«Ho incontrato un bambino cieco di tre anni abbandonato sotto un ponte, che nessuno desiderava. L’ho accolto a casa mia e l’ho cresciuto con tutto l’amore di un vero genitore.» Ask ChatGPT

«C’è qualcuno là?» sussurrò Anna, mentre la flebile luce della torcia illuminava il sottoponte.

Il freddo le entrava nelle ossa, e il fango autunnale si attaccava alle scarpe, rendendo ogni passo più faticoso. Dopo un turno di dodici ore in ambulatorio, le gambe le bruciavano di stanchezza, ma quel debole singhiozzo nell’oscurità le fece dimenticare tutto.

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Scese con cautela lungo il pendio scivoloso, aggrappandosi alle pietre bagnate. Il fascio di luce rivelò una piccola figura rannicchiata contro un pilastro di cemento: piedi nudi, camicetta zuppa, il corpo sporco di terra.

«Dio mio…» esclamò, correndogli incontro.

Il bambino non reagiva alla luce. I suoi occhi, coperti da una foschia, restavano fissi e immobili. Anna fece scorrere la mano davanti al suo viso, ma nulla cambiò.

«È cieco…» mormorò, sentendo il cuore stringersi.

Togliendosi la giacca, lo avvolse delicatamente e lo strinse a sé. Il suo corpo era gelido.

Il maresciallo Nikolaj Petrovic arrivò solo un’ora dopo. Ispezionò la zona, annotò qualcosa sul taccuino e scosse la testa:

«Probabilmente qualcuno lo ha abbandonato qui, forse lasciato nel bosco. Ultimamente questi casi non sono rari. Sei ancora giovane; domani lo porteremo all’orfanotrofio.»

«No,» rispose Anna con fermezza, tenendo stretto il bambino. «Non lo lascerò andare. Lo porto a casa con me.»

A casa, riempì una vecchia bacinella d’acqua tiepida e pulì con cura il fango dal piccolo corpo. Lo avvolse in un lenzuolo morbido a margherite, lo stesso che sua madre aveva sempre tenuto “per ogni evenienza”. Il bambino mangiava poco e non parlava, ma quando Anna lo mise accanto a sé, lui afferrò il suo dito e non lo lasciò più per tutta la notte.

La mattina dopo, sulla soglia apparve sua madre. Vedendo il bambino addormentato, trasalì.

«Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?» sussurrò, per non svegliarlo. «Hai solo vent’anni, nessun marito e nessun mezzo per mantenerti!»

«Mamma,» rispose Anna con dolce fermezza, «è una mia scelta, e non cambierò idea.»

«Santo cielo, Anna… E se i genitori tornassero a cercarlo?»

«Dopo tutto quello che ha passato? Che provino.»

La madre se ne andò sbattendo la porta. Quella sera il padre, senza una parola, lasciò sulla soglia un cavallino di legno — un giocattolo di stoffa che aveva intagliato lui stesso — e disse piano:

«Domani porto delle patate e un po’ di latte.»

Era il suo modo di dire: «Sono con te.»

I primi giorni furono i più difficili. Il bambino rimaneva in silenzio, mangiava poco e sobbalzava a ogni rumore improvviso. Ma dopo una settimana imparò a cercare la mano di Anna nel buio, e quando lei cantava la ninna nanna, sul suo volto appariva il primo sorriso.

«Ti chiamerò Petja,» decise un giorno, dopo avergli fatto il bagnetto e pettinato i capelli. «Ti piace questo nome? Petja…»

Il bambino non rispose, ma si strinse a lei.

Nel villaggio iniziarono a circolare voci. C’era chi lo compativa, chi lo giudicava, chi restava stupito. Ma Anna non si curava di niente. Il suo mondo era quel piccolo esserino a cui aveva promesso una casa, calore e tanto amore, e per questo era pronta a tutto.

Passò un mese. Petja sorrideva al suono dei passi di Anna. Aveva imparato a tenere il cucchiaio e, quando lei stendeva il bucato, cercava di aiutarla: tastava le mollette nel cestino e gliele passava.

Una mattina, seduta accanto al lettino, il bambino allungò la mano verso il suo viso, le accarezzò la guancia e disse, piano ma chiaro:

«Mamma.»

Anna rimase senza parole. Il cuore le balzò in gola e poi batté così forte da toglierle il respiro. Prese le sue piccole mani nelle proprie e sussurrò:

«Sì, tesoro. Sono qui, e starò sempre con te.»

Quella notte quasi non dormì: rimase al suo fianco, accarezzandogli la testa e ascoltando il suo respiro regolare. Al mattino il padre bussò alla porta.

«Conosco qualcuno in amministrazione,» disse porgendole il cappello. «Ti sistemerò la tutela, non preoccuparti.»

