Avevo 38 anni quando i miei genitori adottivi sono venuti a mancare. Essendo figlio unico, spettava a me occuparmi di tutto: casa, bollette, documenti, ricordi. Non è stato facile affrontare il dolore e la burocrazia insieme, ma mi sono fatto forza. L’idea era quella di trasferirmi nella loro casa: ora era mia, e mi avrebbe permesso di risparmiare sull’affitto.
Fu durante una di quelle giornate di pulizie e scatoloni che trovai qualcosa destinato a stravolgere la mia esistenza. In fondo a un armadio, in una vecchia scatola polverosa, scoprii una busta sigillata con il mio nome. Non l’avevo mai vista prima. Dentro c’era una lettera… e i miei documenti di adozione.
A 38 anni, scoprii per puro caso di essere stato adottato.
I miei genitori non me ne avevano mai parlato. Nemmeno un accenno. E da come era tutto nascosto, non sembrava nemmeno che intendessero farlo un giorno.
Sul retro di uno dei fogli c’era scritto un nome. Il nome della mia madre biologica. E un indirizzo: San Antonio, Texas.
Per mesi rimasi in bilico tra il desiderio di conoscerla e la paura di farlo. Alla fine, acquistai un biglietto aereo, la cercai sui social, e scoprii dove lavorava. Una caffetteria. Barista e cameriera.
Mi ci vollero giorni per trovare il coraggio di andarci. Quando finalmente entrai, il cuore mi batteva come un tamburo. La vidi subito: stava dietro al bancone, intenta a versare caffè con la delicatezza di chi ha fatto quel gesto mille volte.
Era più minuta di quanto immaginassi. I suoi occhi, grandi e scuri, avevano una dolcezza malinconica. Non aveva idea di chi fossi.
Mi sedetti in un angolo, cercando di raccogliere il fiato. Lei passava tra i tavoli sorridendo ai clienti. Ero lì, a pochi metri da lei, e non riuscivo a parlare.
Poi accadde qualcosa di strano. Sentii la sua voce, chiara e decisa:
— “Camilo, portami un altro cartone di panna di mandorla, per favore!”
Il tono era fermo ma gentile. Nonostante il trambusto del locale, c’era qualcosa di familiare nel suo modo di parlare. Un ragazzo giovane, probabilmente il cameriere, le fece un cenno e corse a darle una mano.
Lei mi lanciò uno sguardo distratto, come si fa con qualsiasi cliente. Mi fece un piccolo cenno con la testa. Nient’altro. Non mi riconobbe, ovviamente. E io, paralizzato, non dissi nulla.
Mi alzai e andai al bagno. Mi sciacquai il viso, guardandomi nello specchio come a cercare una risposta. Quando uscii, mi scontrai con un uomo che stava entrando. Mi scusai subito.
— “Tutto bene?” — mi chiese con un sorriso gentile.
— “Sì, solo un po’ nervoso. Sono nuovo da queste parti.”
— “Vedrai che ti abituerai. Martina, la nostra barista, è un angelo. Fa sentire tutti come a casa.”
Martina. Sentire il suo nome così, pronunciato da uno sconosciuto, mi fece mancare il fiato. Era lei. Martina Delgado. La donna che mi aveva dato la vita.
Tornai al mio tavolo. Il caffè si era raffreddato, ma lo bevvi comunque, come per aggrapparmi a qualcosa di concreto.
La osservai ancora una volta. Poi feci un cenno timido. Lei si avvicinò.
— “Va tutto bene?” — chiese, appoggiandomi un tovagliolo.
Le mani le tremavano leggermente.
— “Ciao… scusa, hai un minuto?” — dissi, cercando di controllare la voce.
Mi guardò, un po’ sorpresa. Poi annuì.
— “Un minuto sì. Dimmi pure.”
— “Possiamo parlare fuori? Solo un secondo. C’è troppo rumore qui dentro.”
Martina esitò un attimo, poi fece cenno a un collega che sarebbe uscita. Ci ritrovammo sotto il sole caldo del Texas, ma una brezza leggera rendeva l’aria più sopportabile.
Mi voltai verso di lei. Il cuore in gola. E finalmente parlai:
— “Mi chiamo Ramón. So che può sembrare assurdo… ma credo di essere tuo figlio.”
Per un istante non disse nulla. La sua espressione passò dallo stupore alla confusione, e poi a qualcosa di più profondo. Di più fragile.
— “Mi scusi?” — sussurrò.
Estrassi i documenti, piegati con cura. Glieli mostrai.
— “Sono stato adottato da neonato. Non ho molto, solo il tuo nome, l’indirizzo. E questa… certezza che devo trovarti.”
Martina impallidì, portò una mano alla bocca, come per contenere un’emozione troppo grande. Sembrava sul punto di crollare. Poi, finalmente, parlò.
Ma quella… è un’altra storia.