Natasha appoggiò sul tavolo il piatto di patate dorate, poi ritrasse di scatto la mano: la padella bruciava. Le dita si arrossarono appena, un pizzicore sopportabile. L’appartamento profumava di aneto e cipolla rosolata; fuori, il sole di maggio e le voci allegre dei bambini filtravano dalle finestre aperte. Una sera qualunque nel loro bilocale al terzo piano.
— Maksim, a tavola! — chiamò.
Il ragazzo uscì dalla sua stanza con i capelli arruffati e la maglietta macchiata di pennarelli: doveva aver lavorato al progetto di scuola. Si sciacquò in fretta e si sedette, allungando la mano verso il pane.
— Aspettiamo papà — lo fermò Natasha con dolcezza.
Sergej comparve dal corridoio, tirandosi a posto la camicia. La giornata in cantiere si leggeva tutta sul volto: stanco, sudato, le occhiaie scure sotto gli occhi.
— Com’è andata? — chiese lei versandogli il tè.
— Niente di che. Caldo tremendo, il capo sempre col broncio — borbottò, servendosi la carne. — E voi?
— Maksim è stato in biblioteca. Si prepara per l’olimpiade di matematica. Dicono che abbia buone chance per la fase cittadina.
Il ragazzo sorrise appena e si servì le patate. A tavola cadde il solito silenzio di fine giornata, rotto da frasi brevi e abitudinarie. Natasha pensò che l’indomani avrebbe dovuto comprargli scarpe da ginnastica nuove: quelle vecchie erano ormai lisce.
Il campanello trillò tre volte, lungo e insistente.
— A quest’ora? — mormorò Natasha, guardando l’orologio. Erano quasi le otto.
Sergej si alzò, si asciugò la bocca con la tovaglietta e andò ad aprire. Subito una voce femminile riempì l’ingresso:
— Sergej! Meno male che sei in casa! Aiutami con le valigie, sto per crollare!
Natasha riconobbe all’istante la suocera e si irrigidì. Valentina Petrovna arrivava sempre come una raffica di vento che scompiglia tutto. Si sentirono strusci e colpi nel corridoio: Sergej trascinava bagagli.
— Maksim, finisci in fretta — sussurrò Natasha.
Il ragazzo la guardò interrogativo, ma continuò a mangiare in silenzio. Natasha cominciò a riordinare d’istinto: l’esperienza le diceva che era meglio fare spazio.
Valentina Petrovna entrò come fosse casa sua: capelli messi in piega, trucco leggero, abiti eleganti e costosi. Stringeva una borsetta di pelle.
— Buonasera — disse, l’occhio già in ispezione su ogni angolo. — Maksim, saluta come si deve.
Il ragazzo si alzò e andò verso di lei.
— Buonasera, nonna Valentina.
— “Nonna Valentina”? — la voce della donna si fece improvvisamente fredda. — Non sono la tua nonna. — E, lanciando un’occhiata a Natasha: — Si vede da chi prendi le buone maniere.
Natasha serrò i denti e continuò a sparecchiare. Maksim si spostò da un piede all’altro, a disagio.
— Siediti, mamma — intervenne Sergej, scostando una sedia. — Vuoi cenare?
— Certo. Sono stremata dal viaggio — rispose lei, sedendo e guardandosi attorno. — Cosa mi portate?
— Riscaldo qualcosa — disse Natasha.
— Niente riscaldato! — tagliò corto la suocera. — Il cibo riscaldato non lo tocco. Fammi qualcosa di fresco.
— Abbiamo appena mangiato…
— Tanto meglio! Avrete di sicuro ancora roba pronta. O in questa casa gli ospiti restano a digiuno?
Sergej lanciò a Natasha uno sguardo supplichevole.
— Natasha, per favore…
Lei tornò ai fornelli. In frigo c’erano un po’ di carne e due patate: avrebbe dovuto rimettere mano a tutto. Maksim rimase immobile, senza sapere dove mettersi.
— Vai a giocare — gli disse lei.
— Un momento — lo bloccò Valentina Petrovna. — Prima sparecchia. Vedo briciole e piatti sporchi.
— Non sapevamo che saresti venuta — provò a spiegare Natasha.
— E questo sarebbe un problema? La casa dev’essere sempre pronta. Maksim, pulisci il tavolo e porta i piatti in cucina.
Il ragazzo ubbidì, raccogliendo con scrupolo anche l’ultima briciola. Natasha lo seguiva con lo sguardo, tesa.
— Sergej, aiutami con le valigie — disse poi la suocera. — Resto per un bel po’.
— Per… un bel po’? — ripeté Natasha.