A quel punto Anna scoppiò in lacrime, non di dolore, ma di una gioia immensa che finalmente la travolgeva.

Un raggio di sole accarezzò la guancia di Petja. Lui non batté ciglio, ma appena sentì qualcuno entrare, un piccolo sorriso gli illuminò il volto.

«Mamma, sei venuta,» disse con sicurezza, seguendo la sua voce.

Quattro anni passarono. Petja ne aveva sette, Anna ventiquattro. Il bambino conosceva ormai ogni angolo di casa: ogni soglia, ogni gradino, ogni scricchiolio del pavimento. Si muoveva con sicurezza, come se avesse una vista interiore invece che gli occhi.

«La gatta Mila è sulla soglia,» annunciò un giorno, versandosi un bicchiere d’acqua. «I suoi passi sono come il fruscio dell’erba.»

La gatta rossa divenne la sua compagna fedele. Sembrava capire che Petja era speciale e non lo lasciava mai quando lui cercava la sua zampa.

«Bravo,» lo baciò Anna sulla fronte. «Oggi verrà qualcuno che potrà aiutarti ancora di più.»

Quella persona era Anton Sergeevic, un nuovo vicino trasferitosi nella casa di sua zia. Uomo magro, con qualche capello bianco alle tempie, carico di libri e appunti accumulati in anni di studi. In paese lo chiamavano “lo strambo cittadino”, ma Anna vide subito la bontà che Petja tanto aveva bisogno.

«Buongiorno,» disse Anton entrando con passo gentile.

Petja, solitamente diffidente con gli estranei, tese la mano:

«Salve. La sua voce… sembra miele.»

Il maestro si inginocchiò per guardarlo in volto.

«Hai un udito da vero musicista,» rispose, tirando fuori dalla borsa un libro con pagine punteggiate. «Questo è per te: è in Braille.»

Petja sfiorò le prime righe con le dita e, per la prima volta, sorrise a tutto volto:

«Sono lettere? Le sento!»

Da quel giorno Anton tornò ogni giorno. Insegnò a Petja a leggere con le dita, a scrivere i suoi pensieri e a “vedere” il mondo con tutto il corpo: ascoltare il vento, distinguere gli odori, percepire le emozioni nelle voci.

«Sente le parole come altri sentono la musica,» confidò ad Anna una sera, mentre il bambino dormiva sfinito dopo le lezioni. «Il suo udito è da poeta.»

Petja raccontava spesso i suoi sogni:

«Nel sonno vedo i suoni. I forti sono rossi, i lievi azzurri, come la tua voce quando pensi di notte. E verdi quelli vicino a Mila.»

Gli piaceva sedersi accanto alla stufa, ascoltare lo scricchiolio della legna:

«La stufa parla quando sta bene. Se ha freddo, tace.»

A volte traeva conclusioni sorprendenti:

«Oggi sei come un’arancia: calda. Ieri il nonno era blu-grigio: triste.»

La vita scorreva tranquilla. L’orto dava abbastanza cibo, i genitori aiutavano, la domenica Anna preparava una torta che Petja chiamava “sole nel forno”. Il ragazzo raccoglieva erbe aromatiche, riconoscendole dal profumo. Sentiva la pioggia prima della prima goccia e diceva:

«Il cielo si piega e inizia a piangere.»

I paesani lo compativano:

«Povero ragazzo. In città lo avrebbero mandato in una scuola speciale. Forse sarebbe diventato qualcuno di importante.»

Ma Anna e Petja non volevano sentirne parlare. Quando una vicina tornò a insistere per “sistemarlo per bene”, Petja rispose deciso:

«Là non sento il fiume. Non percepisco il profumo dei meli. Qui vivo.»

Anton registrava i suoi pensieri su un nastro. Una volta li lesse nella biblioteca del distretto durante una serata di racconti per bambini. Il pubblico rimase in silenzio, col fiato sospeso. Alcuni piansero, altri fissarono il vuoto come se stessero ascoltando qualcosa di fondamentale.

Al ritorno, Anton raccontò ad Anna le reazioni:

«Non è solo un bambino con disabilità. Riesce a vedere il mondo dentro di sé. Come noi abbiamo dimenticato.»

Da quel giorno nessuno propose più di mandare Petja in un istituto. Anzi, altri bambini iniziarono a venire a sentirlo raccontare. Il presidente del villaggio stanziò fondi per acquistare libri in Braille.

Petja non era più “il bambino cieco”, ma colui che offriva una visione unica della realtà.

«Oggi il cielo suona come un campanello,» disse un mattino, rivolgendosi al sole.

Aveva tredici anni. Era cresciuto, alto e slanciato, i capelli schiariti dal sole estivo, la voce più profonda di molti coetanei.

