Non appena la vecchietta intonò il canto, Ivan si irrigidì: in quel timbro riconobbe la voce della madre, scomparsa quarantacinque anni prima.

Ivan se ne stava all’uscita della metropolitana, schiena al muro, per ripararsi dalla pioggerellina testarda di quell’autunno svuotato di colori. Da più di un’ora gli spilli d’acqua graffiavano facce e cappotti; il vento fischiava tra i palazzi, strappava gocce agli ombrelli e gliele scagliava contro. Tutto intorno era cenere: pareva che la vita avesse perso la tinta. La gente passava in fretta, capo chino, lasciando scie di pozzanghere e di fretta.

In un angolo, proprio davanti al sottopassaggio, sedeva su una cassa di legno infangata una donna. Un’anziana avvolta in un cappotto consumato che forse un tempo era stato blu, ora ridotto al grigio della polvere. Ai piedi, stivali di gomma spaiati, uno con la tomaia slabbrata. Le mani tremavano non per il freddo, ma per la presa: reggevano una fisarmonica vecchia, però lucidata con cura. All’improvviso cominciò a cantare.

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La voce, limpida e profonda, come se non conoscesse né età né ferite, squarciò il rombo della città. Non era solo un motivo: era un ricordo. Una ninna nanna russa, la stessa che la madre di Ivan gli sussurrava ogni sera, seduta al bordo del letto, accarezzandogli i capelli e posandogli un bacio sulla fronte. Ivan si pietrificò; il respiro si fece corto, il cuore si serrò. Nel fondo della memoria, in un angolo buio e dimenticato, qualcosa tornò a pulsare.

Sua madre era scomparsa quarantacinque anni prima. Lui ne aveva sei. «Vado a prendere il pane», aveva detto. Non tornò più. Annunci sui giornali, polizia, sussurri di vicinato, lacrime della nonna: nulla. Il tempo aveva fasciato la ferita, senza rimarginarla. Per anni Ivan si era rassegnato all’idea di non conoscere mai la verità. Ora quella voce, così familiare eppure impossibile, sembrava il passato che lo chiamava per nome.

Si avvicinò piano, come per non spezzare l’incanto. La donna cantava a occhi chiusi, tutta raccolta in quella melodia semplice e lacerante. Il volto era un reticolo di rughe. Nelle pieghe delle palpebre e delle labbra, però, Ivan riconobbe un tratto indecifrabile e familiare: qualcosa che non si spiega, si sente.

D’un tratto lei aprì gli occhi. Si guardarono. Il silenzio cadde come un panno pesante. A Ivan mancò la voce, come se tutte le parole si fossero sciolte nella pioggia.

«Mamma?» mormorò, bambino di colpo, strozzando il fiato.

Le sue mani sobbalzarono; l’accordo si spezzò a metà. Abbracciò lo strumento al petto, lo fissò a lungo. Non parlò, non mosse un muscolo: solo uno sguardo. Poi una lacrima, grave come una memoria, le rigò la guancia.

«Vanečka?» sussurrò, cercando nel suono del nome un appiglio di memoria.

Ivan si inginocchiò sull’asfalto bagnato senza accorgersene. La strinse forte, come quando credeva che la presenza della madre fosse un talismano contro ogni rovina. I passanti sparirono, il rumore di passi svanì, la pioggia non esisteva più. Le notti passate a chiedersi perché fosse rimasto solo, perché l’amore di una madre avesse potuto dissolversi, si assottigliarono fino a niente. Restarono soltanto loro: due anime perse nel tempo che si ritrovavano.

«Com’è possibile?» sussurrò, stringendo quelle dita fragili. «Dove sei stata tutti questi anni?»

La donna tremò — per freddo, o per i ricordi che risalivano come ombre.

«Non ricordo…» disse alla fine, abbassando lo sguardo. «Per molto tempo non ricordavo nulla. Mi sono svegliata in ospedale con un nome diverso. Dissero: amnesia, un colpo alla testa. Poi un istituto, poi la strada. Sapevo che cercavo qualcuno, ma non sapevo chi. Solo questa canzone non mi ha mai lasciata. La cantavo per reggermi in piedi.»

Un nodo salì alla gola di Ivan. Aveva sognato quell’incontro in mille versioni; non aveva mai creduto che potesse accadere davvero. Eppure lei era lì, viva: la madre che pensava perduta.

«Perché qui? Perché da sola?» domandò con un filo di voce.

«Non avevo un posto dove andare, figlio mio,» rispose piano. «Senza documenti non potevo neppure chiedere la pensione. Cantare era tutto ciò che mi restava. Speravo di recuperare almeno un briciolo di vita.»

