Ol’ga Vasil’evna, chirurga di grande fama, il cui nome era conosciuto e rispettato da colleghi e pazienti, aveva appena terminato un’operazione estremamente delicata. Uscì dalla sala operatoria barcollando, non per nervosismo, ma per l’esaurimento totale. Ogni muscolo le faceva male dalla fatica, ma il suo volto rimaneva serio e concentrato, come sempre. Dietro di lei correva Tamara, un’infermiera snella e vivace, dagli occhi brillanti e dal profilo deciso. Avvicinandosi rapidamente, le parlò sottovoce, quasi temendo di rovinare quel momento solenne:
— Ol’ga Vasil’evna, ancora una volta avete compiuto un miracolo! Come fate? La vostra è più arte che medicina!
— Tamara, evita i complimenti inutili… — rispose Ol’ga con un lieve sorriso, ma la stanchezza era evidente nella sua voce. — Ho bisogno di riposare. Assicurati che nessuno mi disturbi per almeno un’ora. Niente telefonate, niente bussate.
Ol’ga non era chirurga solo per lavoro, ma per vocazione. Fin dai tempi dell’università, il suo talento era stato evidente. Il professor Rezin, chirurgo stimato, aveva riconosciuto in lei una capacità speciale: riusciva a vedere dettagli che sfuggivano agli altri. La volle nella sua clinica appena terminati gli studi, e non se ne era mai pentito: Ol’ga salvava vite anche quando sembrava impossibile.
Tamara, invece, conosceva tutti i pettegolezzi dell’ospedale. Sapeva, ad esempio, che Sergej Ivanovič — primario di chirurgia e marito di Ol’ga — non nascondeva il suo interesse per le donne. Se una collega passava davanti a lui, si girava sempre a guardarla. Di recente, la sua attenzione si era spostata sulla nuova anestesista, Nataša, arrivata da poco nel reparto.
Nataša era una donna vivace, disinvolta e ironica, con un grande senso dell’umorismo, l’opposto di Ol’ga, sempre composta e concentrata, a volte fredda, al punto da mettere a disagio anche i chirurghi più esperti.
Il problema, però, era più profondo. Sergej invidiava la moglie. Pur essendo un chirurgo esperto con centinaia di operazioni alle spalle, viveva nell’ombra di Ol’ga. Non capiva come lei potesse rifiutare ringraziamenti, regali e denaro — quei doni che i pazienti portavano con le lacrime agli occhi.
— Ol’, vuoi forse che piangano per te? — gli aveva detto una volta, lanciandole con rabbia una scatola di cioccolatini. — Loro vogliono darti qualcosa, è naturale. E tu ti comporti come una santa!
— Non dire sciocchezze, Sergej — aveva risposto con calma. — Noi non abbiamo bisogno di tutto questo. A loro servono cure, medicine, riabilitazione. Ogni rublo conta. Siamo qui per salvare vite, non per arricchirci.
Ignara del fatto che lui, sfruttando il suo nome, accettava di nascosto quei “regali”, giustificandosi con il bene della famiglia, Ol’ga pensava che Sergej avesse compreso la sua posizione e si fosse calmato. In realtà, da tempo si sentiva perso accanto a lei. La sua passione si era trasformata in risentimento e cercava conferme altrove. Una nuova relazione per lui era un modo per sentirsi importante. Ol’ga viveva nel suo mondo fatto di amore, rispetto e lavoro condiviso, senza sapere che ormai era sola.
Il caso drammatico
Una domenica al pronto soccorso arrivò un uomo di circa cinquant’anni con una diagnosi gravissima, da operare d’urgenza. Di turno c’era Sergej Ivanovič, che, dopo aver letto la cartella, strappò alcune pagine senza accorgersi che Tamara lo stava osservando.
Avrebbe dovuto operare lui, ma chiamò Ol’ga:
— Ol’, vieni ad aiutarmi. Non mi sento bene, oggi non posso rischiare. Sei libera, vero?
Ol’ga accettò senza fare domande. Quaranta minuti dopo era già in sala operatoria, pronta ad intervenire. Controllò i documenti: tutto sembrava normale. Il paziente fu portato in chirurgia, ma presto emersero anomalie. Ol’ga chiese di parlare con Sergej, ma le fu risposto: “È andato a casa, sta male”.
Rimasta sola, decise di agire da sola. Fece tutto il possibile, ma l’uomo morì sul tavolo operatorio.
Seguì un incubo: accuse, indagini, convocazioni dal direttore sanitario. I colleghi la guardavano con sospetto. Ma il peggio fu il senso di colpa: era un’operazione di routine, eseguita centinaia di volte. Tutti i parametri erano nella norma. Perché era andata così?
