Quando Anna si accorse che Lily, quindici anni appena, spariva in bagno ogni pomeriggio, chiudeva la porta a chiave e ne usciva con gli occhi gonfi e lucidi, il sangue le si gelò. La immaginò in pericolo, in silenzio, con un peso troppo grande da portare. Ma la verità, quando finalmente venne a galla, non era quella che temeva… eppure le spezzò il cuore in un modo che non aveva previsto.
Sono diventata madre single quando Lily aveva quattro mesi. Mio marito se ne andò una mattina come si chiude un rubinetto: senza spiegazioni, senza coraggio, lasciando solo un foglietto sul tavolo della cucina.
«Non ce la faccio. Mi dispiace.»
La verità è che non sopportava l’idea di essere padre. Le notti senza sonno, il pianto continuo, quella piccola vita che dipendeva da lui come un’àncora al collo. Fece la valigia e sparì, lasciandomi con una neonata, una pila di bollette e una paura che mi stringeva la gola a ogni scadenza.
I primi anni furono un campo di battaglia. Lavoravo doppi turni alla tavola calda, spesso sedici ore di fila, con l’odore di caffè e olio addosso e i piedi che bruciavano come brace. Mi ripetevo che era solo un periodo, che avrei resistito, che prima o poi avremmo respirato.
In quel tempo mia madre fu il mio salvagente. Si prendeva cura di Lily mentre io ero via: la cullava quando piangeva, le scaldava il biberon, le parlava con quella dolcezza che ti rimette al mondo. Io tornavo a casa sfinita, con la divisa stropicciata e la testa che pulsava, ma bastava vedere il viso di mia figlia perché tutto il resto si facesse più piccolo.
Non è stato facile, mai. Ci sono state notti in cui mi addormentavo con le lacrime sul cuscino, chiedendomi se stessi facendo abbastanza. Giorni in cui dovevo scegliere tra la bolletta della luce e un paio di scarpe nuove perché le vecchie le stringevano i piedi. Però, a forza di pazienza e testardaggine, siamo andate avanti. E piano piano le cose hanno iniziato a migliorare.
Ora Lily ha quindici anni ed è il mio mondo intero. Ogni turno, ogni rinuncia, ogni “va bene, resisto ancora” è stato per lei. Lavoro ancora tanto alla tavola calda, servendo uova e caffè a camionisti stanchi e famiglie di passaggio, ma non mi lamento: sto costruendo un futuro in cui mia figlia possa scegliere, non solo sopravvivere. Voglio che studi, che viaggi, che diventi ciò che desidera.
Poi, due mesi fa, qualcosa è cambiato.
Prima tornava da scuola e parlava a raffica: delle lezioni, delle amiche, di ciò che l’aveva fatta ridere. Un giorno, all’improvviso, il silenzio. Entrava, lasciava lo zaino nel corridoio e andava dritta in camera senza nemmeno guardarmi.
«Com’è andata oggi?» chiedevo.
«Bene.» spalle alzate, voce piatta. E fine.
E poi arrivò il bagno.
Ogni singolo pomeriggio Lily spariva lì dentro per quasi un’ora. Chiudeva a chiave. Io bussavo, trattenevo il fiato, provavo a non far tremare la voce.
«Tesoro… stai bene?»
Niente. A volte un soffio: «Sto bene, mamma. Lasciami.»
Quando usciva, aveva gli occhi rossi, gonfi, come se avesse pianto fino a non avere più lacrime. Il viso arrossato. E quel modo di evitarmi, di scivolare via accanto a me come se io fossi un muro.
Ho provato tutto per farla parlare. Le cucinavo i suoi piatti preferiti, sperando che a tavola si aprisse. Le proponevo un film, una serata sul divano come quando era bambina. Mi sono persino presa un giorno libero — una cosa che non mi posso permettere quasi mai — solo per stare con lei. Niente. Più provavo ad avvicinarmi, più lei si chiudeva.
E allora la mia mente è scivolata nel peggiore dei posti.
