Nel 1980, un bambino non vedente arrivò all’improvviso nella mia vita; lo crescii come un figlio, ma mai avrei potuto prevedere il destino che lo attendeva.

«Chi sta piangendo là fuori? Stepan, senti anche tu? In una notte così cupa, qualcuno sta davvero piangendo!»

— «Sarà solo il vento che ulula, Katyusha. Quali lacrime potrebbero esserci in una notte del genere…»

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Senza nemmeno prendere la sciarpa, corsi fuori sul portico. La pioggia autunnale mi sferzava il viso, ma io continuavo a scrutare nel buio.

All’improvviso, di nuovo quel suono. Non era vento, ma un pianto umano, così debole, così fragile.

Sull’ultimo gradino, avvolto in una vecchia sciarpa, c’era un fagotto. Dentro, un bambino di circa tre anni, con gli occhi spalancati ma lo sguardo perso. Non batté ciglio quando gli avvicinai la mano al viso.

Stepan uscì in silenzio, prese il fagotto tra le braccia e lo portò dentro.

— «È volontà del cielo,» disse, posando il bollitore. «Lo terremo con noi.»

La mattina seguente ci recammo all’ospedale del distretto. Il dottor Semyon Palych sospirò profondamente:

— «È cieco, probabilmente dalla nascita. Non parla, ma risponde ai suoni. Il suo sviluppo è incerto. Ekaterina Sergeyevna, sa che ci sono tanti bambini così negli orfanotrofi…»

— «No,» risposi con dolce fermezza. «Non lo so, e non voglio saperlo.»

Più tardi, grazie all’aiuto di Nina del consiglio del villaggio, una parente lontana di mia madre, sistemammo tutto come un’adozione. Lo chiamammo Ilya, in memoria del nonno di Stepan.

Quella sera tornammo a casa come una famiglia.

— «Come faremo?» balbettò Stepan, tenendo il piccolo mentre aprivo la porta.

— «Impareremo, ce la faremo,» risposi, anche se non ero sicura di crederci davvero.

Dovetti lasciare temporaneamente il lavoro a scuola: Ilya richiedeva cure continue. Non vedeva i pericoli, non sapeva dove finisse il portico o dov’era la stufa.

Stepan lavorava duramente nei campi, tornava stanco, ma ogni sera costruiva qualcosa per Ilya: corrimani lungo le pareti, corde nel giardino per aiutare il bambino a muoversi.

— «Guarda, Katyusha, sta sorridendo,» disse Stepan per la prima volta da quando Ilya era arrivato, mostrando come il piccolo sentisse la sua mano ruvida.

— «Ti riconosce dalle mani,» sussurrai.

I vicini si divisero: alcuni mostravan compassione, altri condannavano. I primi aiutavano con cibo e supporto, gli altri bisbigliavano:

— «A che serve tenerlo? Sono sani, potrebbero avere figli loro.»

Mi infuriava, ma Stepan disse con saggezza:

— «Non sanno, non capiscono. Neanche noi sapevamo, prima di Ilyusha.»

Con l’arrivo dell’inverno, Ilya cominciò a dire le prime parole, lentamente:

— «Ma-ma.»

Rimasi senza parole, con un cucchiaio in mano, mentre dentro di me qualcosa cambiava profondamente.

Non mi ero mai considerata madre, solo insegnante, moglie, donna di campagna. E ora…

La sera, dopo che Ilya si addormentava, studiavo vecchi libri per capire come insegnare a un bambino cieco. Lo guidavo a toccare oggetti, nominavo superfici e ascoltavamo insieme i suoni del villaggio.

— «Non perdere la speranza,» disse Baba Dunya con un secchio di latte. «I bambini ciechi hanno orecchio e mani più sensibili. Potrebbe sorprenderci.»

— «Non la perdo,» risposi. «Semplicemente non sappiamo come fare. Lo amiamo, e basta.»

— «E questo è ciò che conta,» concluse la vecchia. «L’amore vince tutto.»

Con la primavera, Ilya mi seguiva per casa aggrappato al grembiule, riconosceva Stepan dai passi e sorrideva ai bambini del vicinato.

— «Sai Katyusha,» disse Stepan abbracciandomi, «non siamo stati noi a trovarlo. È lui che ha trovato noi.»

[…]

Il mio mondo non è buio, come molti pensano, ma pieno di suoni, odori, tocchi.

Ricordo il calore delle mani di mia madre, la voce di un ruscello, le mani ruvide di mio padre.

Non ho mai conosciuto la vista, ma ho imparato a “vedere” con le mani, le orecchie, il cuore.

La mia vita è una sinfonia di suoni e sensazioni.

Ho imparato l’alfabeto a memoria, ho raccontato storie nate dal rumore della pioggia o dal cigolio di una porta.

Quando vennero a portarmi via, capii che la cecità significa anche essere in pericolo, ma avevo chi mi proteggeva.

Papà costruì per me una stanza, e con la guida di mamma imparai a padroneggiare il mondo.

Ora racconto le mie storie al mondo e aiuto altri come me.

Ho una famiglia, una casa piena d’amore, e un mondo più ricco di colori di molti che vedono.

E se mi chiedete se vorrei vedere come gli altri, rispondo:

«Chi ha detto che io vedo meno?»

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