— Che c’è di strano? Un figlio si prende cura della madre. O tu hai qualcosa in contrario?
Natasha si voltò ai fornelli. Discutere non serviva: Sergej avrebbe fatto quadrato con sua madre.
— Ovviamente puoi fermarti, mamma — si affrettò a dire lui. — Siamo contenti che tu sia qui.
Valentina Petrovna annuì soddisfatta e iniziò l’ispezione: macchie sul pavimento, polvere sul davanzale, foglie accartocciate nei vasi.
— Questa la chiameresti pulizia? — passò un dito e lo mostrò. — I fiori sono in agonia.
— Lavoro anch’io — ribatté secca Natasha, mescolando la carne.
— Lavori? E quindi la casa può andare in rovina? Io ho tenuto tutto in ordine per una vita! — Scoccò un’occhiata a Maksim. — Scommetto che il letto non lo rifà mai.
— Lo rifaccio — rispose il ragazzo dalla cucina.
— Non intrometterti quando parlano i grandi — lo zittì lei. — I bambini devono stare composti e zitti.
Natasha sentì la porta della cameretta chiudersi. Per un attimo fu quasi sollevata.
— Non rimproverarmi anche tu — disse piano a Sergej.
— Io vedo solo che manca impegno — tagliò la suocera. — In due giorni rimetterò tutto come si deve. Ti farò vedere.
Natasha servì il piatto improvvisato; Valentina Petrovna annusò, assaggiò, arricciò il naso.
— Sciapo. E la carne è stopposa. Sergej, povero figlio mio.
— Va bene così, mamma — mormorò lui, ma senza convinzione.
Natasha ingoiò a vuoto. Ogni frase di quella donna le pesava sul petto.
— Dove dormirò? — chiese la suocera, spostando il piatto. — Spero non sul divano.
— Abbiamo due camere: noi in una, Maksim nell’altra — provò a spiegare Natasha.
— Allora il ragazzo va in soggiorno. Io ho bisogno di un letto vero.
— Troveremo un’alternativa — abbozzò Sergej.
— Quale? Mandare una madre sul divano dopo tutto quello che ho fatto per te?
Sergej abbassò gli occhi. Natasha capì che era deciso.
— Maksim! — chiamò la suocera. — Da domani liberi la stanza. Dormirai in salotto.
Il ragazzo comparve in porta, stringendo un libro. Natasha aprì la bocca, ma Sergej la precedette:
— Fai come dice la nonna.
— Ma lì ho i libri, il computer… — sussurrò lui.
— Li sposterai — tagliò corto Valentina Petrovna. — E meno giochi. D’ora in poi aiuti in casa.
Maksim annuì piano e tornò nella sua stanza. Natasha lo sentì mettere via le cose con una cura che le spezzò il cuore.
— Domani metteremo in riga tutto — dichiarò la suocera. — E mi occuperò io della sua educazione. Senza una figura maschile, un ragazzo non cresce bene.
— Sergej è qui — provò Natasha.
— Non è il padre biologico. Non è la stessa cosa. A lui serve disciplina, non carezze.
Natasha si mise a sparecchiare con movimenti secchi; i piatti tintinnarono. Sergej rimase seduto, muto.
— Sono stanca — disse infine Valentina Petrovna. — Preparami il letto e arieggia: qui si muore di caldo.
Entrò nella stanza di Maksim. Il ragazzo uscì tenendo tra le braccia qualche quaderno.
— Da domani — gli sussurrò lei all’orecchio — ti alzi presto, rifai il divano e niente libri in giro.
Maksim annuì, e la porta si chiuse.
— Mamma, dove studierò? — chiese piano.
— Al tavolino o in cucina — rispose Natasha. — Intanto mettiamo i libri in una scatola.
Lui si mise a impacchettare in silenzio. E quel silenzio faceva più rumore di qualunque discussione.
All’alba, l’aspirapolvere li destò. Erano le sei e mezza. Sergej era già uscito per il lavoro. Natasha scese in soggiorno: Valentina Petrovna, in vestaglia, passava il tappeto meticolosa; Maksim, seduto sul bordo del divano, cercava di finire un capitolo di storia.
— Togli i piedi, su — ordinò la nonna senza spegnere l’aspirapolvere. — Come pulisco, se ti pianti lì?
Il ragazzo si rattrappì sul divano, il libro gli scivolava dalle ginocchia.
— Buongiorno — disse Natasha.
— Sarà buongiorno quando qui splenderà tutto — ribatté la suocera. — Alla luce del giorno si vede che è un disastro.
Spingeva mobili, frugava negli angoli. Ogni due minuti Maksim doveva alzarsi per farla passare.
