stavo bene; biascicai qualcosa sul mal di testa. Kirill a malapena mi rivolse uno sguardo.
Guidai verso casa tremando, intorpidita. L’uomo che mi baciava la fronte dopo ogni test negativo, dicendo “non è ancora il nostro momento”, non ci aveva mai dato una possibilità. Aveva gettato a terra la mia speranza, il mio dolore, la fede che avevo in noi. Aveva scelto il segreto al posto del nostro futuro.
Seduta nel buio del soggiorno, ripensai a tutte le volte in cui mi ero data la colpa. Al dolore masticato credendo che il mio corpo fosse rotto. E lui, per tutto quel tempo, sapeva. Sapeva che non ci sarebbe mai stato un bambino.
La mattina dopo, con un caffè freddo tra le mani, il telefono vibrò. Era Nikolaj, un amico di Kirill; uno di quelli presenti la sera prima.
«Pronto?» dissi, piatta.
«Julia…» la voce gli tremava. «Non sapevo se chiamarti. Ma dopo ieri…»
«Lo so», tagliai corto.
«Hai sentito?»
«Ogni singola parola. Se c’è altro, dillo adesso».
Sospirò, colpevole. «Non avevo idea. Pensavo soffriste insieme. Non immaginavo una cosa così».
«Neanch’io», mormorai.
«Mi dispiace tanto. Meriti la verità. E qualcuno che voglia le stesse cose che vuoi tu».
Non era una soluzione, ma era qualcosa. Dopo anni di finzioni, almeno la verità.
Guardando la strada dalla finestra, sentii montare una tempesta. Non avrei lasciato che Kirill avesse l’ultima parola. Pensava di togliermi la maternità, la scelta, la verità? Non sapeva con chi aveva a che fare.
Cominciai a pianificare.
Qualche settimana dopo “presi in prestito” un test positivo e un’ecografia da Masha, un’amica incinta di sei mesi. Quando le raccontai tutto, s’infuriò; aveva visto le mie sconfitte, la mia disperazione.
«Non penserai di chiudere tutto senza dire la tua», disse.
«No», risposi stringendo il test. «Deve sentire cosa vuol dire quando ti crolla il mondo addosso».
Quella sera, quando rientrò con la solita birra, preparai la scena. Con le mani che tremavano entrai in salotto: «Kirill, dobbiamo parlare».
Alzò le sopracciglia. «Che succede?»
«Sono incinta», sussurrai.
Il colore gli defluì dal viso. La bottiglia gli scivolò sul tavolo. «Cosa? Impossibile. Tu… non puoi».
«Perché no?» chiesi, ingenua e lucida. «Non era ciò che volevamo?»
Impallidì ancora. Cominciò a camminare avanti e indietro, si passava le mani tra i capelli. «Rifai il test. È un errore. Non può essere!»
E poi crollò: «Ho fatto la vasectomia!»
Mi raddrizzai. «Cosa hai detto?»
Si bloccò. Aveva appena firmato la sua condanna.
«Lo so», dissi piano. «Ti ho sentito alla festa. Lo so da settimane».
«Julia, aspetta, posso spiegare…»
«No», lo fermai, spingendogli contro al petto test ed ecografia. «Mi hai fatta sentire guasta. Mi hai lasciata pregare per un figlio che non avevamo mai avuto la possibilità di concepire».
Il suo volto era una maschera di vergogna e paura.
«Basta», conclusi. «Il matrimonio finisce qui. Entro la settimana me ne vado».
Non tentò di fermarmi. Forse capì che non esistono parole per rattoppare anni di menzogne.
Ma non era finita.
Pochi giorni dopo incontrai Diana, un’avvocatessa lucida come acciaio, che mi restituì il respiro. Le raccontai tutto.
«Voglio divorziare», dissi. «Pulito, rapido, alle mie condizioni».
«Allora partiamo», rispose aprendo la cartella. «E facciamo in modo che non se la cavi con poco».
Le chiamate di Kirill diventavano raffiche: «Scusami», «Stai esagerando», «Stai distruggendo la nostra vita». Io tacevo.
Quando firmai i primi documenti, fu come inspirare dopo una lunga apnea. L’aria tornò a circolare. Per la prima volta, intravedevo un dopo.
Una settimana più tardi, Nikolaj mi scrisse di nuovo: «Volevo sapere come stai. Ti penso».
Cominciammo a sentirci: prima messaggi corti, poi più lunghi. Un caffè. Una cena. Passeggiate che diventavano confessioni.
«Sai», disse una sera guardando il cielo, «ho sempre ammirato la tua tenacia. Hai continuato a camminare anche quando faceva male».
Le lacrime mi velarono gli occhi. «Sei stato tra i pochi a vedere davvero chi sono».
Nei mesi successivi mi restò accanto con una gentilezza paziente. Non avevamo fretta. Stavamo guarendo. Insieme.
Un anno dopo ci sposammo sotto una quercia, in una cerimonia piccola, circondati da chi ci voleva bene per ciò che eravamo davvero, non per il ruolo che interpretavamo.
Poi accadde l’improbabile. Un ritardo. Mani che tremano, un altro test. Positivo. Questa volta per davvero.
Quando glielo dissi, Nikolaj pianse e mi strinse come a proteggere il futuro intero. «Diventeremo genitori».
«E questa volta con un uomo che lo desidera quanto me», risposi piangendo di gioia.
Qualche mese dopo, sdraiata a letto con la sua mano sulla curva del mio ventre, guardai la vita che avevo ricostruito: non quella in cui ero stata ingannata, ma quella che avevo scelto.
«Questo è l’amore», sussurrai. «E non lo lascerò più scappare».