«Su un treno regionale una sconosciuta mi ha lasciato tra le braccia un neonato e un sacchetto di denaro. All’epoca non immaginavo che, da quel gesto improvviso, la vita mi avrebbe insegnato una lezione indimenticabile.»

«Prendi», disse la ragazza, spingendomi tra le braccia un fagottino e subito dopo un pacchetto pesante e compatto. «Ti prego.»

Il treno regionale sobbalzò passando su una giunzione, e a stento riuscii a mantenere l’equilibrio con quel carico inaspettato. Il fagotto si mosse. Scostai il lembo della copertina e rimasi senza fiato: era un neonato. Vivo, caldo, con due enormi occhi castani che mi fissavano con una fiducia disarmante.

Advertisements

«Aspetta!» urlai, ma la ragazza si era già fatta largo tra i villeggianti carichi di borse e piantine, dirigendosi verso l’uscita.

Le porte si chiusero sibilando. La vidi appena mentre scendeva sulla banchina di una stazioncina sperduta, inghiottita dal crepuscolo di maggio. Il treno ripartì.

«Sergio, hai visto?» balbettai ancora incredula.

Mio marito, che stava risolvendo un cruciverba, alzò lo sguardo, poi guardò il piccolo tra le mie braccia. «Ma che stai strillando? Cos’hai lì?»

«Una donna… me l’ha messo in mano ed è fuggita!»

I passeggeri iniziarono a girarsi curiosi. Un’anziana di fronte scosse il capo: «Un trovatello. Bisogna avvisare la polizia.»

Il bimbo sospirò e appoggiò la guancia sulla mia giacca. Profumava di latte e di un dolce aroma di talco. Dal pacco arrivò un fruscio.

«Forse dovremmo vedere cosa c’è dentro», propose Sergio.

Aprì e impallidì. Dentro c’erano mazzette di banconote ordinate, legate con elastici, e un biglietto: «Si chiama Timofej. Nato il 3 marzo. Perdonateci.»

Alla nostra fermata mancavano ancora quaranta minuti. Quaranta minuti in cui tenni tra le braccia un bimbo sconosciuto, senza sapere che fare. Sergio cercava di chiamare la polizia, ma il segnale spariva continuamente.

«Pronto? Sì, ci hanno lasciato un bambino… pronto?»

Timofej intanto si addormentava sereno, il respiro leggero. Al polso portava un filo rosso con una piccola croce d’oro.

«Appena arriviamo, andiamo dritti in commissariato», decretò Sergio.

Ma a Lugovaja il distretto era chiuso; sulla porta un cartello: «Il più vicino ufficio aperto si trova nel capoluogo, a trenta chilometri.»

«Torniamo a casa», dissi stringendo il piccolo. «Domattina ci penseremo.»

Sergio annuì, portando il pacco verso l’auto. Viaggiammo in silenzio, illuminati solo dai fari che rischiaravano i tronchi di betulla. Sembrava che qualcuno si muovesse tra gli alberi. Forse era la stessa ragazza che ci aveva affidato il figlio?

A casa adagiai Timofej sul tavolo, lo liberai con delicatezza: era pulito, vestito bene. In una taschina trovai un altro biglietto: «Nessuna allergia. Mangia latte in polvere Nutrilon.»

«Senti…», Sergio stava contando le banconote, sconvolto. «Qui c’è una fortuna. Basterebbero per una casa.»

Il piccolo si svegliò e piagnucolò piano, come scusandosi. Lo presi e si quietò accoccolandosi sul mio maglione.

Fu così che iniziò un nuovo capitolo della nostra vita.

La mattina successiva gli preparai il biberon — avevo trovato il latte speciale nel negozietto del paese — quando arrivò l’agente Petrovic.

«Fatemi vedere il trovatello», disse sedendosi. Non era la prima volta che affrontava un caso simile.

Mentre Sergio spiegava l’accaduto, un nodo mi stringeva lo stomaco: lo avrebbero portato via.

«C’era un biglietto? E i soldi?», chiese grattandosi la nuca. «Ora parte la trafila. Prima all’orfanotrofio, finché la madre non si fa viva.»

«E se lo tenessimo noi?» le parole mi uscirono di getto.

Petrovic aggrottò la fronte. «In che senso?»

«Lo accoglieremmo finché voi fate le ricerche.»

Sergio mi guardò sorpreso. Eravamo sposati da cinque anni senza figli, e i medici non avevano trovato motivi. Ma il destino aveva scelto così.

«Non si può. Servono documenti, la tutela…» borbottò l’agente.

«Petrovic, sii umano», intervenne Sergio offrendogli una bottiglia di samogon.