Fu sospesa temporaneamente. Poi arrivò il verdetto ufficiale: “negligenza”. Le offrirono di dimettersi per non compromettere la reputazione della clinica.
Ol’ga era distrutta. Cercò aiuto nel marito, ma trovò solo un muro di gelo. Era diventato un estraneo.
Il tradimento scoperto
Tornata a casa, ignara di cosa l’aspettasse, trovò una scena che le gelò il cuore: Sergej abbracciato a Nataša. Le parole si bloccarono sulle sue labbra, ma riuscì a dire:
— Come hai potuto? Dopo tutto… come hai potuto farlo a me?
La voce tremava, gli occhi si riempirono di lacrime. Scoppiò in un pianto disperato: non era solo un tradimento, ma una pugnalata alle spalle.
Nataša tentò di alzarsi, ma Sergej la fermò:
— No, resta qui. Ho bisogno di te. Lei… — indicando Ol’ga — se ne vada. Non voglio un’assassina tra noi.
Ol’ga impallidì, come svuotata. Raccolse quel poco di dignità che le restava, fece le valigie in silenzio. Dieci minuti dopo era pronta a partire, consapevole che non sarebbe mai più tornata.
Un anno dopo
Ol’ga viveva in una piccola città di provincia, lontana dalla sua vecchia vita. Lavorava come ausiliaria sanitaria in un ospedale locale, affittava una stanza modesta in un vecchio dormitorio e teneva tutti a distanza. Aveva perso l’abitudine di parlare di sé, rifugiandosi nel lavoro e nella solitudine.
Una sera, tornando dal turno, vide nel parco un bambino rannicchiato su una panchina, con uno sguardo triste, vestito con abiti troppo grandi e logori. Si avvicinò con cautela e si sedette accanto a lui.
— Come ti chiami, piccolo? Perché sei qui da solo?
— Kirill… Sono scappato da Vanka. Lui picchia tutti noi che viviamo in una casa abbandonata… — sussurrò senza alzare lo sguardo.
Colpita, Ol’ga capì che quel bambino era senza protezione, abbandonato. Non poteva ignorarlo.
— Vieni con me? — propose — Ho da mangiare e un posto caldo.
Kirill annuì e le prese la mano. Quella notte, dopo una zuppa calda e una doccia, si addormentò nel vecchio divano-letto. Ol’ga lo guardò, stanca ma col cuore improvvisamente riscaldato: “Resterai con me. Per sempre”.
Il nuovo legame
In pochi giorni, Kirill imparò a usare le posate, a versarsi da bere e ogni mattina aspettava con impazienza il ritorno di Ol’ga dal mercato. Per lei fu una rivelazione: la fatica di gestire tutto si trasformava in gioia vedendo la felicità negli occhi di quel bambino.
— Grazie, zia Ol’ga! — le diceva abbracciandola con tenerezza. — Ti voglio tanto bene!
Spesso lo portava con sé al reparto: Kirill giocava nell’area di servizio senza disturbare nessuno. I colleghi conoscevano la sua storia e non obiettavano.
Il richiamo della vecchia professione
Un giorno arrivò un giovane con segni di peritonite in fase iniziale. Non c’era un chirurgo di turno: il terapista aveva già chiamato altri ospedali senza successo. Passando di lì, Ol’ga esclamò:
— Non è una semplice appendicite. Sta iniziando una peritonite. Bisogna intervenire subito.
— Tu? Un’ausiliaria? — le urlò un medico — Il tuo strumento è la scopa, non il bisturi!
Ma Ol’ga non si fermò. Si tolse il camice e, determinata, andò in sala medici:
— Se nessuno lo fa, opero io. Altrimenti il paziente muore. Ogni minuto conta.
Il direttore sanitario e un’infermiera la seguirono sbalorditi. Era chiaro che non stava bluffando. Pochi minuti dopo, Ol’ga era di nuovo in sala operatoria, muovendosi con la precisione e la sicurezza di un chirurgo. Salvò la vita al paziente.
Un’altra ingiustizia
La mattina seguente, il direttore la convocò:
— Si sieda, Ol’ga Igorevna. Perché non ha detto di avere esperienza come chirurga?
— Non volevo tornare al passato — rispose lei.
— Ho contattato la vostra vecchia clinica. Sergej Ivanovič, primario del reparto, ha rilasciato una recensione poco lusinghiera. Ha consigliato di non assumerla. Dobbiamo rispettare l’opinione di un’autorità così influente. Dovrà cercare un altro lavoro.
— Ma sono solo un’ausiliaria! Non ho mai ambito a altro! — disse incredula Ol’ga.
