«La mia sorellastra mi ha chiesto di confezionare gli abiti per le sue sei damigelle; poi, però, ha deciso che non mi avrebbe rimborsato né i materiali né le ore di lavoro.»

Quando mia sorellastra mi chiese di cucire sei abiti su misura per le sue damigelle, dissi di sì sperando fosse l’occasione per riavvicinarci. Anticipai 400 dollari dal fondo per il nostro bimbo per comprare tessuti e accessori. Alla consegna, però, li liquidò come “il mio regalo” e scoppiò a ridere quando chiesi il pagamento. Il karma, però, ha un tempismo impeccabile.

La sua telefonata arrivò un martedì mattina. Cullavo Max, quattro mesi, appoggiato su un fianco, quando sentii la voce di Jade.

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«Amelia? Ho bisogno disperato del tuo aiuto.»

Spostai Max, che nel frattempo mi tirava una ciocca di capelli. «Dimmi.»

«Mi sposo il mese prossimo e sto impazzendo con gli abiti delle damigelle. Ho girato dodici atelier: niente sta bene a tutte e sei. Hanno fisici diversi… Poi ho pensato a te: con la macchina da cucire fai miracoli.»

«Jade, da quando è nato Max non ho preso lavori veri…»

«Potresti pensarci tu? Ti prego. Sei a casa, e naturalmente ti pagherò bene. Mi salveresti il matrimonio.»

Non eravamo mai state davvero vicine: madri diverse, strade diverse. Ma sempre di famiglia si trattava. «Quanto tempo ho?»

«Tre settimane. Lo so, è pochissimo, ma ricordi l’abito che cucisti per la laurea di Lia? Tutti chiedevano chi l’avesse disegnato.»

Guardai Max che mi ciucciava il colletto. Il nostro fondo per il bambino si assottigliava, Rio faceva doppi turni in fabbrica e le spese non mollavano. Forse era un’opportunità.

«Parliamo di budget: materiali e manodopera. Sei capi su misura sono un lavoraccio.»

«Non preoccuparti ora dei soldi. Sistemiamo tutto alla fine. Ti giuro che ti pago.»

«Va bene. Ci sto.»

La prima prova fu con Sarah, alta e formosa, dalle idee chiarissime.

«Odio i colletti alti,» disse guardando i miei schizzi. «Mi fanno suora. Posso avere uno scollo più profondo?»

«Certo.» Sistemai il cartamodello.

«E stringi bene in vita. Lo voglio aderente.»

Il giorno dopo arrivò Emma, minuta, che voleva esattamente l’opposto.

«Questo scollo è troppo profondo per me. Possiamo alzarlo? E la vita più morbida. Odio gli abiti fascianti.»

«Va bene.» Altra modifica.

«Ah, e maniche più lunghe. Non amo le mie braccia.»

Sabato fu il turno di Jessica, atletica, con la sua lista.

«Voglio uno spacco alto fino alla coscia: devo ballare. E sostegno sul décolleté, grazie.»

Alle prove successive ognuna aveva pretese nuove.

«Questa zona sui fianchi può cadere più morbida?» chiese Sarah.

«Questo colore mi spegne,» borbottò Emma. «Non possiamo virare su un azzurro?»

«La mano di questo tessuto è mediocre,» sentenziò Jessica. «In foto non rende.»

Sorridevo e segnavo tutto. Intanto Max piangeva come un orologio ogni due ore. Allattavo con una mano e con l’altra appuntavo orli. La schiena urlava dopo notti alla macchina fino alle tre.

Rio mi trovava addormentata al tavolo, tra spilli e ritagli. «Ti stai distruggendo,» disse porgendomi un caffè. «Quando è stata l’ultima volta che hai dormito più di due ore?»

«Quasi finito,» mormorai con gli spilli in bocca.

«E Jade non ha neanche rimborsato i materiali. Hai speso 400 dollari del fondo di Max.»

Aveva ragione. Avevo comprato seta buona, fodere, pizzi, minuteria. Jade continuava a promettere che mi avrebbe pagata “a breve”.

Due giorni prima del sì consegnai sei abiti perfetti, come usciti da una maison.