Si faceva del male? La bullizzavano? Era successo qualcosa a scuola? O… Dio mio… era incinta?
La casa si era trasformata in un luogo pieno di spigoli. Camminavo sulle uova, con il cuore sempre in allerta. Dormivo poco, fissavo il soffitto e immaginavo scenari che mi facevano sudare freddo.
Poi, un giovedì, scoprii la verità.
Quel pomeriggio la tavola calda era insolitamente vuota. Il mio capo mi disse che potevo uscire prima. Non me lo feci ripetere: presi la borsa e corsi a casa, pensando che forse avrei potuto sorprenderla, regalarci un’ora insieme.
Quando entrai, la casa era troppo silenziosa. Niente musica, niente passi al piano di sopra. Solo quel vuoto che ti fa drizzare la pelle.
«Lily? Tesoro, sono tornata prima!»
Salii e aprii la porta della sua stanza: il letto era perfetto, come al mattino. E in quel momento sentii un suono smorzato dal corridoio: un pianto trattenuto, spezzato.
Dal bagno.
Mi avvicinai alla porta chiusa e il panico mi attraversò come una scarica. Le mani mi tremavano mentre bussavo più forte.
«Lily! Apri subito!»
Il pianto si fermò di colpo.
«Mamma?» La sua voce era piccola, sorpresa. Spaventata.
«Sì, amore. Apri. Per favore.»
«Non posso… vai via.»
«Non me ne vado.» La mia voce uscì più dura di quanto volessi. «O apri tu, o apro io.»
Silenzio. E qualcosa dentro di me cedette. Non potevo restare ancora una volta fuori da quella porta, impotente, mentre mia figlia cadeva a pezzi.
Diedi una spallata. La serratura vecchia cedette e la porta si aprì con un colpo secco.
Quello che vidi mi bloccò.
Lily era seduta sul pavimento freddo, circondata da vecchie trousse di trucchi che riconobbi subito: erano le mie, dimenticate in fondo a un cassetto da anni. Pettini, forcine, elastici… sparsi ovunque, come un laboratorio improvvisato. Davanti a lei c’era uno specchietto e, attaccata alla cornice, una fotografia.
Una mia foto a quindici anni. Quella dell’annuario. Io che sorridevo con i capelli impeccabili e il trucco perfetto, come se avessi il mondo in mano.
«Lily… che cosa stai facendo?» sussurrai, inginocchiandomi.
Lei crollò.
Si coprì il viso con le mani e singhiozzò come se si fosse tenuta dentro l’oceano per settimane.
«Mi dispiace, mamma… mi dispiace tanto.»
«Per cosa, amore? Parlami. Ti prego.»
Inspirò tremando, poi alzò lo sguardo. I suoi occhi erano un dolore vivo.
«A scuola mi prendono in giro. Ogni giorno.» La voce le si spezzava a tratti. «Ridono dei miei capelli perché… perché non sono lisci come i loro. Mi chiamano “crespa”. Quando passo indicano i brufoli e sussurrano. E poi… i vestiti. Fanno battute perché sanno che non posso comprare le marche che hanno loro.»
Sentii le mani chiudersi a pugno, senza rendermene conto.
«Ma la cosa peggiore…» continuò, ingoiando un singhiozzo, «è successa la settimana scorsa. Madison ha trovato la tua foto dell’annuario online. Non so come. L’ha mostrata a tutti in mensa. E ha detto che io… io non ti somiglio. Che sono la versione economica di mia madre.»
Quelle parole mi colpirono come uno schiaffo. Come se qualcuno avesse preso il cuore e l’avesse stretto fino a farmi mancare il fiato.
Lily indicò il trucco intorno a sé.
«Allora vengo qui ogni giorno. Provo a truccarmi come facevi tu. A sistemarmi i capelli. Guardo tutorial e riprovo e riprovo… ma non mi viene. Non riesco a farmi… carina abbastanza.»
Poi disse la frase che mi ruppe del tutto.
