«Ma guarda un po’, sembra proprio una saputella!» – la deridevano le infermiere, prendendo di mira quella giovane ausiliaria che aveva avuto l’ardire di interrompere il consulto dei medici. Eppure, appena una settimana dopo, quelle stesse colleghe non facevano che ripensare al suo gesto con un bruciore d’invidia: ciò che all’inizio era sembrata presunzione si era rivelato, invece, puro coraggio.

Quando Alëna varcò per la prima volta le porte dell’ospedale cittadino n. 7 come semplice ausiliaria, nessuno le fece una vera accoglienza. Giovane, esile, con un camice consunto e due occhi grandi e timidi, sembrava fuori posto in quell’universo di corridoi affollati, voci dure e passi sbrigativi. Il suo modo di parlare, sempre educato e rispettoso, venne scambiato per ingenuità.

«Ma guarda un po’, la saputella!» sbottò Svetlana Petrova, la caposala, quando Alëna — sbagliando strada — finì nel bel mezzo di un consulto medico. «Vuoi forse fare anche tu la dottoressa?»

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Risero tutte, fragorosamente. Alëna si fece rossa fino alle orecchie. Avrebbe voluto rispondere, ma preferì abbassare lo sguardo, scusarsi e uscire.

Quella sera, come ogni sera, andò a trovare Valentina Ivanovna, una paziente colpita da ictus. La donna le strinse la mano con dolcezza e sussurrò:
«Tu non sei solo un’ausiliaria. Per me sei come una nipote.»

Alëna pianse in silenzio, non per l’umiliazione subita, ma perché erano le prime parole davvero sincere e calde che riceveva da tempo.

Nessuno sapeva che, prima di quel lavoro, aveva accudito sua madre — neurologa stimata — per tre lunghi anni, fino alla fine della sua battaglia contro il tumore. Aveva rinunciato al sogno di studiare medicina per starle accanto. Dopo il funerale, era entrata in ospedale quasi per istinto: per non sentirsi inutile.

Un giorno, durante il giro del primario, fu proprio Valentina a puntare il dito verso di lei:
«Questa ragazza mi ha salvata.»

Il professore sgranò gli occhi.
«Com’è possibile?»

«Quando la mia mano si paralizzò e il viso si piegò, fu lei la prima a capire. Mi prese in braccio e mi portò di corsa all’ambulatorio. Se non ci fosse stata, non sarei qui.»

Il primario fissò Alëna a lungo.
«Ha riconosciuto i segni di un ictus?»

«Sì… li conoscevo già. Mia madre ne aveva avuto uno.»

Pochi giorni dopo, la chiamarono nel suo ufficio. Le colleghe erano convinte che l’avrebbero licenziata. E invece, dopo una settimana, nei corridoi correva voce che l’ospedale le avrebbe finanziato gli studi di medicina.

Tre anni più tardi, nello stesso ospedale comparve una giovane specializzanda: sicura, luminosa, lo sguardo limpido. Solo allora le infermiere la riconobbero.
«Alëna?»

«Ora sono la dottoressa Viktorovna, neurologa. Ma per voi resto semplicemente Alëna.»

Persino la caposala Petrova la abbracciò senza parole.

Da allora lavorò instancabile, spesso su due turni. I pazienti la cercavano perché sapeva ascoltare, sapeva stare accanto. Continuava a visitare Valentina Ivanovna, la donna che aveva cambiato il suo destino. Quando nessuno più sperava, Alëna le teneva la mano e le parlava come a una nonna amata, fino al giorno in cui la donna aprì gli occhi e sussurrò:
«Sei venuta?»
«Certo. Non ti lascerò mai.»

Poi arrivò Sonja, una bambina di sei anni massacrata dalla violenza domestica e abbandonata dalla madre. Alëna vegliò su di lei, le lesse favole, le portò dolci, le tenne la mano nei sogni agitati. «Non lasciarmi» le disse una notte la piccola. Due mesi dopo, Alëna la adottò. «Senza marito?» le chiesero le colleghe. «Non serve. Il mio cuore è già pieno.»

Negli anni, salvò vite che sembravano perdute, restituì dignità a chi non ne aveva più, raccolse lacrime silenziose nei corridoi. Fondò un servizio di supporto per il personale più fragile, perché nessuna giovane infermiera dovesse piangere di nascosto come era capitato a lei.

Crescendo, Sonja la chiamava «mamma» con una gratitudine che nessuna ferita avrebbe più cancellato. «Io non ti ho partorita, ma ti ho vissuta» le diceva Alëna. «E se potessi, ti sceglierei ancora.»

Anni dopo, quando ormai era vicedirettrice dell’ospedale, ricevette una ragazzina spaesata che voleva diventare ausiliaria. Le mise tra le mani il suo vecchio camice, macchiato di sudore e candeggina. «Questo camice ha visto dolore e speranza. Ora tocca a te.»

Poco tempo dopo, Alëna si spense nel sonno, con un lieve sorriso sulle labbra.

Al funerale, i corridoi dell’ospedale si svuotarono: vennero medici, infermieri, addetti alle pulizie, pazienti e sconosciuti. Sulla lapide, nessun titolo, solo una frase:
«Non salvava solo corpi, ma anime.»

Anni dopo, nel reparto pendeva una targa con le sue parole:
«Chi lava il pavimento accanto al letto di un morente è spesso più vicino a Dio di chi vi sta accanto con un diploma in tasca.»

E quando la ragazzina divenuta adulta indossò quel camice, capì che ora toccava a lei portare la luce dove c’era buio.

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