La trovai sdraiata sul divano, lo sguardo incollato al telefono. «Lasciali nella camera degli ospiti,» disse senza alzare gli occhi.

«Non vuoi vederli? Sono venuti benissimo.»

«Immagino vadano bene.»

“Immagino”. Tre settimane di lavoro, 400 dollari, notti in bianco… e “vanno bene”.

«Parliamo del pagamento?»

Per la prima volta mi guardò. «Pagamento? Quale pagamento?»

«Hai promesso di rimborsare i materiali. E la manodopera: le sarte vengono pagate.»

«Ma dai, è ovvio che questo è il tuo regalo di nozze! Che volevi, un tostapane dalla lista?»

«Jade, ho usato i soldi del cappotto nuovo di Max…»

«Drammi inutili. In questo periodo non lavori davvero. Sei a casa tutto il giorno. Ti ho dato un bel progettino per occuparti.»

Quelle parole mi ghiacciarono: “a casa tutto il giorno”, “progettino”.

«Non dormo da settimane.»

«Benvenuta nel club dei genitori! Ora devo prepararmi. Grazie per gli abiti.»

Piangetti mezz’ora in macchina. Tornata a casa, Rio prese subito il telefono. «La chiamo.»

«No, per favore. Non prima del matrimonio.»

«Ti ha sfruttata. È furto.»

«Lo so. Ma una guerra familiare non ci ridarà i soldi.»

«E allora? La lasciamo passare liscia?»

«Per ora sì. Dopo vedremo.»

Serrò la mascella. «Non finisce qui.»

Il matrimonio era splendido. Jade raggiante. E i miei abiti? Il vero successo.

«Chi li ha disegnati?» «Meravigliosi.» «Perfetti.»

Vidi Jade irrigidirsi ogni volta che le attenzioni scivolavano dalle sue sete al lavoro delle damigelle. Poi la sentii sussurrare a un’amica al bar: «Ho spremuto la sorellastra. Gratis. Era a casa col bambino, facile da pilotare.» L’amica rise. «Geniale.»

Mi bruciò il sangue.

Venti minuti prima del primo ballo Jade piombò al mio tavolo. «Emergenza. Subito.»

Mi trascinò in bagno, nella cabina più grande. La cucitura dietro del suo abito firmato si era aperta: il pizzo delle mutandine in bella vista.

«Oddio! Mi vedranno tutti! Fotografi, video, duecento invitati! Tu sola puoi salvarmi.»

La guardai. Una cucitura scadente nascosta da un’etichetta costosissima. Che ironia.

Presi il mio kit dalla borsa. L’istinto professionale non muore mai. «Stai ferma. Respira piano.»

«Grazie, grazie, grazie…»

Mi inginocchiai usando delle salviette a mo’ di tappetino. Con la torcia del telefono ricomposi il danno mentre fuori si rideva. Dieci minuti e l’abito tornò impeccabile.

«Sei un angelo,» disse lei specchiandosi, pronta ad andarsene.

«Aspetta. Solo una cosa: dì a tutti che quegli abiti li ho fatti io. La verità.»

«Amelia, io…»

«Una verità sola.»

Uscì senza rispondere. Credevo fosse finita lì.

Durante i discorsi, invece, Jade si alzò. «Devo chiedere scusa.»

Mi si fermò il cuore.

«Ho trattato mia sorellastra malissimo. Le avevo promesso di pagarla per sei abiti su misura e poi ho finto fossero il suo regalo. Ho usato i suoi risparmi del bambino e non l’ho rispettata. Poco fa il mio abito si è strappato e lei mi ha salvata. Nonostante tutto.» Tirò fuori una busta. «Non merita il mio egoismo. Qui c’è quanto le devo, più qualcosa per Max.»

Venne al mio tavolo e me la porse. «Scusa, Amelia. Per tutto.»

La sala esplose in applausi. Io sentivo solo il mio cuore. Non per i soldi—anche se servivano—ma perché finalmente non ero più la “sarta gratis”.

La giustizia non sempre arriva con vendette plateali. A volte bastano un ago, un filo e la scelta di restare dignitosa anche quando non se lo meritano. E questo, a volte, apre gli occhi.

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