«Non voglio deluderti, mamma.» Le lacrime le tremavano sulle ciglia. «Non voglio che tu ti vergogni di me. Non voglio che mi guardi e pensi che… che avresti voluto una figlia più bella. Tutti dicono quanto eri bellissima al liceo. E poi guardano me come se fossi… un errore.»
Sentii le lacrime salire senza chiedere permesso.
«Oh, Lily… amore mio, no.» Le presi il viso tra le mani con delicatezza, costringendola a guardarmi. «Ascoltami bene. Quella ragazza nella foto? Non era felice. Quel sorriso era una maschera. Passavo ore davanti allo specchio perché ero convinta che, se fossi stata perfetta, qualcuno mi avrebbe finalmente voluto bene. E invece dentro avevo paura. Ero piena di insicurezze. Mi sentivo piccola.»
Lily mi fissava, immobile.
«La bellezza non mi ha salvata, tesoro. Non mi ha reso felice. Sai cosa mi rende felice? Tu. Tu, esattamente come sei.»
«Ma non sono bella come te…» sussurrò.
«Tu sei molto più della parola “bella”. Sei intelligente, gentile, spiritosa, creativa. Hai un cuore enorme. E io… io sono stata così presa dal lavoro e dai conti che non mi sono accorta che stavi combattendo da sola. Avrei dovuto dirti ogni giorno quanto vali. Avrei dovuto guardarti negli occhi e farti sentire al sicuro.»
La strinsi a me. E restammo lì, sedute sul pavimento del bagno, a piangere e respirare insieme, come se finalmente avessimo trovato una fessura di luce.
Quando i singhiozzi si calmarono, parlammo davvero. Le raccontai delle mie paure di ragazza, delle volte in cui avevo creduto di non essere abbastanza. Lei mi disse ancora di Madison e Brooke, dei commenti quotidiani, di come le facevano sentire la pelle sbagliata addosso.
«Da oggi cambiamo le regole,» le promisi. «Un giorno a settimana torno a casa prima. E avremo la nostra ora insieme davanti allo specchio.»
Lei mi guardò confusa.
«Non per trasformarti in qualcuno che non sei,» aggiunsi subito, «ma perché, se vuoi imparare trucchi e capelli, lo facciamo insieme. Per gioco. Per ridere. Per divertirci. Non per meritarti rispetto.»
Un sorriso piccolo, fragile, le spuntò tra le lacrime.
«Davvero?»
«Davvero. E mi devi promettere una cosa: se ti dicono ancora qualcosa, me lo dici subito. Parleremo con la scuola, con gli insegnanti, con chi serve. Non ti lascio più sola in questa battaglia.»
Annui, e appoggiò la testa sulla mia spalla come quando era bambina.
Le settimane successive non furono magia, ma furono cambiamento. Ogni mercoledì, come promesso, tornavo prima. Ci sedevamo in bagno, provavamo look improbabili, ridevamo quando sbagliavamo eyeliner e ci veniva una linea storta da film horror. A volte non usavamo niente: solo trecce, chiacchiere e gelato mangiato direttamente dalla vaschetta.
Piano piano Lily ricominciò a respirare. Tornava da scuola e non correva subito a chiudersi. Mi raccontava qualcosa. Sollevava la testa un po’ di più quando usciva di casa.
E un pomeriggio, mentre preparavo la cena, disse una frase che mi gonfiò il petto di un orgoglio pieno di tenerezza.
«Mamma… non chiudo più a chiave la porta del bagno. Non ho più bisogno di nascondermi per sentirmi carina. Avevo solo bisogno di sapere che tu mi ami così come sono.»
Posai la spatola, mi voltai e la abbracciai forte. Piansi di nuovo, sì. Ma stavolta erano lacrime diverse: non di paura, non di dolore.
Erano lacrime di sollievo. Di amore. E di gratitudine per la ragazza coraggiosa che stava imparando a vedersi come l’avevo sempre vista io.
Perfetta, esattamente nel suo modo di essere.