Tre ore dopo, con le guance arrossate, l’agente uscì sorridendo e diede una pacca sulla spalla di mio marito: «Chiama Nadežda Pavlovna dell’affido. Dirle che sono intervenuto io. Ha un cuore d’oro.»

Nadežda Pavlovna arrivò dopo qualche giorno. Donna anziana, occhi gentili ma stanchi, ispezionò la casa e il frigorifero.

«Va bene, le condizioni ci sono. Ma la burocrazia è burocrazia. Faremo una tutela temporanea; se la madre non ricompare, ci sarà il tribunale.»

«E il denaro?» chiese Sergio.

«Quali soldi?» lo fulminò oltre gli occhiali. «Con il bambino non c’era nulla. Così annotiamo.»

Ci guardammo in silenzio: il pacco sarebbe rimasto nascosto in cantina tra i barattoli.

Passarono mesi di vita semplice, ma con un bambino. Timofej cresceva: a tre mesi si girava, a cinque sedeva aggrappandosi alle mie dita. La vicina Njura mi insegnava a fasciarlo, fare il bagnetto, preparare le pappe.

«È un bimbo forte», sorrideva. «Sembra proprio vostro.»

La sera io e Sergio sistemavamo la cameretta, pitturando, costruendo mensole per giocattoli che ancora non avevamo.

«E se lei tornasse?» chiese un giorno mio marito.

Scossi il capo. Quella ragazza non ricomparve. Petrovic controllò i filmati: solo volti sfocati.

«Avrà pensato almeno al bambino», sospirò.

Io, però, ricordavo bene i suoi occhi nel buio del vagone: sapeva quello che faceva.

Arrivò l’autunno e con esso i documenti per la tutela. Timofej ormai gattonava, rideva alle smorfie di Sergio. E un giorno, puntando il dito verso di lui, disse:

«Papà.»

Sergio rimase immobile, il cucchiaio sospeso. Poi il suo volto si illuminò di gioia: aveva atteso quella parola per tutta la vita.

Quella sera decidemmo: avremmo lottato per adottarlo.

Passarono gli anni.

«Mamma, ho deciso», disse Timofej, ormai diciottenne. «Mi iscrivo a Lettere. Voglio insegnare letteratura.»

Aveva gli occhi scuri e il mento ostinato della madre biologica. Tutto il resto era nostro: le abitudini, i gesti, l’amore per i libri.

«È una splendida scelta», sorrisi.

«Ho fatto un sogno strano», continuò. «Ero su un treno e una donna mi affidava qualcosa di prezioso.»

Io e Sergio ci scambiammo uno sguardo. Gli avevamo raccontato la verità a sedici anni. Ci abbracciò forte: «Voi siete i miei veri genitori.»

I soldi gli raccontammo più tardi. Erano ancora custoditi a suo nome. Una somma capace di cambiare il suo futuro.

«Li userò bene», promise. «Magari aprirò una scuola. O una biblioteca qui.»

Era sempre stato speciale: a cinque anni leggeva, a sette scriveva poesie, dirigeva un teatrino con i coetanei.

Una mattina d’estate, tutta la famiglia a colazione. Il gatto Barsik III si strusciava, il cane Druzhok chiedeva una frittella.

«Mamma, non ti sei mai pentita? Di non avermi affidato all’orfanotrofio?»

Lo guardai negli occhi: il modo in cui teneva la tazza, il libro di Brodskij in tasca. «Mai.»

«E se lei fosse tornata?»

Per anni quella domanda mi ha fatto tremare. Poi la paura è svanita.

«Le avrei detto grazie. Per averti affidato a noi.»

Tim annuì e riprese a mangiare. In autunno sarebbe andato a studiare in città. Per noi, però, sarebbe rimasto per sempre il bimbo trovato sul treno.

Anni dopo.

«Chiudi gli occhi, mamma. Papà, tu non sbirciare», disse Tim, ormai adulto.

Seguimmo il suo invito. L’aria profumava di legno fresco, il rumore della ghiaia sotto i piedi.

«Apri!»

Davanti a noi una casa nuova: grande, luminosa, con una veranda accogliente.

«Questa è per voi», disse abbracciandoci. «Ricordate quei soldi? Li ho spesi bene.»

Aveva ventotto anni, insegnava letteratura, sposato con Katja, insegnante di storia. Lei era incinta.

Il cerchio si chiudeva: quel bambino affidato da una sconosciuta ora stava per diventare padre.

La sera, intorno al nuovo tavolo, tra libri, risate e il canto degli usignoli, Tim disse: «A volte penso a quella donna. Vorrei dirle che tutto è andato bene. Che sono cresciuto felice. E grazie, per avermi dato una famiglia.»

E aveva ragione: tutto era andato davvero bene.

Advertisements