— Preparerai tu la colazione? — chiese poi. — O andiamo a caso anche oggi?
Natasha scivolò in cucina. I commenti sulla polvere non si fermarono mai. Alla fine chiamò:
— Maksim, vieni a mangiare.
Il ragazzo si sedette al solito posto. La suocera lo seguì e occupò la sua sedia: quella “di sempre”. Maksim arrossì.
— Tu siedi lì — indicò uno sgabello vicino alla finestra.
Ubbidì. Lo sgabello era alto, il piatto troppo lontano. Natasha stava per proporsi di scambiare, ma la suocera la fulminò:
— Non viziarlo. Il rigore si impara da piccoli.
La colazione si consumò in una calma pesante. Maksim aveva fretta: la scuola lo aspettava.
— Non ingoiare — lo riprese la nonna. — Le persone educate mangiano piano e ringraziano.
— Grazie — mormorò lui.
— Più forte: “Grazie per la colazione.”
— Grazie per la colazione.
— Vedi? — commentò, rivolta a Natasha. — Senza disciplina, nulla.
Quando il ragazzo cercò lo zaino, non lo trovò: la nonna l’aveva spostato. Salutò e si avviò alla porta.
— Un momento — lo fermò lei. — Non saluti?
Maksim tornò, diede un bacio impacciato sulla guancia.
— Arrivederci, nonna.
— “Nonna”, punto — corresse fredda. — Torna dritto a casa, niente giri.
Lui annuì e uscì. Le sue spalle, di solito leggere, sembravano quelle di un vecchietto.
Il resto della giornata fu un elenco infinito di compiti. Ogni gesto di Natasha veniva corretto, ripetuto, giudicato. La sera, l’appartamento brillava, ma lei non provava alcun sollievo.
Rientrò Maksim, chiese sottovoce il quaderno di matematica.
— Sì, ma non mettere mano a niente senza permesso — rispose la nonna.
Quando tornò Sergej, Valentina Petrovna snocciolò orgogliosa i risultati. Lui annuiva, soddisfatto delle superfici lucide.
— Così si tiene una casa — decretò lei.
A cena, la suocera prese posto a capotavola, quello di Sergej. Nessuno disse nulla. Maksim, sullo sgabello vicino alla finestra, abbassò lo sguardo.
— Passami il pane — ordinò la nonna.
Il ragazzo si sporse.
— In piedi e servi, non così — lo rimproverò. Maksim arrossì, si alzò, porse il cestino come a un esame. Natasha strinse i denti. Ogni parola era una puntura.
— I bambini mangiano dopo gli adulti — continuò la suocera. — Nelle famiglie perbene funziona così.
— È solo un bambino — provò Sergej.
— Proprio per questo gli serve educazione. Maksim, aspetta che abbiamo finito, poi toccherà a te.
Gli occhi del ragazzo si velarono, ma si trattenne. Natasha sentì la rabbia montare, impotente.
— Prima mangia mia madre; quel tuo ragazzino poveraccio aspetta — ringhiò Sergej, spingendo via Maksim quando allungò la mano verso il pane.
Il ragazzo sobbalzò come colpito. Le lacrime gli rigarono il viso; si alzò di scatto e scappò in cameretta, sbattendo la porta.
Natasha rimase pietrificata. Quelle parole le arrivarono come un pugno: “tuo figlio è un poveraccio”. Da tre anni Maksim lo chiamava “papà”.
— Come hai potuto? — la sua voce uscì bassa, tagliente. — Come ti permetti di parlare così di mio figlio?
— E allora? — fece Sergej, fissando il piatto. — Deve sapere qual è il suo posto.
— Bravo, Sergej — approvò la suocera, soddisfatta. — Era ora che capisse chi comanda.
Natasha si alzò lentamente. Gli anni di piccole umiliazioni, il gelo con cui trattavano Maksim, quella pressione continua: tutto le ribollì dentro.
— Valentina Petrovna, ha oltrepassato il limite — disse guardandola dritta. — Questa è casa mia e quello è mio figlio. Nessuno lo insulta.
— Casa tua? — ribatté lei con sufficienza. — L’appartamento è intestato a mio figlio. Qui comanda lui, non tu.
— Sergej, dillo tu — implorò Natasha. — Hai sentito?
Lui tacque, capo chino.
— Mia madre ha ragione — mormorò poi. — Prendi troppo spazio. Maksim deve rispetto agli anziani.
— Rispetto? — gridò Natasha. — Hai appena chiamato “poveraccio” un dodicenne!
La cameretta restituiva singhiozzi soffocati. Il cuore di Natasha si spezzò.