Ivan si alzò di scatto, deciso come chi non intende più delegare il destino.

«Vieni con me. Adesso. Avrai una casa, calore, cure. Non sarai più sola.»

L’anziana pianse, ma fu un pianto diverso: non di abbandono, di ritrovamento.

«Credevo d’essere morta per tutti…» singhiozzò.

«Io ho bisogno di te,» disse Ivan, e ogni sillaba fu una promessa. «Sei la mia mamma. Resterai con me.»

Le posò la giacca sulle spalle, la abbracciò, la sollevò dalla cassa e la accompagnò verso l’auto, con la cautela con cui si guida un bambino attraverso strisce scivolose.

Dietro, solo sguardi stupiti, qualche moneta nella scatola, e il peso muto di quarantacinque anni sospeso nell’aria come polvere invisibile.

Una settimana dopo, la donna aveva una stanza, un medico, pasti caldi. Malgrado l’età e le privazioni, la vita le ritornava addosso: dormiva a lungo, mangiava con prudenza, e non lasciava mai la mano di Ivan, nemmeno nel sonno.

Una notte sussurrò: «Ricordo… un vicolo… un uomo. Mi ha chiesto qualcosa… poi un colpo. Poi buio.»

Quelle parole colpirono Ivan. Rivide se stesso alla finestra, le macchinine sul davanzale, la madre che diceva «Torno col pane», il sorriso, il cappotto. Giù, un urlo. Allora non aveva capito; ora i pezzi combaciavano.

Il giorno seguente rovistò tra carte vecchie sul balcone. Trovò una pratica col nome della madre: “Rinvenuta dispersa, Samarina Lidia Nikolaevna”. Contattò l’ispettore dell’epoca, ormai anziano.

«Un sospettato c’era,» ammise l’uomo, sistemandosi gli occhiali. «Ma le prove mancavano. La pista si spense. E lei, perché adesso?»

Ivan non rispose. Ingaggiò un investigatore privato. Un mese più tardi seppe che l’uomo che aveva colpito sua madre era morto in carcere per un altro reato. L’aveva scambiata per un ricattatore; il colpo le aveva rubato la memoria. Aveva vissuto sotto un nome non suo finché, decenni dopo, il motivo ostinato di una canzone non aveva bussato alla porta della mente.

Ivan pianse leggendo il fascicolo: non di rabbia, non di dolore puro, ma di lucidità. Capì che il peggio non è morire, è restare vivi convinti di non essere mai stati amati.

Col tempo, però, notò crepe sottili: la voce, pur simile, aveva un’ombra diversa; qualche volta lei lo chiamava con un altro nome; nominava luoghi che non esistevano. Ivan scelse di non vedere, attribuì tutto allo stress, alla strada, all’amnesia.

Finché un giorno tirò fuori l’album di famiglia. «Eccoti,» disse indicando una foto di una giovane dal sorriso caldo. «Ti riconosci?»

La donna guardò la foto, poi lui. Sorrise — non più come una madre, ma come qualcuno che sceglie la verità con delicatezza.

«Non sono io, Vanečka,» disse. «Non sono la persona che cerchi.»

La terra oscillò sotto i piedi di Ivan.

«Ma… cantavi la mia ninna nanna.»

«L’ho imparata anni fa,» annuì. «La sentivo nei sottopassaggi, nelle stazioni. C’era una signora che piangeva mentre la cantava. L’ho tenuta a mente perché desideravo che qualcuno ascoltasse, che qualcuno ricordasse.»

Ivan non seppe che cosa sentire: sollievo, rabbia, delusione. Tutto insieme. La guardò e capì: no, non era sua madre. Ma gli aveva restituito la possibilità di credere, aveva acceso una luce nel buio, era entrata nella sua vita.

«Perché non me l’hai detto prima?» chiese piano.

«Tu non me l’hai chiesto,» rispose. «Nel mio canto hai raccolto ciò di cui avevi bisogno. Non volevo spezzare la tua fede. Anch’io ero sola. E tu mi hai dato una casa.»

Ivan tacque, poi la strinse come si fa con una madre.

«Non sei mia madre di sangue,» disse. «Ma lo sei diventata nel cuore. Resta.»

Piansero entrambi: lei di gratitudine; lui perché capì che, a volte, il destino non ci porta chi aspettiamo, ma chi ha bisogno di noi.

Non sempre il sangue fa famiglia. A volte bastano un incontro casuale, una voce sconosciuta, una fisarmonica lucidata e una canzone capace di risvegliare ciò che nemmeno la morte cancella. Ora avevano un tetto, una luce e l’un l’altro. Non legati da documenti, ma dallo spirito. E questo, per loro, bastava.

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