— Ha dimostrato di non poter restare nell’ombra. Come si dice, la verità viene sempre a galla. Comunque, il suo ex paziente Maxim sta meglio e oggi viene trasferito in una clinica privata.
Ol’ga si alzò lentamente, cercando di assimilare quelle amare parole.
— Sergej Ivanovič mi ha rovinato la reputazione? — rise amaramente — Beh, che ci si può aspettare da un arrivista. Presto la verità verrà a galla.
Così Ol’ga rimase di nuovo senza lavoro. Ma doveva reagire: per Kirill non poteva permettersi debolezze.
Comprò il giornale con gli annunci e in tre giorni trovò lavoro come guardiana notturna e qualche ora come addetta alle pulizie in un piccolo ente. Il lavoro era duro, ma accanto a lei c’era Kirjuša, pieno di storie, risate e meraviglia.
Il desiderio di gratitudine
Intanto Maxim, ripresosi, tornò in ospedale e chiese subito:
— Vorrei ringraziare chi mi ha salvato. Era un medico?
Il direttore scrollò le spalle:
— Non lavora più qui. Però…
Intervenne una signora anziana, Zinaida Michajlovna, ex collega di Ol’ga:
— So dove abita Ol’ga Igorevna. Se volete, ve lo dico. Se lo merita.
— Certo, grazie! — disse Maxim porgendole del denaro — Perché se ne è andata? Cosa le è successo?
Zinaida abbassò la voce e raccontò tutto, con calma, tra ricordi dolorosi.
L’incontro inaspettato
Quella sera Ol’ga e Kirill erano a casa: avevano cenato, giocato con i mattoncini e si erano messi a letto. Bussarono piano. Ol’ga aprì: c’era Maxim con un mazzo di fiori. Voleva ringraziarla, ma lei lo invitò a entrare in silenzio:
— Stai piano, Kirill dorme.
Offrì del tè e Maxim, dopo un attimo d’imbarazzo, disse:
— Avete un figlio?
— Sì — rispose lei, abbassando lo sguardo — ma la nostra storia non è semplice. Raccontami piuttosto di te.
Ci fu una lunga pausa, poi Maxim confessò:
— Anch’io avevo un figlio, si chiamava Kirill. L’ho perso e lo cerco da più di un anno…
Ol’ga lo ascoltò, poi chiese:
— Tua moglie si chiamava Nataša? Quella anestesista?
Maxim annuì, la voce rotta dall’emozione:
— Sì, ha abbandonato il bambino. L’ha lasciato a una zia anziana che non stava bene. Nessuna notizia di loro.
Aveva cercato il figlio ovunque, finché un malore non lo aveva portato in ospedale.
Allora Ol’ga capì tutto:
— Quindi la madre di Kirill sono proprio lei e Sergej Ivanovič?
Maxim annuì tristemente. Ol’ga sorrise amaramente:
— Che coincidenza… È lei la madre del mio Kirill.
Gli raccontò come aveva trovato il ragazzino solo, sporco e spaventato, e come alla fine fosse diventato suo figlio.
Lo condusse alla culla, nascosta da una tenda. Kirill dormiva tranquillo. Maxim si inginocchiò, timoroso di svegliarlo, e poi prese le mani di Ol’ga:
— Per voi e per lui darei tutto.
Ol’ga sorrise:
— Non voglio i tuoi soldi. Voglio solo che Kirill abbia un vero padre.
In quel momento il bambino si svegliò, guardò prima Ol’ga, poi Maxim, e gridò:
— Papà?! Sei proprio tu?!
Si gettò tra le braccia di lui con forza, come temesse di perderlo ancora. Maxim non riuscì a trattenere le lacrime.
Quando arrivò il momento di andarsene, Kirill si rifiutò:
— Non vado senza la mamma Ol’ga!
Ol’ga cercò di convincerlo, ma il bambino rimase fermo nella sua decisione. Così partirono in tre e, due giorni dopo, si trasferirono nella grande villa di campagna di Maxim. Una nuova vita iniziava da zero.
La giustizia tardiva
Qualche tempo dopo, il professor Rezin, che non aveva mai perso la speranza di salvare la sua migliore allieva, riuscì a far riaprire il caso grazie all’intervento di Tamara, testimone dello strappo delle pagine dalla cartella. Sergej finì sotto inchiesta penale e Ol’ga fu reintegrata ufficialmente come chirurga.
Sei mesi dopo, Sergej Ivanovič stava scontando la pena in un campo di lavoro e Nataša era sparita senza lasciare tracce.
Per Ol’ga e Maxim, tutto ciò apparteneva ormai al passato. Ora li univa un presente caldo, autentico, capace di resistere a qualsiasi dolore passato.