Anna aveva trent’anni. Il tempo le aveva lasciato solo qualche sottile ruga agli angoli degli occhi, dove nasce il sorriso. E lei sorrideva spesso, perché sapeva che la sua vita aveva un grande significato.

«Andiamo in giardino,» propose Petja, prendendo il bastone. Raramente lo usava in casa — conosceva il cortile palmo a palmo — ma nel bosco o in città era indispensabile.

All’ingresso si fermò, allarmato:

«Sta arrivando qualcuno. Un uomo. Passi pesanti, ma non di vecchio.»

Anche Anna si fermò ad ascoltare. Oltre la siepe, davvero c’era qualcuno.

Dopo un momento, apparve un uomo sconosciuto. Alto, spalle larghe, volto abbronzato, occhi chiari.

«Buongiorno,» salutò, sollevando appena il capo come per togliersi un cappello invisibile. «Mi chiamo Igor. Sono qui per lavoro: devo riparare il silos.»

«Salve,» rispose Anna asciugandosi le mani sul grembiule. «Venite da noi?»

«Sì,» sorrise Igor. «Mi hanno detto che qui si può affittare una stanza per la durata dei lavori.»

Improvvisamente Petja si fece avanti e porse la mano:

«La sua voce è come una vecchia chitarra. Calda, un po’ impolverata, ma gentile.»

Igor, sorpreso, strinse la mano con fermezza:

«E tu sei un poeta.»

«È il mio musicista delle parole,» sorrise Anna, invitandolo a entrare.

Igor era un ingegnere solitario che viaggiava riparando macchine agricole. Aveva trentacinque anni. Sua moglie era morta tre anni prima e non aveva figli. Doveva restare un mese per i lavori al silos.

Ma dopo una settimana era già parte della loro vita. La sera, dopo il lavoro, sedeva in veranda con Petja e parlavano di tutto: motori, metalli, come funzionano le cose.

«Il trattore ha un cuore?» chiedeva il bambino, accarezzando Mila.

«Sì. È il motore. Batte come un cuore, solo più regolare,» rispondeva Igor, e Petja annuiva, immaginando quel battito meccanico.

Quando in primavera il tetto cominciò a gocciolare, Igor salì in soffitta e riparò la perdita. Sistemò la recinzione, il pozzo e il cancello cigolante. Lavorava con cura, senza fretta, per un risultato duraturo.

La sera, quando Petja dormiva, Anna e Igor bevevano il tè in cucina, parlando di libri e dei percorsi della vita. Di perdite. Di nuove speranze.

«Ho visto molti posti,» raccontava lui, «ma una casa come questa mai.»

Quando arrivò il momento di partire, Igor si fermò sulla soglia con lo zaino in spalla e disse, con un cenno timido:

«Tornerò tra due settimane. Se mi permettete…»

Anna annuì. Petja si fece avanti e lo abbracciò:

«Torna, per favore. Ormai siete dei nostri.»

E lui tornò. Prima ogni due settimane, poi ogni mese. In autunno trasferì definitivamente le sue cose in paese.

Il loro matrimonio fu semplice e intimo, celebrato in casa con pochi familiari, fiori raccolti nell’orto e una camicia bianca scelta insieme. Petja stette accanto allo sposo e, al brindisi, disse:

«Non vi vedo, ma so che brillate. E la mamma è il sole più caldo.»

Nel silenzio si udirono mele cadere sull’erba.

Ora erano in quattro: Anna, Igor, Petja e la gatta rossa Mila, che amava dormire sul davanzale al sole.

Anton continuò le sue lezioni. Petja scriveva storie meravigliose, pubblicate su riviste specializzate. Le sue parole risuonavano oltre il villaggio.

Un giorno proposero a Igor un buon lavoro in città, con ottime prospettive di carriera. Anna, Igor e Petja ne discussero a lungo. Dopo un momento di silenzio, Petja disse:

«Qui sento il fiume, gli alberi e la terra. Qui vivo.»

Igor rifiutò l’offerta senza esitazione.

«Sai,» disse una sera sorseggiando il tè, «ho capito una cosa: la felicità non sta nei luoghi nuovi né nei titoli, ma nell’essere indispensabili a qualcuno.»

Petja, sfiorando le pagine del suo libro in Braille, alzò lo sguardo e chiese:

«Posso raccontare quello che ho scritto oggi?»

«Certo,» sorrise Anna.

«La neve è quando il cielo rallenta il suo discorso e fa una pausa. E la mamma è la luce che trovi sempre, anche nel buio. Non sono cieco. I miei occhi sono diversi.»

Anna strinse la mano di Igor. Fuori cadeva la prima neve, la stufa ardeva e la vita scorreva serena.

Negli occhi di Petja brillava qualcosa di invisibile: un bagliore che non si può vedere con gli occhi, ma solo sentire col cuore.

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