Anton tamburellava le dita sul volante, nervoso, osservando il flusso interminabile di pedoni che tagliava la strada.
— E quando finisce, eh? — borbottò a mezza voce. — Tutta la città piena di gente senza macchina.
Intrappolato nel traffico, lasciò vagare lo sguardo. Alla sua sinistra, al semaforo, scivolò accanto un SUV sontuoso: carrozzeria scintillante da pubblicità, finiture impeccabili, cromature che accecavano alla luce.
Alla guida c’era una donna.
— Ma guarda, una “pilota” — sbuffò con disprezzo. — Chissà come ha messo insieme i soldi per un’auto del genere.
La donna si tolse gli occhiali da sole, si passò una mano tra i capelli e controllò lo specchietto. In quel preciso istante il cuore di Anton ebbe un sobbalzo: la riconobbe. Era Lera, la sua ex moglie.
— Impossibile… — mormorò, con la bocca socchiusa dallo stupore. — Come? Perché?
La memoria lo trascinò indietro. Al divorzio aveva fatto in modo che lei non tenesse niente. Neppure la patente aveva! E ora eccola lì, al volante di un SUV nuovo fiammante, mentre lui arrancava nella sua vecchia scatola di latta.
“Forse nascondeva dei guadagni?” pensò, febbrile, cercando qualsiasi appiglio.
La loro storia era cominciata quasi con poesia. All’epoca Lera colorava i muri della sua fattoria con graffiti: tinte vivide ovunque, capelli ribelli, odore di vernice nell’aria. A lui, in verità, pareva una perdita di tempo, ma fingeva interesse.
— È solo vandalismo — pensava. — A chi servono quelle macchie colorate?
A voce, però, diceva altro. Lera gli piaceva fisicamente; il resto veniva dopo. La cotta si trasformò in qualcosa di serio. Lera sapeva discutere, aveva idee nette e insieme una dolcezza che spiazzava.
Per oltre un anno Anton recitò la parte dell’uomo che “capisce l’arte”. Poi decise che era materiale da moglie. La proposta fu scenografica: sul tetto dell’ufficio, fiori, lucine, un ginocchio a terra, anello con diamante.
Matrimonio in un hotel di lusso; e dopo poche ore già si pentiva. Gli amici di Lera — rumorosi, eccentrici, liberissimi nel vestire — stonavano con l’eleganza dell’ambiente. Si sentiva a disagio davanti ai suoi invitati “perbene”.
— La prima cosa è impedirle di frequentarli — stabilì. — Ora è mia moglie. Quella gente, fuori da casa mia.
Con sua sorpresa, Lera accettò senza fare storie, chiedendo solo di vedere gli amici altrove.
— Anton, non posso tagliare le persone solo perché non ti piacciono — provò a dire piano. — Anche a me non vanno tutti i tuoi amici, ma non te lo impongo.
— Non confondere — la zittì. — I miei sono gente vera, l’élite.
Lera, che l’élite vera la conosceva, capì subito quanto quella di Anton fosse una posa. Ma tacque: se a lui piaceva crederlo, che fosse così.
Le restrizioni però non si fermarono agli amici. Lo irritavano il suo look, l’odore di vernici, il disordine creativo. Quella libertà che un tempo lo divertiva ora gli dava fastidio: desiderava controllo.
A furia di pressioni e frecciate, la convinse a smettere di dipingere.
— Se ti piace l’arte, vai al museo come le persone normali — sbottava. — Perché arrampicarti nei vicoli? I colleghi sono stanchi di giustificare le tue stranezze alle mogli.
— Non è un hobby, è il mio lavoro — provò a opporsi Lera. — Tu stai in ufficio e nemmeno hai una laurea!
— Non sei un’artista, Lera. Sei una scarabocchiatrice — tagliò corto, gelido.
Quelle parole le fecero male come una lama; per giorni non gli rivolse più la parola. Poi Anton si accorse che erano spariti album, pennelli, barattoli. Niente più rientri tardivi, profumo al posto dell’olio di lino.
— Brava, tesoro — si compiacque, invitandola a cena per suggellare la “pace”.
Lei era splendida in un abito bordeaux e con un nuovo taglio. Anton la strinse e la rivolse verso uno specchio:
— Che bella coppia! Ecco cosa volevo. Ora sembri davvero mia moglie. Molto meglio. Puoi dedicarti a qualcosa di più adatto: lavori manuali, cucina…
Lera non disse nulla. Quella donna riflessa non le assomigliava più. Capì soltanto che era ora di tornare a se stessa.
Provò diversi interessi, finché non inciampò nella fotografia. Il suo occhio allenato alla pittura trovava luce, taglio, respiro. Le immagini vibravano. Gente che prenotava servizi, inviti a eventi. Nei ritagli di tempo camminava e scattava: passanti, animali, alberi, case; tutto ciò che la emozionava.