— Non urlare — provò Sergej.
— Non osare dirmi di tacere — ribatté lei, senza arretrare.
— O fai l’uomo e il padrone di casa — intervenne calma la suocera — o ti lasci comandare da una donna.
— “Una donna”? — Natasha fece un mezzo sorriso amaro. — Sono tua moglie.
— Per ora — sibilò la suocera. — Continua così e non lo sarai a lungo.
La minaccia era limpida. Natasha capì che la loro pazienza era finita.
— Sapete che c’è? — disse piano. — Avete ragione: è ora di decidere.
Andò da Maksim. Lui era raggomitolato, il viso bagnato.
— Mamma, sono davvero un poveraccio? — sussurrò.
— No, amore mio. Sei brillante, gentile, coraggioso. Le parole di Sergej sono solo cattiveria.
— Possiamo vivere senza di loro? — chiese, serio.
Natasha esitò un battito, poi annuì.
— Possiamo. E ce la faremo.
— Allora mandiamoli via — disse. — Prima qui eravamo noi due soli.
Natasha tornò in soggiorno. Sergej e sua madre tacquero.
— Valentina Petrovna, è ora che andiate. Entrambi.
La suocera rise di scherno.
— Mi stai cacciando?
— Sì. E lo farò. Sergej, anche tu te ne vai.
— Sei impazzita? — scattò lui. — Dove vuoi che vada?
— Da chi ti è più caro — tagliò corto Natasha. — Se tua madre viene prima di noi, vivete insieme.
— Sciocchezze — s’intromise la suocera. — La casa è a nome di Sergej. Sarai tu a sloggiare.
— Ti sbagli — rispose Natasha, glaciale. — L’ho comprata io con i soldi della mia vecchia casa. L’abbiamo intestata a lui per comodità, ma ho tutti i documenti.
Il volto di Valentina Petrovna impallidì. Sergej guardava a terra.
— E non siamo sposati — aggiunse Natasha. — Sergej è solo un convivente. Posso chiudere questa storia quando voglio.
— Non sposati? — sgranò gli occhi la suocera. — Avevi detto che c’era stato il matrimonio!
Sergej chinò il capo. Natasha sorrise senza allegria.
— Tre anni di promesse, aspettando il vostro benestare, vero?
La suocera riprese fiato.
— Allora portiamo via quello che è suo: TV, frigo, lavatrice…
— Prendete tutto — disse Natasha. — Ci arrangeremo.
— Parliamone — provò Sergej. — Possiamo trovare un compromesso…
— Tre anni di compromessi — lo trafisse lei con lo sguardo. — Umiliazioni, indifferenza verso Maksim. E oggi quelle parole. Quali compromessi?
Sergej tacque. Valentina Petrovna, pur avendo capito di aver perso, sibilò:
— Te ne pentirai. Da sola, con un bambino, non reggerai.
— Meglio sola che permettere a qualcuno di umiliare mio figlio — rispose Natasha.
Un’ora dopo, le valigie erano allineate in corridoio. Valentina Petrovna imballava a scatti; Sergej, in silenzio, piegava le sue cose.
— Posso aiutare? — chiese Maksim, affacciandosi.
Aveva gli occhi arrossati ma asciutti. Natasha annuì. Lui iniziò a portare scatole.
— Non sperate di rimettere piede qui! — gridò la suocera già sulle scale.
— Non lo speriamo — disse Natasha. — Addio.
Sergej esitò sulla soglia.
— Possiamo ancora…
— No — lo interruppe lei. — Hai scelto. Vai.
La porta si chiuse. Natasha girò la chiave e rimase un attimo appoggiata, come se finalmente potesse respirare. Il silenzio che seguì fu diverso: pulito.
Maksim le si avvicinò e la abbracciò forte.
— Grazie, mamma. Sapevo che mi avresti difeso.
Lei gli accarezzò i capelli. Sapeva che non sarebbe stato facile: uno stipendio solo, abitudini da riorganizzare. Ma una certezza era granitica: nessuno avrebbe più umiliato suo figlio, nessuno lo avrebbe mandato in un angolo o lasciato a digiuno.
— Domani spostiamo i mobili — disse. — Riprendi la tua stanza.
— E il divano? — chiese lui, con un mezzo sorriso.
— In soggiorno. Uno spazio lo troviamo.
Gli occhi di Maksim s’illuminarono. Natasha guardò il tavolo vuoto, dove poco prima sedeva l’intera “famiglia”, e non provò rimpianto.
Perché famiglia non è chi condivide un tetto.
Famiglia è chi ti protegge.
E per questo, a tutto il resto, si può rinunciare.