Un anno dopo la morte di mia madre, tornai nella casa in cui ero cresciuta, ma non era più la stessa. Accanto alla porta c’erano le mie valigie. Dentro, sul divano del soggiorno, una sconosciuta si spaparanzava avvolta nella vestaglia di mia madre.
Aveva l’aria di chi si sente a casa propria. «Finalmente sei arrivata,» mi disse con un sorrisetto sprezzante. «Pensavamo che te ne fossi già andata.»
Ma non aveva capito una cosa fondamentale: quella casa non era sua. E nemmeno di Rick, l’ex compagno di mia madre. Era mia.
Spinsi la porta e lasciai che la mia valigia rotolasse dietro di me. L’aria era intrisa di un odore stantio di fritto misto a profumo scadente. In un attimo mi mancò il respiro: quel posto non assomigliava più a casa.
Due valigie vicino all’ingresso, le mie. Mi gelò il sangue. Nessun segno di effrazione, nessun disordine. Solo la certezza che qualcuno si fosse comodamente stabilito nella mia vita.
Poi udii la televisione accesa. Entrai in salotto e rimasi senza fiato. Sul divano, quella donna – le gambe accavallate, il bicchiere di vino in una mano, il telecomando nell’altra – stava zappando tra i canali con una familiarità irritante. Ma il colpo più duro fu vederla indossare la vestaglia di mia madre.
Mi guardò come si guarda un disturbo, un imprevisto.
«Oh, sei tornata. Pensavo di avere ancora un po’ di tempo.»
«Chi sei?» chiesi con tono tagliente.
«Vanessa. Piacere. Sono la fidanzata di Rick.»
Rick. L’uomo che mia madre aveva amato e che io, per rispetto verso di lei, avevo lasciato restare dopo la sua morte.
«Dov’è Rick?» chiesi, la mandibola serrata.
«È uscito. Torna tra poco. Ma ha detto che dobbiamo parlare. Vedi, ci serve questo posto… tu capisci, no?»
Le parole mi rimbombavano in testa come un’eco lontana. Ma io capivo solo una cosa: quella era casa mia.
«Questa casa è mia,» dichiarai a bassa voce.
Vanessa rise, sprezzante. «Dai, su. Rick è stato gentile a lasciarti restare finora. Ma sei grande ormai. È ora che spicchi il volo.»
«Rick non possiede nulla di tutto questo,» risposi gelida.
Lei scrollò le spalle. «Non preoccuparti, tra poco arriva l’avvocato. Ti spiegherà tutto.»
Il mio cuore tamburellava nel petto, ma all’esterno ero marmo. Vanessa cercava una reazione – una crisi, delle lacrime, qualcosa da usare contro di me. Ma non le diedi nulla. Mi limitai a sedermi di fronte a lei.
«Aspetterò.»
Il suo sorriso vacillò. Appena.
La mia mente tornò all’ospedale. Mia madre, stanca ma lucida, mi stringeva la mano: «La casa è tua, amore. Tutto è in ordine. Non devi preoccuparti.»
Avevo annuito, anche quando mi aveva chiesto di non cacciare Rick subito. «Ha bisogno di tempo,» aveva sussurrato.
Tempo. Gli avevo dato mesi. Troppi. Aveva trasformato il mio dolore in una scusa per appropriarsi di ciò che non gli spettava.
Avevo sperato che se ne sarebbe andato da solo. Ma eccoci qui, con una sconosciuta che usava la vestaglia di mia madre come fosse un trofeo.
Poco dopo, Rick rientrò. L’atteggiamento era quello di chi si crede in controllo. Mi diede un bacio sulla guancia come se fossi una parente distante.
«Hai saputo la novità,» disse compiaciuto.
Vanessa rise. «E non ha nemmeno fatto una scenata!»
Rick si sedette accanto a lei. «Non rendere le cose difficili. Andartene è la cosa giusta da fare.»
Il campanello suonò. Mi alzai. «Sarà l’avvocato.»
Aprii la porta. Un uomo distinto entrò con passo deciso. Teneva una cartellina e si rivolse subito a me.
«Avvocato Thompson. Ero il legale di sua madre. Lei è l’unica intestataria della casa. I documenti lo confermano.»
Rick impallidì. «Aspetti… cosa?»
«Tutto è intestato a sua figlia,» proseguì l’avvocato, indicando me. «Lei non ha alcun diritto legale su questa proprietà.»
Vanessa si alzò di scatto. «Rick mi aveva detto che era sua!»
Rick balbettava. «Io… credevo…»
«Mi hai mentito?!» gridò lei, afferrando la borsa. «Mi hai trascinata qui come se fossi la tua regina… e invece sei solo uno squattrinato abusivo!»
Mi guardò, stavolta senza scherno. Solo vergogna.
«Me ne vado.»
Rick provò a fermarla. «Tesoro, aspetta—»
«Non chiamarmi così!»
Quando la porta si richiuse dietro di lei, Rick si rivolse a me. «Senti, possiamo parlarne… ho vissuto qui per un anno. Conta qualcosa, no?»
«Conta eccome,» disse l’avvocato. «Lei ha occupato questa casa senza alcun contratto. Può essere denunciato per occupazione abusiva.»
Mi girai verso l’avvocato. «Possiamo procedere legalmente?»
Rick impallidì. «Ehi, aspetta. Possiamo trovare un accordo.»
Un altro bussare. L’avvocato aprì. Due agenti in divisa entrarono.
«Signore,» disse uno, «ha 24 ore per lasciare l’abitazione.»
Rick si agitò. «Ma dove dovrei andare?»
«Non è affar mio,» risposi. L’agente fece un passo avanti. «Le conviene iniziare a fare i bagagli.»
Quella notte lo sentii muoversi tra scatole e armadi, borbottare tra sé, sbattere cassetti.
Mi aspettavo di sentirmi trionfante. Invece mi sentivo vuota. Esausta.
Mi svegliai nel cuore della notte. Silenzio.
Per la prima volta dopo un anno, casa mia era davvero solo mia.
Mi sedetti in soggiorno. Nessuna voce estranea, nessun rumore molesto. Solo pace.
Tornai accanto al camino. Riposizionai la foto di mamma, ritrovata nascosta dietro una scatola di biscotti vuota. Accarezzai la cornice con un dito tremante.
«Ce l’ho fatta, mamma,» sussurrai.
Molti pensano che la gentilezza sia debolezza. Ma dire basta è stata la mia forza. E con quella forza mi sono ripresa ciò che era mio.