Anton si irritava sempre di più. Per lui Lera saltava da una mania all’altra. Si annoiava a sentirla parlare di lavoro, e lo infastidiva che i suoi stessi conoscenti la elogiassero.
— E perché mai? — sbottava. — Per due foto? Oggi chiunque estrae il telefono e clic. Dov’è il talento?
Piano piano si raffreddò del tutto e si mise con un’altra: esattamente come l’aveva sempre immaginata. Curata, sicura, impeccabile in trucco e outfit. Niente stramberie, niente amicizie “alternative”: solo stile, lusso e misura.
Lera scoprì del divorzio da un atto di citazione. Anton gongolava nel vederla spiazzata. L’avvocato aveva strizzato ogni spicciolo: a lei non restava nulla.
— Hai tre giorni per fare le valigie — comunicò, freddo.
Lei non protestò. Annuì e se ne andò senza voltarsi.
Anton non aveva tempo per ripensamenti: la nuova compagna reclamava. Gallerie, mostre, eventi, e poi acquisti su acquisti — scarpe, abiti, creme costose.
— Bisogna essere all’altezza — ripeteva lei.
Eppure, a volte, i ricordi lo pungevano: Lera alla finestra che dipingeva, lui che si slacciava la cravatta e si lasciava cadere sul divano con una stout in mano.
Ora, rivedendola così, faticava a riconoscerla. Come aveva fatto a trasformarsi tanto in fretta?
Senza pensarci, la seguì in auto. Credeva andasse al monolocale preso dopo il divorzio. Ma lei tirò dritto e imboccò un quartiere di cui lui aveva solo sentito parlare: ville di pregio, giardini immacolati.
Il cancello si aprì da solo; Lera entrò. Anton si fermò poco più in là. Lei scese, consegnò le chiavi a un uomo in giacca elegante che parcheggiò il SUV in garage, poi s’avviò verso casa.
Anton uscì deciso e la seguì. Nessuno lo fermò.
Nell’ampia hall, Lera parlava con due giovani. Appena lo videro, si scambiarono un’occhiata e sparirono.
— Grazie, ragazzi. Vi raggiungo — disse lei, poi andò incontro all’ex marito. — Non pensavo di vederti qui. Cosa ti porta? Curiosità? Ti sei ripreso in fretta, vedo. Allora? Confessa: tenevi da parte dei soldi?
Lera sorrise, con uno scintillio ironico.
— Ah, era invidia, dunque? Vieni, ti spiego io.
Lo condusse in una stanza, dove portarono subito da bere.
— Siediti. Pensi che lavori qui? In un certo senso sì. Sono la padrona di casa. Vedi, quando hanno cominciato a volere le mie foto, non mi sono fatta scappare l’occasione. Tu nemmeno immaginavi che alcune opere si vendessero a cifre folli. E credimi: non tutti i ricchi se le possono permettere. Io sono stata tra i pochi fortunati… e caparbi.
Indicò l’ambiente con un cenno.
— Ho scoperto di avere non solo la mano dell’artista, ma anche testa da imprenditrice. Ho aperto il mio studio. La casa è mia, il team è mio. Qui si lavora, si impara. Organizziamo shooting, campagne, mostre, masterclass. In un certo senso, devo ringraziare anche te: mi hai mostrato chi non volevo diventare.
Anton tacque, corroso dall’invidia.
— Volevi spezzarmi, rifinirmi a tuo uso, cancellare ciò che ero. Io ho scelto la mia strada. Anche se per un po’ della mia vita l’ho regalata a te.
Si alzò.
— Per i vecchi tempi, stavolta sorvolo. L’uscita la trovi da solo.
Se ne andò, lasciandolo lì. Anton si mise a camminare nella stanza: alle pareti, fotografie e quadri lo fissavano, tutti firmati con cura. La cosa lo irritò ancora di più.
“E chi si crede di essere per parlarmi così?” ringhiò tra sé.
Aveva già la mano tesa verso una cornice quando entrò un uomo massiccio in completo scuro.
— Mi pare si sia perso. La accompagno?
A casa lo aspettava un altro colpo.
— Anton, io me ne vado — annunciò la fidanzata, in piedi sulla soglia con una valigia.
— Cosa? Perché?
— Guardati — disse, calma. — Sei gentile, carino, ma non sei al mio livello. Addio, tesoro.
Gli stampò un bacio sulla guancia e uscì, lasciando nell’aria solo una scia di profumo.
— Ma vaff…! Me la caverò anche senza di voi! — gridò, colpendo il muro con un pugno.
Non aveva mai assaggiato un’umiliazione così amara.